sabato 31 maggio 2008

Presa di coscienza


Marisa e Donatella a 4 mesi - Milano 1967

Non so cosa fosse che mi ha sempre bloccato dal percepire la mia vita in tutta la sua drammaticità. Forse un tentativo di difesa, cercare di preservare ciò che di buono mi sembrava aver raggiunto. Quelle immagini così crude nella loro violenza con gli anni sono state rielaborate dalla freddezza della ragione, spogliate della loro forza emotiva come per convincermi di non averle mai vissute, o vissute un po’ meno. Comunque fosse, è la mia stessa vita che periodicamente mi ripropone l’occasione di soffermarmi su quei ricordi, e io, ogni volta cerco il modo più rapido per allontanarmici. Non ho coscienza di quale sia stato il momento esatto in cui mi sono resa conto che c’era qualcosa nella mia vita che non rispecchiava una certa imposta “normalità”. Probabilmente un “pot pourri” di eventi simili a quello di mia mamma, rigorosamente celata dietro occhiali scuri, che mi veniva a prendere all’asilo con andatura oscillante. Ma so, per certo, che quel momento c’è stato e le cose da allora hanno cominciato ad avere un aspetto differente. Quel momento ha significato la distorsione della percezione delle cose stesse, un’immersione totale in un mondo sofferente e delirante che mi accompagna ancora oggi. Ho voluto tentare di relegare in una parte remota della memoria quelle immagini e quelle sensazioni inopportune, che invece di tanto in tanto ritornano in modo forte e violento.

Era la sua totale e completa trasformazione che mi perseguitava e, a suo modo, mi perseguita anche adesso. Sento ancora forte, come se la provassi ora, quel terrore di non sapere cosa mi aspettasse dietro alla porta di casa. Al ritorno da scuola, tutti i miei sensi analizzavano ogni possibile segnale: lo sguardo del portinaio, l’odore acre sul pianerottolo, la porta chiusa a chiave e ogni piccolo dettaglio mi portava ad intuire come avrei passato i momenti futuri.
E poi entrando in casa, quella sberla nell’anima, quella sensazione infinita di non potercela fare e lei era già lì in piedi davanti a me con le pretese di riuscire a nascondere il fatto di essere ubriaca fradicia. Giorno dopo giorno, anno dopo anno, lei era lì, era sempre lì come un copione sgualcito, senza mai un momento d’improvvisazione.
Ed era sempre lì anche quando non c’era. La sua esistenza opaca e triste ha invaso un enorme spazio della mia e resta un bagaglio che mi porto dietro nel mio ruolo di figlia, di madre, di moglie e di donna.
Da bambina ho subito tutto il dramma di essere figlia di un’alcolista senza capire, ho subito senza essere in grado di elaborare quale bombardamento emotivo stava sconvolgendo la mia esistenza. Da adulta subisco le conseguenze di quelle immagini che non potevo non vedere e che allora non ho potuto scegliere di non vedere. In seguito ho voluto scegliere di evitare la sofferenza convincendomi di non aver visto. Ho provato a scappare chiudendo tutto a chiave nell’inconscio, lasciando, invece, grossi buchi nel profondo del mio spirito.
Ci sono molti eventi della mia infanzia che ho cacciato così in fondo alla mia memoria che non riesco più a farli riaffiorare, eppure adesso vorrei poter ricordare per capire, capire la mia sofferenza e quella di mia mamma. Bisogna avere ricordi da poter odiare, che sia importante riuscire a visualizzare l’avversario per poterlo sconfiggere.

Ogni tanto mi chiedo se mia madre si sia mai resa conto delle conseguenze che il suo stato portava o anche lei viveva in uno stato di negazione perpetua che avvolgeva sia i momenti di sobrietà che i momenti di ubriacatura. Forse la sua sofferenza era troppo grande per essere affrontata. Quella stessa sofferenza che mia madre mi lascerà come unica eredità al momento della sua scomparsa.
Così, durante la mia infanzia c’è stata una lenta e dolorosa presa di coscienza che la mia “normalità” non era la stessa “normalità” degli altri. I piccoli segnali che pian piano notavo, gli occhiali scuri, le piccole tumefazioni sul viso, la loquacità eccessiva si andavano a ricomporre come i pezzi di un puzzle una immagine più ampia di ciò che era veramente mia madre.

Adesso che la vedo davanti a me, magra e così conciata da sembrare vent’anni più vecchia, sono torturata da emozioni contrastanti di amore e di odio.
La cannula dell’ossigeno, che ormai è parte integrante del suo ritratto, sembra quasi addolcirne i lineamenti segnati dalle continue sofferenze.
Non è stata in grado di opporsi al proprio destino e adesso ne paga le conseguenze. Vuole morire, dice. Non ce la fa più. Non posso biasimarla.

Alla scoperta degli “uomini rossi”!



Tutti i giornali riportano la notizia della scoperta della tribù degli “uomini rossi”, nel cuore dell’Amazzonia.
La tribù degli “uomini rossi”, chissà perché alle mie orecchie suona quasi derogatorio. Avrebbero potuto sforzarsi e dargli un bel nome di fantasia, che ne so, i Bow Chow o qualsiasi altra cosa. Il fatto di classificare usando aggettivi qualificativi, secondo me, da troppo peso al significato intrinseco dei singoli vocaboli e troppa importanza ad una visione “cilvità-centirica” (se si può dire così) del mondo.
Noi, i civilizzati, siamo capaci solo di vedere le cose partendo esclusivamente dal nostro punto di vista. Riuscire a prendere in considerazione che può esistere anche una diversa chiave di lettura, rimane ancora un esercizio troppo difficile per la maggior parte di noi.
Sorge comprensibilmente la domanda di cosa sia giusto fare, se giusto, è fare qualcosa. Conoscendo la nostra tendenza di dividere ogni cosa in giusto e sbagliato, dobbiamo sempre trovare una risposta a tutto. Proteggere la loro “selvaticità” o trovare il modo meno invasivo per contattarli e sottoporli ai “benefici” della nostra civiltà?
Non sono certo io quella che vuole trovarla questa risposta, ma mi sono divertita ad osservare le diverse reazioni della gente, me compresa. Opinioni sentite e riferite, che poi seguono, nè più nè meno, le diverse tipologie psicologiche delle varie persone con cui ho parlato, dal lupo solitario che desidera di fuggire da tutto e tutti, allo schiavo della tecnologia che sogna i microchip sottocutanei.

giovedì 29 maggio 2008

E ancora di mani si parla

Passo molto del mio tempo in bicicletta. Con gli anni è diventata quasi parte delle mie gambe. Amo i momenti in cui, nel “silenzio” della mia musica, mi ritrovo a pedalare immersa nei miei pensieri. Dopo la doccia è il posto dove la mia mente spazia di più!
Provo un estraniamento fisico da ciò che mi circonda che ha un effetto benefico sulla mia fantasia. Io e la mia bici, e l’aria in viso. Penso. Mi faccio domande e mi do risposte. Osservo la città, le singole persone nelle loro singole vite, chi va e chi viene.

Oggi mi è caduto lo sguardo sulle mie mani. In realtà le vedo tutti i giorni, ma oggi le ho guardate in modo diverso. C’è qualcosa che mi piace delle mie mani. Non che siano delle mani particolarmente belle, ma è da lì che sgorga la mia creatività, come un’onda, e io ne tengo conto. Le conosco da quando sono nata, ma oggi, oggi c’era qualcosa che ha attirato la mia attenzione: la texture venosa del dorso, mentre impugnavo il manubrio, è apparsa tutta ad un tratto sotto i miei occhi in tutta la sua prepotenza, quei rami bluastri emergono dalla pelle chiara come a ricordarmi l’età. Non mi ero ancora resa conto di quanto sporgessero.

E io che penso molto per immagini, sono stata portata indietro di parecchi anni. Fino alla mia scrivania di ragazza adolescente. Una rivista di moda aperta, fogli e matite sparsi. Un disegno appena abbozzato sul foglio di fronte a me. Una foto in bianco e nero risalta nella memoria offuscata. Un mezzo busto di Jessica Lange di profilo. In primo piano le sue mani venose all’altezza del viso.

mercoledì 28 maggio 2008

martedì 27 maggio 2008

Immagine



È un po’ che ho un’immagine in testa, quando penso di sedermi a scrivere qualcosa, cerco le parole per descriverla. In realtà è una cosa già vista, anche se poi nell’immaginazione prende una sua forma personale. Anzi, sto cercando proprio ora di concentrarmi sulle due immagini: la mia mentale e il ricordo di quella già vista cercando di sovrapporle. Non distinguo chiaramente, però, quale sia l’una e quale sia l’altra. E sinceramente non sono neanche sicura di ricordare bene.
Forse è la sensazione che l’immagine stessa mi lascia una volta che si allontana da me. Una discesa circolare dall’alto, un grande spazio, il colore bianco. Ah adesso, scrivendo mi si è sovrapposta un’altra immagine scaturita dalle parole appena scritte, che segue alla lettera la descrizione, ma non mi lascia la stessa sensazione. Il Guggenheim di New York, ecco no, non è quella la mia prima immagine. Quella originale ha i bordi sfuocati di un’immagine antica, nonostante fosse a colori.

lunedì 26 maggio 2008

Senza titolo n°3

Casi segnati nel colore del tempo,
rivoli di dense sentenze enunciate.
Va alla deriva l’umore instabile,
attende solo concordata disfatta.

E' l’intenzione volubile che guida,
laddove l’agire ha perso la forza.
Ancora una volta la vita mi chiama,
ma è capriccio chiassoso del vento.

Sorda al lieve segnale del corpo,
muta all’orecchio che ascolta.
Violente le mani in cui avevi fede,
respingo il dolore da dove è venuto.

domenica 25 maggio 2008

la talpa

prendetevi 10 minuti per tornare bambini e gustarvi un'animazione eccezionale. Si tratta di un personaggio russo (Edit: mi è stato ricordato dopo che è Ceco) e ringrazio la cara amica che me lo ha fatto conoscere.

Disgusto

Quando infilo le gambe sotto le lenzuola e avverto la sua presenza provo disgusto, una violenta repulsione per quello stesso corpo che anni fa m’inondava di una forte passione. Com’è possibile provare una sensazione così diversa adesso, per la stessa persona di allora.
Forse non è più la stessa persona.
O forse non lo sono più io.
Ogni notte vado a letto con lo stesso pensiero ed ogni mattina mi alzo facendo finta di non averlo pensato. Tento con tutte le mie forze di convincermi che è solo un momento, che passerà e che potrò fare finta che non sia mai esistito.
Invece, apro gli occhi e lo trovo ancora lì, come sempre invadente ed intenso.
La luce del sole mattutino si fa strada tra le fessure della tapparella semi aperta. Mi giro dall’altra parte per non vederla. Non sopporto essere svegliata dalla luce e sembra quasi che sia mia intenzione infliggermi una punizione dimenticandomi di prendermi cura dei dettagli.
Mi chiedo che ora sia, non sento rumori. Presto.
Lascio che il mio corpo rimanga immerso nel torpore e allontano dalla mia mente il pensiero di alzarmi. Allungo un piede e mi rendo conto di essere sola nel letto. Ciò m’infonde un senso di benessere. Mi spalmo per tutta la larghezza del letto affondando di nuovo in un sonno profondo.
L’odore di caffé viene a stuzzicare le mie narici nell’inutile tentativo di farmi alzare dal letto. Penso all’opportunità di gustarmi ancora qualche attimo di pace, o magari qualcosa di più. Faccio scivolare lentamente una mano verso le cosce e l’altra sul seno; mentre chiudo gli occhi ed entro nel mio mondo privato, il vociare lontano e i profumi passano in secondo piano per un piacevole quarto d’ora. Un sospiro.
È sabato, è una bellissima giornata, non posso far altro che indossare il mio sorriso migliore, mentre mi verso una bella tazza colma di caffé. Lui è seduto di fronte a me. Lo osservo, attraverso le risa dei nostri figli, in quegli attimi che gli servono per finire di sorseggiare il suo caffé. Per evitare commenti gioco d’anticipo e sorrido. Se solo riuscissi ad evitare il confronto, potrò mai colmare la voragine, che si è aperta tra noi, trovando anche solo un equilibrio? Una supposta convivenza all’insegna della “civiltà”.
Crisi, dal greco krisis: scelta, decisone, cambiamento nella vita di un individuo o della collettività, con effetti più o meno gravi o duraturi. Una collana di krisis intorno al collo.
La mia vita è sempre stata incorniciata da sentimenti forti, ma mi angoscio ora nello scoprirmi fredda ad emozioni semplici, senza riuscire a fare nulla. Rassegnazione, frustrazione o soltanto noia. Stanchezza per scelte forzate, uno strascicare i piedi nella terra polverosa. Difesa inconscia o pigrizia?

E poi inevitabilmente un giorno il disgusto passa, come passano i treni sotto la nostra finestra, sapendo che tanto tornerà. Con il destino di rimanere sempre qui immobilizzati in un circolo mortale e so che non è così che deve essere.
Soffro, sola nella mia disperazione di dover prima o poi prendere delle decisioni che sento più grandi di me. Destino non delegabile. Sono alla continua ricerca della causa, possibile che non sia io? Ho letto cose difficili da digerire, il senso di colpa mi ha ormai consumato. L’attesa che tutto si sistemi da solo è terminata; sono alla fine di un viaggio, un brutto viaggio. Ma quello che intravedo davanti a me non mi fa sorridere. Svilita nella mia interiorità, a cosa diavolo mi aggrappo ancora? Ho la responsabilità morale di uscirne, forse non a testa alta, ma almeno di uscirne. Per me e per loro, soprattutto per loro. Ho paura. Questa consapevolezza mi pesa come un macigno, mi manca il respiro eppure devo resistere e andare avanti. Io sono quella da salvare, ma è difficile crederlo.

Brum, brum, brum


Milano, 1969

venerdì 23 maggio 2008

Flasher

Stavo attraversando in bicicletta piazza Duca D’Aosta godendomi lo spazio aperto del piazzale sotto le ruote e l’imponente Stazione Centrale al mio fianco. La musica di Sam Cooke nelle orecchie e quel senso di libertà che mi accompagna in ogni mia isolata corsa cittadina.
Ad un tratto sento vibrare l’anca destra. Ecco, spesso non mi accorgo nemmeno, invece stavolta è lì che insistentemente segna la sua presenza: il cellulare. Di solito se sono presa da me stessa lascio squillare, ma il semaforo che stava per diventare rosso mi ha fatto infilare la mano in tasca, tolgo una cuffia e distrattamente rispondo tenendo l’occhio sul semaforo. “Sì? … Pronto? … Pronto? …” il semaforo diventa verde e tenendo il cellulare in mano attraverso la strada. Nessuna risposta. Sto per rimettere il cellulare in tasca quando vibra ancora. Automaticamente, pedalando, pigio il tasto per rispondere e con la coda dell’occhio vedo il display che si accende e mi rendo conto che è una videochiamata. Non mi ero resa conto perché non è una cosa che solitamente uso, quindi guardo meglio e vedo qualcosa che si muove. Mi fermo e osservando attentamente quella forma “insolita” ho realizzato: ecco è un enorme cazzo che svetta sul campo rosso di una maglietta. Sono scoppiata a ridere. E ho spento. C’è stato un altro tentativo di contatto, ma stavolta non ho risposto e sono ripartita sempre sulle note di Sam, pensando tra me e me che forse avrei potuto anche dire qualcosa. Pazienza.
Ero preparata a tutto, questo proprio non me lo aspettavo. Ne ho incontrati in metro, sugli autobus, di quelli che ti si appoggiano “innocentemente” e si strusciano. Di quelli che aprono all’improvviso la portiera dell’auto e te lo mostrano in tutta la sua salute, così come quelli classici apri e chiudi con l’impermeabile alla “ispettore Clouseau”. Milano ne è piena e la tecnologia indubbiamente avanza anche per loro.

I milanesi sono gente orribile … e se lo dico io!

L’altra sera sono uscita con mia sorella per il nostro appuntamento settimanale con il cinematografo. Spettacolo delle 20.00 in una zona relativamente chic di Milano: Corso Garibaldi.
Ci siamo incontrate un po’ prima con l’idea di chiacchierare un po’, e così ci siamo avviate lentamente lungo il corso. Il tempo tiepido, piacevole, sacchetto di patatine e bottiglietta d’acqua in mano. Tra una chiacchiera e l’altra, una risata e una battuta, ho cominciato ad osservarmi intorno.
Sarà che la mia vita sociale è rallentata negli ultimi anni ed esco meno, ma i cambiamenti avvenuti in zona non li ho ancora assimilati. Parte della zona pedonale, le panchine, i negozi, ma soprattutto il numero esagerato di locali e bar che non erano lì una volta e che nella mia mente non ci sono neppure ora.
Con il bel tempo e il divieto di fumare la gente tende a stazionare fuori molto più di una volta. Perfino Milano, che non è città che vive all’esterno comincia ad avere i gruppetti di persone che s’intrattengono all’aria (aria?) aperta.
L’attenzione poi è scivolata sui singoli personaggi. Continuando a camminare il mio occhio è passato dall’individuo alle auto posteggiate tutte enormi, nere e lucide. La mia bicicletta legata al palo in fondo alla strada aveva un non so che di “estraneo”.
Ho avuto un sensazione di disgusto. La folla peggiore è proprio quella dell'aperitivo. Giovinastri rampanti impomatati, appena usciti dai loro uffici, con sigaro in bocca e gessato! Donne così perfette che sembrano manichini dei grandi magazzini, scure e lucide esattamente come le loro auto. L’insolenza del loro atteggiamento, l’altezzosità dei loro movimenti. Tutti quelli sguardi giudicanti, mi veniva il volta stomaco.
“Voler apparire” è l’unica immagine che mi ha evocato l’osservazione di questa insipida fauna.

Ma com’è cambiata Milano. Ma com’è cambiata in peggio.
Ma è veramente solo un problema generazionale? Mia mamma pensava alla mia generazione come stramba, di conseguenza arrivata ad una certa età inevitabilmente devo essere tenuta a disapprovare le nuove generazioni? No, non penso. Forse è più una questione di valori.

mercoledì 21 maggio 2008

dio denaro

(allowance = paghetta)

Come, crescendo, si acquisisca il senso del valore del denaro non lo so. Osservo i miei figli, seguo da vicino il loro sviluppo cognitivo, psicologico ed emotivo, ma tutta la sfera riguardante l’evoluzione del loro rapporto con i soldi è un mistero. Finché sono piccoli piccoli, è un concetto troppo astratto per essere elaborato, come tutto ciò che concerne i numeri. Appena crescono un po’ e cominciano ad osservarsi intorno di più si rendono conto che il denaro nel mondo degli adulti ha una certa importanza e allora comincia ad entrare piano piano anche nel loro di mondo. Capiscono che esiste un qualcosa che si usa per comprare qualcos’altro, ma che cosa sia esattamente e da dove arrivi non ne hanno idea, come non hanno assolutamente idea del valore delle cose.
Passa un bel po’ di tempo prima che affrontino il concetto del guadagno. I genitori lavorano, perchè lavorano, il collegamento tra lavoro, guadagno e acquisto arriva molto lentamente. La loro percezione sfasata tra il denaro e il suo reale valore provoca anche situazioni comiche, di quelle che di solito si raccontano agli amici.

La domanda che mi pongo io ora è soprattutto una: riuscirò mai a passare loro valori morali abbastanza solidi in modo che abbiano un sano rapporto con il denaro una volta diventati adulti? In modo che non siano assillati dal possesso e dal potere che i soldi possono dare, in modo che sviluppino un sano equilibrio tra necessità e desiderio?

martedì 20 maggio 2008

Dove è finita la primavera?

Ma tutta questa pioggia?
Sono le lacrime degli italiani "coccodrilli" che piangono per aver votato Berlusconi ... seeee e io ci credo!

Basta!

Marco Travaglio, Travaglio Marco, Travaglio e anche Marco così come Marco più Travaglio. Fra un po’ il suo nome mi uscirà dalle orecchie, dagli occhi e dal naso! Con tutto il rispetto che ho per lui … preferivo quando lo conoscevamo solamente in due!
Non per lui, per carità, che ha sostituito l’angioletto nelle mie preghiere notturne; ma per tutte quelle persone che non fanno altro che nominarlo, invitarlo come ospite, screditarlo e perché no parlarne anche solo per sostenerlo.

Basta.

Tutto questo trambusto non fa altro che distogliere l’attenzione dell’opinione pubblica da tutte le azioni riprovevoli che i nostri ben amati politici stanno facendo o stanno pianificando di fare. Fiumi di parole scritte e dette per quel paio di affermazioni che non erano poi nulla di sensazionale, anche la signora del terzo piano lo aveva già detto giorni fa al macellaio che Schifani aveva brutte frequentazioni, e allora?

E allora io mi preoccupo che ci siano nel governo mine vaganti che fanno affermazioni pericolosissime, da crisi internazionale e quasi non se ne parla. In un paio di settimane soltanto alcune dichiarazioni hanno causato tensioni con la Libia, la Spagna, la comunità Rom e quella omosessuale (dimentico sicuramente qualcuno) … non ho parole.

Ma questo è soltanto quello che penso io che sono nessuno!

E poi ci si svuota ...

E poi ci si svuota. Hai buttato tutto fuori, lacrime e sangue. Non resta più nulla se non un involucro floscio che attende di essere colmato di nuovo.
Ma è l’attesa che ti strazia più della mancanza, l’essere “in sospeso”.
Hai deciso, hai mosso un piede in avanti e ora è lì che aspetta che l’altro lo raggiunga. È inevitabile che sia così, è conseguente che sia così, è coerente che sia così. Non puoi tornare indietro, quello spazio che hai appena lasciato non è più tuo.
Ma non sai, ma non puoi sapere, ma forse non vuoi sapere. E già cominci ad apprezzare il vuoto, come un’abitudine pigra. Il vuoto che accoglie.

sabato 17 maggio 2008

Farfalla

I miei quaranta sono arrivati in un momento della vita in cui sento particolarmente il logorio e la fatica di conciliare l’intimo con il mondo, che spesso mi mette davanti a scelte difficili e a situazioni frustranti. Vivo ogni giorno la difficoltà di essere donna, moglie, mamma in una società milanese che silenziosamente emargina.
Che dire? In pace con me stessa? Può essere.
Percepisco in me un’energia in costante ebollizione che non è facile da mettere in disparte. La sento, odo il suo richiamo, ma la mia attenzione e devozione sono necessarie altrove. I figli sono la mia creazione più grande e solo guardarli mi riempie d’orgoglio, anche se un’ingannata soddisfazione materna aleggia in una ritmata quotidianità casalinga poco più che sorridente.
Quella crisi, quella dell’immaginario collettivo, attesa quasi come l’arrivo di un treno in stazione, non è arrivata. O almeno non è arrivata nei modi impetuosi che mi aspettavo, è entrata quatta quatta dalla porta di servizio. Da crisalide a farfalla senza far troppo rumore.

Nel mio piccolo mondo ingarbugliato sopravvivo, cercando di mantenere lo stesso entusiasmo per la vita di sempre. Non rimpiango il passato come lontano, perché non lo sento perduto, l’effervescenza scriteriata della gioventù si è trasformata in una passione adulta e consapevole, senza fretta. Ho soffiato le candeline del compleanno circondata da affettuose presenze, un calore noto, confortante come la stessa certezza del sole che sorge.
Le prime rughe e i primi capelli bianchi non sono riusciti a turbarmi. Le vedo come un segno di saggezza ed equilibrio. mi fanno sentire di aver raggiunto una certa maturità,. L’estetica del fisico che invecchia non mi spaventa, apprezzo quello che il mio corpo mi ha dato giorno dopo giorno come un dono della vita. Il suo lento consumarsi è solamente indice di vita vissuta. Segna i momenti importanti della mia esistenza.
Gusto ogni giorno allo specchio l’orgoglio del mio ventre segnato che ha dato la vita due volte, osservo la fierezza dei miei morbidi seni che hanno nutrito le mie creature.
La mia bocca che ha baciato, urlato, cantato la vita.
I miei piedi che hanno proceduto per strade impervie.
Le mie mani che hanno dipinto sogni e descritto favole.
Occhi che hanno pianto e che hanno riso, tutto di me si ricollega alla mia memoria in modo unico e privato, riunisce sofferenze e gioie che mi hanno fatto crescere. Solo un osservatore attento ed intelligente può coglierne ed apprezzarne la vivace bellezza che non è intesa per tutti.

Non rinnego un passato scomodo che ha riempito la mia giovinezza, così come non rimpiango le mie antiche scelte, anche se a volte sono state difficili e mi hanno allontanato dalla meta. La gioia di esistere mi riempie l’anima e m’incoraggia a non fermarmi mai, ad andare avanti e a far mia quella voglia di sapere che porta alla saggezza. Con estrema pazienza sto ancora colmando le voragini culturali ed emotive che la mia gioventù mi ha lasciato in eredità. Ho imparato a mettermi in gioco in prima persona per convinzione e senza vergogna, perché voglio vivere ogni istante nella sua pienezza senza mai lasciar scorrere via attimi che potrebbero essere preziosi. La mia è stata una strada lunga e malagevole e di cammino davanti a me ne ho ancora molto, e molti ancora saranno gli ostacoli che dovrò fronteggiare, non voglio pensare di essere arrivata. Sento questo momento come un nuovo inizio, una fase da vivere appieno, ricca del mio pesante bagaglio e di una consapevolezza che da una luce nuova a vecchie esperienze. Nonostante gli inevitabili assalti che arrivano dal mondo, io posso affermare con sicurezza di amare, gioire e soffrire vivendo con dignità giorno dopo giorno ogni istante di questa vita che sento come qualcosa d’insostituibile.

senza "rotelle"

Sembrava Valentino Rossi. Lì ai giardini, che schizzava via come il vento con la sua mini bicicletta “senza rotelline”. Quella faccia furba piena d’orgoglio mentre mostrava le sue prodezze ai compagni d’asilo. Frenava e sgommava. Partiva, frenava e ripartiva con ghigno. Con quelle ruote minuscole e la pedalata corta, sembrava quasi decollare tanto le gambe giravano veloce. Gli amici tutti a rincorrerlo. E ogni tanto cadeva, e ogni tanto tirava sotto qualcuno, ma non sembrava gli importasse. Lui era sempre sorridente anche dopo essersi impastato contro la panchina con il cartello "vernice fresca" e si era ritrovato le gambe verdi a graffi. Ma fa niente. Lo sguardo invidioso degli altri bambini varrà pure qualche ammaccatura.

giovedì 15 maggio 2008

Senza titolo n°1 e n°2


Senza Titolo n°1


Purpureo calice di salate stille
ombra lontana, vessata chimera
Dove andrai? Che farai?
Oh anima, perenne e privata
seducimi ancora, portami via.


Senza Titolo n° 2

Di erba, di sabbia,
di fiore, di mare
grido sommesso
dal basso ora sale
e libera al vento
ispirazione fatale.

riposo d'artista

Miles Davis

crociate spaziali ed extraterrestri redenti

E siamo tutti contenti che la nostra fede è salva.

New York

Atterrando a Newark il panorama dal finestrino è sicuramente più bello, mentre l’aereo lentamente si abbassa appare Manhattan in tutto il suo splendore. Ma l’emozione che si prova al JFK è diversa. È lì che senti la potenza di New York una volta che atterri. Costeggiare il Queens e vedere dall’autostrada in lontananza il ponte di Verrazzano con lo “skyline” sullo sfondo che si leva nel tramonto sullo scintillio del fiume Hudson. Osservare gli aquiloni volteggiare sopra uno spaccato di verde e blu. Con questa romantica immagine ho stampato nella memoria il ricordo dell’arrivo. Non è però così romantica l’immagine che ho conservato del ritorno. Una decisione sofferta, uno schiaffo ricevuto dal futuro che non decollava. Un “per sempre” che c’è stato mai. Forse il bagliore della “carta verde” mi ha fatto vedere qualcosa che non c’era. Oppure era lì, ma non lo vedevo. Non lo capivo. Non ha funzionato come si pensava.

La voglia imprudente ci fa fare passi affrettati, senza prima avere controllato la compattezza del terreno rischi di trovarti con la faccia a terra. Promesse fatte e non mantenute, in un giardino materno che non ha regalato niente. Neanche un semplice sorriso.
Una frase mi riecheggiava nella mente mentre salivo sull’aereo che ci riportava in Italia: “Non vi preoccupate, siamo tutti qui per aiutarvi”. E noi ci abbiamo creduto. Sbagliando. Un boccone amaro che fa fatica ad andare giù, perché ci ha reso difficile apprezzare anche il lato bello, che era lì di fronte ai nostri occhi.

Nuova nell’essere genitrice, nuova nell’essere americana, nuova in una terra nuova. Ho avuto paura. Identificata con un’Italianità che non esiste più, ho perso la bussola e l’identità. Non mi ritrovavo più e l’entusiasmo si è spento. Vedere lui faticare a chiamarla ancora casa sua, sentirsi sempre ai margini, ci ha reso spettatori della luce che si spegne sulla strada che avremmo. Una lezione di vita che è costata cara, arduo da prendere anche solo come un consiglio prezioso.

Non accetterò mai il termine “fallimento” come spiegazione, forse “sopravvivenza” è più adatto. È stato come lasciare l’uomo della tua vita perché l’amore che senti è troppo travolgente e ti toglie il respiro. Sai che è la scelta giusta, ma ti torturi e trovi tutte le ragioni per non scacciare mai totalmente il senso di colpa, perché sai che nella solitudine della tua scelta è solo lui che ti tiene compagnia.

Ho riempito il cuore di immagini e le vedo e le rivedo come un film. Tanti pensieri da occupare tutta la vita, da tenere stretti e da passare a chi, troppo piccolo per capire, ha seguito ogni nostro passo. Il piccolo Leo ha spento la sua prima candelina, in quel “basement apartment” di Brooklyn sudando per il caldo. Ha rincorso i gabbiani sulle rive dell’oceano ed è salito sull’Empire State Building. Ha giocato con le decine di cuginetti, che la numerosa famiglia offriva, sui prati di Snug Harbour. Noi abbiamo deciso per lui, noi abbiamo cambiato il suo destino. È inutile, ma inevitabile, chiederci adesso cosa sarebbe successo se non fossimo tornati.


BOLLE DI SAPONE

Mille bolle di sapone si trastullano
leggere nell’aria,
trasportate da un alito di vento.
Sono libere di volare più degli uccelli,
mostrano i propri riflessi
più di un pavone.
Ora vagano senza alcuna meta
e poi svaniscono tra gli alberi
come le ultime note di una canzone.
Tu le osservi sospirando:
nascono e muoiono come un’illusione.

mercoledì 14 maggio 2008

Voce del verbo amare

Io amo sedermi ad un tavolino di un caffé per osservare in silenzio la gente, amo pedalare libera per la città ed avvertire l’aria fredda che sale su per la maglia fino all’ombelico, amo stonare sulle canzoni di Ray Charles zigzagando tra le auto in corsa.

Amo ridere, amo piangere, amo provare emozioni forti alla vista di un bocciolo di rosa ed esaltarmi per una giornata di sole. Amo cogliere il frutto dall’albero.

Amo la gente, quella vera con il cuore in mano; amo gli strambi che si ribellano alle convenzioni. Amo la semplicità intellettuale di chi apprezza le piccole cose. Amo l’odore selvaggio dei miei figli dopo una giornata al parco e amo le loro grasse risate.

Amo la mano che sa accarezzarmi e il cuore che sa accogliermi, amo quelle note intense che mi fanno da colonna sonora.

Amo la generosità di chi non ha nulla da dare e la sincerità di chi non ha nulla da perdere. Amo esplorare, capire, conoscere.

Amo il profumo dell’erba e il ronzio degli insetti d’estate, amo i piedi nudi, la pelle bagnata e i fiocchi di neve sulla lingua. Amo le gocce di pioggia sui vetri e l’arcobaleno che compare dopo il temporale. Amo il vino rosso che unisce.

Amo le vene delle mie sapienti mani e le mie ciglia lunghe. Amo ridere di me stessa senza mai perdere di vista la drammaticità degli eventi. Amo il silenzio della solitudine e il suono dei miei pensieri; amo la presenza di compagni di gioco e di leali confidenti.

Amo le parole per il loro significato profondo. Amo la donna nella sua fragile complicità e amo l’uomo nella sua seducente istintività.

Amo il passato, il tempo presente e quello che verrà.

lunedì 12 maggio 2008

il circo



Il filmato di Charlie Chaplin è dedicato a tutte quelle mamme che ogni tanto si sentono proprio così: come l’equilibrista delle situazioni familiari. Me compresa.
Ma in fondo non ci stupiamo più di nulla. Allontanata da noi la sindrome di “Wonder Woman” ci sentiamo meglio.

armonica

Milano - 1968

sorriso

Guardo fuori dalla finestra sulla città malamente soleggiata e intanto mi accartoccio sempre di più pensando ad una vita dove i miei figli sono gli unici gioielli di una collana arrugginita dalle intemperie degli eventi. Il grattacielo Pirelli impera sulla distesa di case come un punto esclamativo. È lì, immobile nel panorama come un pensiero invadente.

E ricordo.

Un sorriso non del tutto familiare. Un sorriso arrivato da lontano, solo per me. Un sorriso che è riuscito a colmare la mia solitudine di moglie bistrattata. Un sorriso che mi ha dato così tanto in così poco tempo. E che, anche ora, aleggia nell’aria. Solo pochi giorni per amare il suo sorriso, denso di quel rispetto che ogni donna si merita. Solo poche ore per far succedere qualcosa di speciale, che non si cancellerà mai più, un amore così vicino e così lontano.

domenica 11 maggio 2008

ho visto un film


Ho visto un film.
È stato più di un film, è stato come vedermi allo specchio.
Ho avuto paura.
Sono uscita dalla sala profondamente sconvolta, la violenza raccontata nelle tre storie mi ha travolto e mi ha lasciato senza fiato. È la stessa che mi travolge e mi lascia senza fiato ogni giorno.
Non c’è modo di far vedere la realtà a chi tiene gli occhi chiusi e io non riesco più a negare l’evidenza. La cosa più difficile è ammetterlo a me stessa.

Pensierino n. 1

Uscita dalla doccia rimiravo allo specchio le perle d'acqua che scorrevano sulla pelle, mi sono sentita una lattina di coca cola appena uscita dal frigo.

C ... ti tocchi?

con un po' di nostalgia ...



Sabina Guzzanti (Moana) su "Avanzi"

sabato 10 maggio 2008

ma disinformiamoci un po' ...



I Meccanismi della Disinformazione
Marco Travaglio

Il risveglio della natura non può lasciarci indifferenti

I cannot meet the Spring - unmoved -
I feel the old desire -
A Hurry with a lingering, mixed,
A Warrant to be fair -

A Competition in my sense
With something, hid in Her -
And as she vanishes, Remorse
I saw no more of Her -

(Emily Dickinson)

Non so incontrare la Primavera - con distacco -
Sento l'antico desiderio -
Un'Urgenza a un protrarsi, mescolata,
Una Licenza d'esser bella -

Una Competizione nei miei sensi
Con qualcosa, nascosta in Lei -
E quando svanisce, il Rimorso
Di non aver visto di più di Lei -

(Il risveglio della natura non può lasciarci indifferenti, fa affiorare il desiderio di cambiamento, che affrontiamo con il sentimento contrastante di chi aspetta impaziente qualcosa e nello stesso tempo vorrebbe ritardarne l'arrivo per gustare di più l'attesa. La primavera porta con sé una garanzia di bellezza, che diventa una gara fra il rinascere inconsapevole della natura e quello fremente dei nostri sensi, e quando, sempre troppo presto, se ne va, ci lascia il rimorso di non aver saputo goderne appieno).

venerdì 9 maggio 2008

Ebbene sì ... sono di pessimo umore!

Sono incazzata con il mondo che mi fa incazzare e con me stessa perché sono ancora qui ad incazzarmi con il mondo! Dico il mondo, ma dovrei riferirmi a qualcosa di molto più piccolo, perché il mio mondo ultimamente è piuttosto ristretto e quando mi manca l’aria boccheggio come un pesce e quando mi manca l’aria non ragiono più … ed è lì, allora, che m’incazzo!

La forza di mandare tutti al diavolo, no, quella non ce l’ho. Per ora. E allora mi ritrovo lì a sbraitare come se servisse a qualcosa. Ah ah ah, e più sbraito e più m’incazzo! Sono una cretina. Ma cosa diavolo penso di fare?

Ma lasciatemi in pace.

Money makes the world go 'round

Il marito dice alla moglie: “io pago, io decido”
L’imprenditore dice al dipendente “io ti pago, io decido”
La nazione forte dice alla nazione debole: “io sono ricca, io decido”

Quanto può valere la mia indipendenza intellettuale se è ridotta al silenzio dalla dipendenza economica?

mercoledì 7 maggio 2008

Presente e passato





Io sono Dio. Tu sei Dio, come Dio è il mondo. Creato dall’uomo, ad uso esclusivo dell’uomo, per colmare l’ansia del vuoto. L’animale non ha consapevolezza della morte. L’animale sta nel presente mentre l’uomo vive proteso verso il futuro. Il presente non ha memoria. L’essenza della vita è nella vita stessa, è l’attimo presente intenso e continuo. Presente per sempre, come la morte, il nulla, l’infinito. Presente, perché non è passato e non sarà futuro, perché è sempre lì: un attimo interminabile, l’universo intero.
Io voglio vivere il presente, gustare quello che ho in quel preciso momento, quando lo sento, quando ne sono consapevole, perché un attimo dopo è già un ricordo. Nel momento in cui avverto la mia memoria evanescente, mi aggrappo al presente. Lo vivo con forza, come per lasciare un segno più profondo. I miei ricordi se ne vanno, faccio sempre più fatica a trattenerli con me. Ed è allora che il presente diventa essenziale, un punto fermo della mia esistenza. Provo a ricondurre le immagini antiche nel mio presente, rievocando emozioni con profumi e colori.

Ho chiuso tutta un’infanzia dietro una porta, quel poco che ogni tanto fa capolino è sfuocato. Guardo e riguardo avidamente la mia collezione di fotografie in bianco e nero, mia mamma in posa da diva del cinema degli anni ’50, mio papà a tre mesi che fa il bagno in una tinozza, il nonno pittore e la sua famiglia con il quadro di santa Teresa sullo sfondo. Passeggiate antiche. Tutte immagini con un sapore che a volte mi sembra di non riuscire a ritrovare nelle forme di oggi. Mentre le guardo cerco di ricreare l’evento che racchiudono, cerco di immaginare la vita che raccontano. Cerco di immaginare mia mamma giovane, i suoi sentimenti, una mamma che ride, che corre, una mamma innamorata di mio padre, una mamma entusiasta di abbracciare per la prima volta sua figlia. Ricerco in quelle contrastate fotografie l’amore che mia mamma deve aver provato per me. Penso all’esplosione di emozioni travolgenti che ho provato io alla nascita dei miei figli, nel vedere il loro primo sorriso, i loro primi passi, il loro primo giorno di scuola, e penso “Deve essere stato così anche per lei!” Perché del suo amore me ne è arrivato così poco? Perché non lo sento? Ho intravisto solo un incolmabile vuoto dietro ai suoi occhi, non sono bastati un marito e due figlie a motivarla, a farle venir voglia di vivere. Vedo solo una mamma bambina che chiede aiuto, prostrata sotto un peso più grande di lei.
Io mi ritrovo a cercare di far resuscitare un po’ d’amore dal bianco e nero di un’immagine, la tocco, l’annuso, quasi come se un rito voodoo potesse soddisfare la mia fame atavica d’affetto. Cerco di leggere una dichiarazione d’amore nello sguardo che mi rivolge mia mamma mentre a tre anni mi cambia il costume sulla spiaggia tutta ciottoli di Sirolo o mentre m’imbocca, leggendomi un libro di Pippo sulla veranda della casa di Gignese. Forse ho intravisto un segno in quel sorriso che fa mentre la trafiggo nei biondi capelli raccolti con l’archetto del violino del nonno pittore. No, sbaglio. Forse è tutto in quel sogghigno che faceva mentre cercavo di accecare il papà con il mio piccolo dito indice invece di mangiare il boccone di carne sulla forchetta.

martedì 6 maggio 2008

nebbia

Cenerina nebbia che lega
il passo incerto che se ne va,
luminosità di verde carente,
riecheggia l’umore rabbioso
di blu intensamente sfumato.

E mi sfugge l’estro invadente
dai confini della mia verità,
eccezione alla vita molesta,
ed inseguo l’amante perenne
nei momenti ancora negati.

domenica 4 maggio 2008

Ad ogni domanda la giusta risposta

.
"Mamma, ma nel mondo chi decide?"

"Eh, ogni individuo è libero di decidere per sé ...."

E mentre rispondevo ho involontariamente pensato: "anche, no", ma ho preferito sostare sui quei puntini di sospensione con la speranza di aver soddisfatto così l'avida curiosità di un bimbo di 5 anni, senza averne però compromesso l'innocente purezza.

giovedì 1 maggio 2008

cosa farò da grande?

Marisa, 1956


Guardo indietro nel tempo e vedo mia madre alla mia età, e non riesco a scrollarmi di dosso quella scomoda sensazione del tempo che passa. Io e mia mamma, due immagini che assolutamente non riesco a sovrapporre, nell’antica bellezza di lei ritrovo una vecchiaia precoce che mi riempie di tristezza. Un destino da sempre segnato, forse mai percepito fino in fondo, in netto contrasto con il mio che è ancora tutto da scrivere. La sua ricerca dell’oblio in cambio del mio amore per la vita.
Io che non ho ancora deciso cosa voglio fare da grande e mi guardo intorno come se avanti a me ci fosse un tempo infinito, io che vivo emozioni adolescenziali ad un passo dalla menopausa, io che non ho ancora imparato a non complicarmi la vita con tuffi nel profondo del mio animo.