sabato 19 dicembre 2009

L'ultima corsa


Ti asciughi le gocce di sudore sulla fronte con la manica della felpa. In realtà vorresti cancellare i pensieri che si affollano nella tua testa, un groviglio di frasi e immagini che ti provocano un dolore insopportabile. Le tempie ti pulsano, a ogni passo un colpo di scalpello scava in profondità. Hai l'impressione che il cervello possa esplodere fuori dalle orbite degli occhi, ma non ti vuoi fermare. Ti piace spingere oltre i tuoi limiti e sentire il fiato corto. È già quasi un’ora che corri e non ce la fai più. Fa freddo e il tuo sudore caldo si congela sulla schiena facendoti venire i brividi. I tuoi seni, costretti nel reggiseno a corsetto, sono doloranti. Vorresti poterli liberare e non sentire più lo sfregamento del tessuto sui capezzoli indolenziti.

Ti torna in mente la telefonata che ti ha svegliato. Risenti quella voce mai sentita prima che ti annuncia in un soffio che la tua vita sarebbe cambiata drasticamente.

Cerchi di allontanare il ricordo di quel momento, cacciando indietro le lacrime che si scontrano con la tua necessità di negare il dolore. Una lotta impari, fatta di singhiozzi sordi ributtati in gola al ritmo cadenzato delle tue gambe. Un passo dopo l'altro, correndo senti i muscoli della coscia indurirsi, li guardi lavorare. Li vedi contrarsi e distendersi al tempo del tuo passo in allungo. Hai paura di rallentare, non vuoi che la disperazione ti raggiunga, ora che ti sembra di averla lasciata indietro.

«Ero a conoscenza di lei e mio padre, mi è sembrato giusto avvisarla», dice la voce con il suono nasale di chi ha pianto troppo. Basta quella frase e tu già capisci. «Ero», dice. Uno spintone nel passato. Perché in quel preciso momento il presente è diventato passato. Lasci scivolare via tutte le parole successive, non le ascolti più. Tutto ciò che esce dal telefono è solo acqua sporca di sangue. L’incidente, la corsa in ospedale, la sua morte.

«Mi dispiace», aggiunge la voce un attimo prima che tu interrompa la comunicazione. Le braccia ti sembrano di marmo mentre riponi il cellulare nella tasca dell’ampio pigiama. Rimani paralizzata nel tuo dolore, con la voglia di urlare impossibile da soddisfare. Tuo marito e i tuoi figli dormono, inconsapevoli della sventura che ti ha colpito. Ignari della crepa nel tuo cuore, che sarà per sempre invisibile ai loro occhi.

Guardi l’orologio a muro, sono le cinque e mezza. Impossibile tornare a dormire, il panico ti costringe all'immobilità. Devi reagire e decidi di uscire. Non sai dove andare, sai solo che non puoi restare in casa, ti manca l’aria. Levi il pigiama e indossi la tuta. Infili per ultime le tue vecchie scarpe da “running” senza slacciarle. Ti calzano alla perfezione, sono ormai modellate sul tuo piede. Ti concedono un breve attimo di leggerezza prima che lo sconforto faccia la sua comparsa. Chiudi delicatamente la porta alle tue spalle, facendo attenzione a non destare la tua angoscia. Scegli di evitare l’ascensore e prendi le scale come se fosse un giorno qualsiasi. Così, mentre scendi, puoi immaginare che non sia veramente successo.

Un gradino alla volta ti ritrovi all'aperto, è ancora buio. Appena il piede prende contatto con il terreno cominci a correre, sfiori l’asfalto con la parte esterna del tallone e poi sposti il peso in avanti. Un primo passo, poi un altro, poi un altro ancora e sei fuori dal cortile. È così che lo hai incontrato. Correndo al parco tutte le mattine.

Senti l’aria fredda in faccia, ma non ti basta per soffocare la voglia di piangere. Scuoti la testa come per sbarazzarti di quella sensazione scomoda. Le lacrime affollano i tuoi occhi e tu le respingi.Corri più veloce, vuoi che il vento le porti con sé, le tue lacrime. Segui la solita strada verso il parco, ma ti trovi davanti i cancelli chiusi, è ancora troppo presto. Per non fermarti sei costretta a deviare e a restare sul marciapiedi, deserto come il tuo cuore in questo momento. Un’assenza enorme, che non riesci ancora a definire, ma che già ti pare incolmabile.

Il cielo si tinge di rosa in uno squarcio di debole luce. Svuotata di tutti i pensieri stai ancora correndo. Non dai ascolto al tuo corpo che ti supplica di smettere. Ad ogni passo senti i tuoi polpacci indurirsi, spingi con forza e avverti il muscolo che si gonfia. Dovresti fermarti, invece forzi l’andatura. Calchi sulle punte dei piedi e ti butti in avanti. Ti concentri sul tuo respiro, sul battito del tuo cuore per annullare quello che provi. Il fisico contro il sentimento. Uno sforzo immenso che va oltre le tue possibilità.

Poi una fitta, nel mezzo del tuo cuore aperto, ti lascia senza respiro. Cadi a terra portando le mani al petto. Resti immobile sul marciapiedi, così come sei caduta. Sotto la tuta strappata s’intravvede la carne viva e i lembi del tessuto squarciato si colorano di rosso. Abbracci con forza le tue ginocchia dolenti e ti raggomitoli in posizione fetale per contenere il male. Finalmente le lacrime trovano la strada e scaturiscono furiose, non sei più in gado di fermarle. Ti ritrovi a rotolare sull’asfalto freddo, finalmente libera di urlare la tua disperazione di donna che ha perduto l’amore: «Nooooo!».


Pubblicato sul Blog di Stefano Medici