martedì 6 aprile 2010

senza senso (ottava puntata)


BERTRAND

Cammini apparentemente senza meta. Strascichi i piedi lungo il marciapiede, non sei riuscito ad allacciarti le scarpe perché il mal di testa non ti ha permesso di chinarti. Rumorosamente avanzi senza curarti della gente che ti viene incontro. Ti fai largo a spallate, senza nemmeno rendertene conto, affoghi nella melma che tu stesso ti sei tirato addosso. Palate di fango a ricoprire completamente la tua dignità, e ora non hai il coraggio di presentarti a casa.
Il pensiero di Nathalie che se ne va e non torna più ti tormenta. Non ti fa ragionare, solo l’idea di non poterla più toccare ti offusca la mente.

Ripensi al vostro primo incontro, alla prima volta che l’hai posseduta nella toilette del bar del teatro dove stavi lavorando. Lei ti desiderava, te lo aveva lasciato intendere tornando a vedere il tuo spettacolo più volte. Aspettandoti al bar per complimentarsi con te. Sorridendoti, come solo lei sa fare.
Tu non avevi intenzione di aspettare, di invitarla fuori a cena come hai fatto con le altre donne. Di attendere il giorno che lei fosse pronta. La volevi subito e sei andato a prendertela alla fine dell’ultimo spettacolo in programma.
«Vai in bagno che arrivo», le sussurri all’orecchio sfiorandole i capezzoli. Quei capezzoli scuri che s’intravvedono prepotenti attraverso la maglia e che ti avevano eccitato perfino dal palco.
Lei esita e la cosa ti eccita ancora di più. Tu non hai dubbi, lei cederà, glielo leggi sul viso. La guardi dritta negli occhi tracciando una spirale con il dito indice dall’esterno del seno fino al capezzolo. Esita ancora spostandoti la mano, poi sorride.

All’improvviso, senza dire nulla, si avvia. Tu finisci il tuo drink in un sorso e la raggiungi. Spingi la porta che si apre lentamente. Lei è lì, appoggiata al lavandino che ti aspetta.
Ti guarda. Non te lo sei più dimenticato, quello sguardo. Gli occhi neri fissi su di te mentre dalle labbra socchiuse lasciava uscire un debole: «et voilà».
In un attimo le tue mani alzano la sua gonna a trovare le mutandine. Le dita sfregano contro il tessuto che si bagna all’istante. Le infili subito nella sua fica, senza aspettare. Le infili ben dentro, le dita, insieme alle mutandine che non prendi nemmeno la briga di levare.
Il tuo desiderio ti acceca e non capisci più niente. Con impeto le divarichi le gambe mettendola a sedere sul lavandino. Lei si lascia muovere senza opporre resistenza, questo ti piace. La vuoi possedere, dominare completamente, vuoi esserne padrone assoluto. È questo che hai pensato fin dal primo momento che le hai posato gli occhi addosso.

Lei punta i piedi sul muro dietro di te mentre tu affondi con una forza tale che la fai urlare. Le metti allora una mano sulla bocca, poi le cacci le dita dentro per fartele succhiare e ricominci a spingere. Sempre più in fondo. Con l’altra mano raggiungi da sotto la maglia l’agognato capezzolo che stringi forte, come a rivendicarne la tua proprietà, fino al momento in cui la inondi con il tuo seme caldo. Poi molli la presa. Lei adesso è tua. Il resto non conta.


To be continued ...

(le puntate precedenti qui)

domenica 4 aprile 2010

senza senso (settima puntata)


NATHALIE

Hai la nausea. Non passa. Resti seduta sul letto accanto al telefono, scomposta, come se fossi in bilico su uno strapiombo. Non era così che volevi che fosse. Ora è troppo tardi. Non si torna indietro.
Il passato è venuto a ricordarti da dove vieni, privo d’indicazioni su dove andare. Impantanata in sabbie mobili di frasi inutili, sfrondi a morsi il presente scomodo.
Non senti più nulla. Solo l’eco dei tuoi pensieri, macinati fini dai sensi di colpa, che si propaga in tutta la testa. Hai il voltastomaco. Non passa.
«Sono qui, sono arrivata ieri. Ho trovato una stanzetta carina», ti ha detto Christine tutto di un fiato, come volesse toglierti dall’imbarazzo di dover rispondere.
«Ah, brava», sei solamente riuscita a dire tu, dopo che lei ha pronunciato, senza fermarsi, un’enorme quantità di parole per comunicarti che il viaggio era andato bene, che pensava di restare per un po’ in città e che la mamma ti salutava.
La voce di tua sorella non è mai cambiata. Un tono caldo e accogliente, ma con un accento distante. Lo stesso accento che udivi stridere nelle sue parole quando, bambine, lei cercava consolarti. Tu sorella minore in panico, che avevi paura del buio e che ti svegliavi urlando nel mezzo della notte.
«Sai, il mese scorso, te ne sei andata così in fretta. Quasi avessi avuto paura di restare. Non ci siamo nemmeno parlate». Non le rispondi e lei colma il vuoto con altre parole che tu non vuoi sentire. «La mamma è sicura che non ti vedrà più, che tornerai a casa solo al suo funerale. Come hai fatto per papà».

Vorresti espellere dal tuo ventre i giudizi superficiali di chi pensa di sapere chi sei. Tu, regina di cuori, di un regno anestetizzato. Rabbia sedata per lunghi anni. Non vuoi risvegliarla ora.
Ti alzi di scatto dal letto, ti senti soffocare. La tua mente spazia oltre le mura mentre vaghi per la stanza. Il rollio dell’abbandono ti fa venire il mal di mare. Lei si aspetta che tu le dica qualcosa, ma non sei pronta a dire nulla. Nemmeno a respingere la sua presenza. Tua sorella è venuta fin qui dalla Francia a farti domande, a volere risposte, ma non è il momento delle confessioni. Per te non lo è mai stato.
Ti senti come se non fossero passati dieci anni, ma dieci minuti. Come se Christine avesse colmato d’un tratto lo spazio vuoto tra voi due con un quintale di negazione. Un avvicinamento improvviso a rinnegare quella distanza che tu hai voluto mettere tra te e lei.
Rimandi l’incontro, che lei insistentemente ti propone, fino al sabato della settimana successiva, con la scusa di un lavoro da finire. Non sei riuscita a concederti più tempo. La saluti sperando di poterla cancellare con un gesto.

Ti porti a letto, insieme al tuo corpo stanco, anche un carico di paure che pensavi non dover mai riprendere in spalla. Con tre gocce amare in un bicchier d’acqua il tuo umore sfugge alla morte interiore dell’ansia, scortandoti al sonno. Non ne puoi fare a meno, non potresti sopportare una notte insonne. Non oggi.