martedì 27 ottobre 2009

Complice un'isola

Pubblicato sul settimanale "Vera" n.20 del 3 novembre 2009

La piccola imbarcazione avanzava lentamente, bordeggiando con cautela per risalire lo stretto canale. Era un soleggiato pomeriggio d’estate, con una fresca brezza che tirava da nordovest, la foresta scendeva ripida per il pendio roccioso a picco sulla costa, dove incontrava all’improvviso le onde del mare. Piccina, ma resistente, la barca oscillava sospinta dalle onde che si creavano nello stretto corso d’acqua al suo passaggio. La mano solitaria strinse la presa sulla barra del timone virando verso una piccola nicchia nella parte occidentale della costa. Lei era in ginocchio all’interno della cabina attenta a osservare ogni minimo segno che indicasse il pericolo di rocce poco visibili a pelo della superficie dell’acqua. Continuò a dritta fino a che non superò la punta rocciosa a strapiombo sul mare. Con una rapida manovra controvento fermò la barca, le sue braccia esperte si mossero veloci per gettare l’ancora, e mollò la cima. L’ancora si tuffò in acqua e scese in fretta fino a toccare il fondo, lei si occupò della fune in modo che l’imbarcazione fosse ormeggiata in modo sicuro nel caso cambiasse il vento o si alzasse la marea. Occupata com’era con le manovre, non si accorse che durante tutte le sue esperte operazioni aveva avuto un pubblico. Un ragazzo in blue jeans, maglia bianca e giubbotto di pelle nera era seduto sulla roccia a strapiombo e aveva osservato l’avvicinamento della donna skipper con ammirazione. Lei non se ne accorse, perché nel momento in cui si alzò e tirò su la testa, dopo aver assicurato l’ancora, lui si era già allontanato dirigendosi velocemente verso gli alberi della foresta.

Una volta che Irene fu sicura del suo ormeggio, scese sotto coperta e mise sul fornello un bollitore per il tè. Mentre aspettava che l’acqua bollisse, prese dallo scaffale un grosso quaderno con una copertina rigida in cartone arancione, era il diario di bordo che lei aggiornava meticolosamente, sia con note riguardanti la navigazione sia con appunti personali. Lo aprì all’ultima pagina scritta la mattina prima di partire e annotò l’ora di arrivo, la posizione precisa del punto protetto dove aveva ancorato la barca, il tempo atmosferico e, come nota personale, aggiunse che aveva l’impressione di aver trovato il posto perfetto per scrivere in solitudine.

Irene, aveva da poco compiuto quarant’anni, non particolarmente alta, robusta quanto basta per farle pensare spesso al fatto di dover fare più ginnastica; una chioma bionda con un taglio piuttosto corto, alla maschietto, fa da cornice ai suoi enormi occhi verdi. Quando non è impegnata a lavorare come redattrice di una rivista di moda, tutti sanno che la si può trovare sulla sua barca, oppure chinata sulla tastiera del suo computer a comporre poesie o scrivere favole per ragazzi, che è la sua vera passione. Questa volta era riuscita a unire questi suoi due grandi amori, il mare e la letteratura partendo in solitaria. Dopo un anno piuttosto difficile, ne aveva particolarmente bisogno.

Una volta preparato il tè, prese la tazza, il suo portatile e si recò nuovamente sul ponte, dove aveva diligentemente preparato un accogliente angolo per lavorare appoggiando la sua sacca contro l’albero da usare come schienale. Si sedette e, prima di immergersi nel mondo delle sue fantasie, si gustò la vista di quello che sarebbe stato il suo nido per i giorni a venire, sorseggiando il suo tè e guardandosi intorno. Un panorama fantastico a trecentosessanta gradi. Notò le piccole lingue di sabbia che entravano in acqua, le sottili spiagge sabbiose protette dalla foresta, che saliva poi ripida per la montagna. A prima vista il paesaggio appariva privo d’insediamenti umani, ma osservando meglio si potevano intravedere, nascoste dagli alberi, almeno tre o quattro strutture. Una di queste sicuramente una casa privata. Irene pensò a quante volte aveva sognato di poter comprare una casa in un’isola, tra mare e foresta, come quella. Un sogno mai realizzato. Finì il suo tè, appoggiò la tazza vuota a terra, accese il computer e lasciò spazio alla sua immaginazione.

Frank si era arrampicato per un sentiero poco battuto che saliva ripido su per il pendio e s’inoltrava nella foresta fino a raggiungere una grande casa in pietra completamente circondata dagli alberi. Saliva veloce con le mani in tasca mostrando quella sicurezza di chi conosce la strada a memoria. I capelli corvini, scuri come il giubbotto di pelle, facevano risaltare la carnagione chiara. Mentre saliva verso la casa si ritrovò a pensare alla donna skipper che aveva appena visto essere così esperta di mare e si chiedeva come mai avesse ormeggiato proprio lì, di fronte a casa sua. Pensò che fosse strano per una donna ritrovarsi sola in mezzo al nulla, ma poi pensò anche che questo paradiso, anche se piuttosto isolato, non si trovava esattamente in mezzo al nulla; sull’altro versante dell’isola c’era il paese, e a pochi chilometri in linea d’aria le altre tre isolette dell’arcipelago frequentate, soprattutto d’estate, da una folla di giovani artisti. «Forse non lo saprò mai», disse tra sé e sé mentre saliva la scalinata di pietra che portava all’ingresso della casa. Entrò dalla porta che aveva lasciato aperta, salutò affettuosamente Samo, il suo grosso labrador nero, che gli venne incontro facendogli un sacco di feste e poi si diresse come d’abitudine verso la segreteria telefonica. Pigiò il tasto che stava lampeggiando e si mise in ascolto seduto sul bracciolo del divano. «Bip. Ciao sono Marco, la data d’inaugurazione è confermata. Ci vediamo tra un mese qui da me». Un attimo di silenzio poi: «Bip. Non ci sono altri messaggi». Non c’era bisogno di richiamare, cancellò il messaggio e si diresse verso la cucina, un ampio locale con una grande vetrata che si apriva su una terrazza che dominava, da sopra le cime degli alberi, la baia sottostante. Al centro della baia poteva chiaramente distinguere la barca della donna skipper. Si girò verso la credenza e cercò il barattolo del caffè, lo appoggiò sul ripiano e si allungò a prendere la caffettiera. Si accorse in quel momento che stava tenendo d’occhio l’imbarcazione ormeggiata nella baia. Sorrise e pensò che, da quella parte dell’isola, non arrivavano spesso visitatori, al massimo qualche turista in cerca di una spiaggia tranquilla, ma mai nessuno che si fermasse oltre al pomeriggio. Il fatto che quella donna solitaria avesse scelto proprio la sua piccola e appartata baia lo incuriosiva.
Una volta pronto il caffè si riempì una bella tazza e si avviò, come d’abitudine, verso il suo studio al piano di sotto per passare la serata dipingendo. In quel momento ripensò al messaggio del gallerista e il pensiero della donna skipper passò in secondo piano. Mancava solo un mese all’inaugurazione della sua prima personale e aveva ancora parecchi quadri da finire.

Irene, immersa nella scrittura, non si accorse che il sole stava calando. Si rese conto di un tratto che faceva fatica a vedere le lettere sulla tastiera, smise di digitare e appoggiò la schiena sulla sacca dietro di sé. Era soddisfatta, aveva scritto per ore senza sosta. «Credo di aver trovato il posto perfetto per concentrarmi», pensò. Si sentiva un po’ come la principessa della sua favola, che lasciava la sua terra devastata dalla guerra per andare alla ricerca di un regno di pace. Lei aveva fatto la stessa cosa. Aveva lasciato dietro di sé un matrimonio arrivato ormai alle battute finali e i problemi quotidiani sul lavoro per cercare uno spazio tutto suo, il suo regno di pace. Se n’era andata senza dire niente. Nessuno sapeva dove lei avrebbe trascorso le vacanze, solo sua figlia era al corrente della sua fuga e la sosteneva, come aveva sempre fatto durante le brutte litigate con il padre. Aveva accettato la proposta di scrivere una favola per un importante editore con il quale era in contatto da anni e con il quale ci teneva particolarmente a collaborare, era molto contenta di questo nuovo progetto che avrebbe potuto portarle molte gratificazioni.
Respirò profondamente e l’aria fresca della sera le riempì i polmoni. Ebbe un leggero brivido e decise di scendere sottocoperta a mettersi indosso qualcosa di più pesante. Una volta di sotto si ricordò di non aver cenato, e decise di approfittare del bel chilo di cozze che le aveva regalato il suo amico pescatore alla partenza. Si rimboccò le maniche e si mise a pulirle nel piccolo lavandino assaporando già la gustosa cena. Una volta pronte le cozze, Irene stappò una bottiglia di vino bianco che aveva in fresco e brindò a se stessa e alla sua nuova favola. Stava proprio bene.
Salì sul ponte dopo cena con la tazza del caffè fumante in una mano e una sigaretta nell’altra ad ammirare il cielo stellato. Era una notte buia e senza luna, si potevano vedere perfettamente milioni di stelle, tutta la Via Lattea. Si guardò in torno e notò che l’isola era tutta buia, tranne una debole luce da dietro gli alberi in cima alla collina proprio di fronte a lei. Si stupì che ci fosse qualcuno. «Chissà chi ci abita, in un posto così isolato», si chiese. Cominciò a sentire la stanchezza della lunga giornata, ma la bellezza del paesaggio che la circondava le impediva di andare a dormire, non voleva privarsene. Decise allora di fumare un’ultima sigaretta prima di coricarsi. Si ritrovò a fissare la luce della casa oltre gli alberi, che a un tratto si spense. Restò ancora qualche attimo nel buio più completo, poi scese a coricarsi sotto coperta.

Frank spense le luci dello studio al pian terreno, come sempre aveva lavorato ininterrottamente tutta la serata e si era dimenticato di mangiare. Il suo stomaco stava proprio ricordandoglielo in quel preciso momento emettendo curiosi suoni. Salì nella cucina al primo piano e la prima cosa che fece fu di sbirciare fuori dalla grande vetrata per controllare se la barca fosse ancora ormeggiata al suo posto. C’era. Sentì come una sensazione di sollievo. «Curioso», pensò, «è come avere un vicino di casa». E rise da solo della sua battuta. Aprì il frigorifero e dopo avere osservato attentamente il suo contenuto, decise che un piatto di pollo con le verdure e riso Basmati era perfetto per festeggiare la sua prima mostra personale. Si mise ai fornelli con lo stesso impegno con cui di solito si mette davanti a una tela. Aveva sempre amato cucinare, e nei momenti di tensione o di molto lavoro, diventava un modo per rilassarsi. Tirò fuori dal cassetto il suo prezioso coltello da chef giapponese, compagno di tante cene quando ancora abitava in città, e con gesti sicuri cominciò ad affettare le verdure. Frittura veloce e leggera nel wok, all’orientale, un po’ di salsa di soia e la cena fu in tavola. Apparecchiò fuori in terrazza, lui amava mangiare lì con l’orizzonte a fargli compagnia. Si prese una birra gelata, la stappò e la versò nel bicchiere: «Salute», disse ad alta voce allungando il braccio verso la barca nella baia sottostante.

Irene aveva dormito di sasso per tutta la notte. Si svegliò con i primi raggi del sole, si stirò pigramente e si voltò a guardare l’orologio. Le 7.05. Pensò bene di restare a letto ancora un po’, prese il libro che stava leggendo dallo scaffale e lo aprì cercando la pagina dove aveva interrotto la lettura la sera prima. «Imparare a mettere il segno è troppo difficile per me», disse tra sé e sé, ridendo. Si mise a sedere sistemando per bene il cuscino dietro la schiena e s’immerse nella lettura per una buona mezz’ora. Cominciò a sentire la necessità di una gustosa colazione, aveva portato con sé la macchina per il caffè, un suo irrinunciabile vizio: una bella tazza di caffè americano, con latte e zucchero, prima di affrontare la giornata. «Senza dimenticare le fette biscottate», pensò mentre le tirava giù dallo scaffale. Si sentiva di ottimo umore, lo notava dalla quantità di burro e miele che si ritrovava a spalmare sulle fette biscottate, l’aria di mare le stava facendo un gran bene. Colazione sul piatto, caffè in mano, si trasferì nel suo angolo sul ponte a gustarsi la brezza mattutina.

Frank aveva l’abitudine di svegliarsi presto e di portare Samo a correre sulla spiaggia. Anche quella mattina, si alzò alle 6.30 si mise la tuta e s’incamminò per il bosco per raggiungere la spiaggia. La barca era sempre ancorata, ben salda, nel mezzo della sua baia. Dalla spiaggia riusciva intravvedere la sagoma della donna skipper sul ponte sorseggiare dalla sua tazza. Decise impulsivamente che era arrivato il momento delle presentazioni. Slegò la cima del suo canotto, lo spinse in acqua e cominciò ad avvicinarsi alla barca. Samo, tutto felice per il cambio di programma, lo seguì a nuoto.

Irene non si accorse dell’abbordaggio di Frank, era rapita dalla bellezza di quel paradiso, dove il suo istinto l’aveva fatta approdare. «Hey lassù, è profumo di caffè quello che sento?», urlo Frank, una volta che era a portata di voce. Irene si spaventò, e si alzò di scatto voltandosi verso il lato della barca da dove proveniva la voce. Non poteva vedere nessuno, perché il canotto era più in basso. Si avvicinò all’estremità della barca e guardò giù. Rimase a bocca aperta quando il suo sguardo si posò su Frank che stava tirando a bordo del canotto il cane. Non si aspettava certo di veder apparire un ragazzo così bello, dal nulla. Allora scoppiò a ridere. «Mi hai spaventata a morte!», urlò a sua volta.
Frank si voltò e i suoi occhi incontrarono il viso divertito di Irene che non riusciva a smettere di ridere. «È caffè, dicevi?», le richiese lui con un enorme sorriso. «Non avevo risposto ancora, sì è caffè», replicò lei, «Ne ho appena preparato una brocca piena, sali», aggiunse poi, allungandogli una cima dove poter legare il canotto. Lui afferrò la corda, in quel momento i loro sguardi s’incontrarono e Irene sentì un brivido scorrerle per tutta la schiena. Pensò, divertita, che lui fosse l’incarnazione del Principe Azzurro delle sue favole, tanto forte era il suo desiderio d’incontrarlo un giorno, che si era materializzato di fronte. Imbarazzata, distolse lo sguardo dagli occhi neri di Frank, e si voltò per cercare la scaletta corta per farlo salire a bordo.
Una volta salito, lui le allungo molto educatamente la mano: «Piacere, Frank», si presentò, «Irene», rispose semplicemente lei. Poi ci fu un attimo di silenzio, rotto da Frank che sorridendo chiese: «e … quella tazza di caffè?». Colta da un momento di timidezza Irene rise. «Ma certo, vieni», gli disse indicando la strada. E i due scesero sotto coperta. «È ancora caldo», aggiunse precedendolo nel cucinotto.
Irene versò il caffè nella tazza e gliela porse, in quel preciso momento le due mani si sfiorarono e Irene sentì gli stessi brividi, provati poco prima, salire per tutta la schiena. «Ben arrivata nel mio quartiere!», disse lui. Aveva un sorriso caldo e rassicurante e l’imbarazzo di Irene passò velocemente. Si sedettero al tavolo e cominciarono una piacevole conversazione. «Allora quella luce che vedevo ieri notte è casa tua?», chiese lei. «Sì», rispose lui, «ormai sono un paio d’anni che abito qui. Vado in città solo quando mi serve». «Ma non ti senti solo?». «A dire la verità, no. Sto bene. Ho bisogno di concentrazione quando lavoro», rispose sorseggiando il suo caffè, «e poi il paese non è molto distante, l’isola è piccola, casa mia sembra più isolata di quanto non lo sia in realtà». «È veramente un posto fantastico qui», disse semplicemente lei. Irene gli raccontò brevemente del suo lavoro e della sua passione per la scrittura, lui invece gli spiegò che era figlio di un’americana e un italiano, che era Cresciuto ad Atene e che prima di dedicarsi solamente alla pittura aveva lavorato in un’agenzia di pubblicità, ma dopo qualche anno quel mondo lo aveva stufato. Una grossa delusione d’amore, lo aveva poi spinto ad allontanarsi definitivamente dalla città. Non si era mai pentito della sua decisione, pensava di aver fatto la cosa giusta. Mentre parlavano, Samo gli scodinzolava intorno lanciando dolci occhiate e Frank spesso allungava la mano per accarezzarlo. Irene osservava con curiosità quel gesto affettuoso e le sembrava così pieno di dolcezza.
«Posso invitarti a cena stasera? Così ti mostro la casa», chiese a un certo punto Frank. «Certo», rispose subito lei, che in cuor suo non aspettava altro. Passarono ancora un po’ di tempo a parlare del più e del meno poi Frank decise di tornare sulla spiaggia con Samo. Si salutarono con un’educata stretta di mano e mentre lui saliva sul canotto Irene gli chiese: «Vuoi che cucini qualcosa io?». «Assolutamente no!», fu la sua risposta e agitando le braccia, prima di essere troppo lontano gridò «Alle sette, allora!».
Irene era confusa, mezz’ora prima si sentiva una Robinson Crusoe alla scoperta di un’isola deserta, ora aveva un appuntamento per cenare con uno degli uomini più belli che avesse mai incontrato. Era convinta di sognare; eppure il cuore le batteva forte al ricordo delle sue mani che la sfioravano mentre gli serviva il caffè, doveva essere tutto vero. «Sì, va bene Irene, adesso calmati, però!», disse ad alta voce come se stesse dando a se stessa un ordine da eseguire.
La giornata passò lentamente e per un po’ Irene riuscì a dimenticare l’appuntamento e si dedicò al suo libro. Lei, il suo computer e il rollio della barca.

Frank era ritornato a casa passando dal bosco; il cane gli trotterellava sempre intorno. Era contento del suo incontro. La donna skipper era diversa da come l’aveva immaginata, più semplice e più dolce. Non gli dispiaceva l’idea di averla invitata a casa sua, nella sua isola non aveva molte occasioni per organizzare una cena. Lui che era sempre un po’ impacciato con le donne, di fronte a Irene si era sentito a suo agio, non se lo aspettava. Decise di fare un salto in paese, e dopo una doccia partì in tutta velocità sullo scooter alla ricerca di qualcosa di speciale per la cena. Ci teneva a fare bella figura.

Irene era dispiaciuta di non aver nulla da indossare, era partita con l’idea che i pesci sarebbero stati i suoi unici compagni di viaggio e nella valigia aveva messo solo calzoncini corti e magliette. Improvvisò allora una gonna con un pareo arancione. Era la cosa più femminile che aveva trovato. Andava bene così, «Almeno è un colore che fa risaltare l’abbronzatura», considerò. Era nervosa come una quattordicenne al primo appuntamento.
«Forse la sua genuinità», pensava, mentre affondava i piedi nella sabbia della spiaggia. Passeggiava lentamente con le infradito in mano in attesa del suo cavaliere. Alle sette, puntualissimo, Frank sbucò dal bosco, «la semplicità in persona», ammirò Irene tra sé e sé, «sento che sarà una serata fantastica». Lui si avvicinò sorridendo e le diede un enorme bacio di saluto sulla guancia. Irene, un po’ a disagio gliene restituì uno anche lei lottando contro i brividi che le salivano la spina dorsale. Non si era mai sentita così attratta da un uomo appena incontrato; di solito le ci volevano giorni per uscire dal suo perenne stato d’insicurezza con gli uomini.

«Sei molto carina vestita da donna», le disse Frank ammirandola. Irene non capì se lui stesse prendendola dolcemente in giro. «Grazie, sai il primo straccetto che ho trovato», rispose allora lei ironica, calcando su una finta un’erre moscia; scoppiarono entrambi in una risata che, per fortuna, dissipò l’imbarazzo iniziale.
Cominciarono a salire per il sentiero che portava alla casa, alcuni pezzi erano piuttosto ripidi e Frank aiutò Irene a superarli tenendole le mani per sostenerla. Quando arrivarono in prossimità della casa, Irene si dovette fermare un attimo per prendere fiato e si guardò intorno. «Ma questo è un paradiso!», esclamò meravigliata da tanta bellezza, «Si vede la mia barca, guarda!», continuò indicando un punto attraverso gli alberi. «Sì, lo so», rispose lui, «è da lì che ti osservavo quando sei arrivata ieri», le disse poi, indicando uno spunzone di pietra poco oltre la casa, una grossa roccia bianca a picco sul mare. Quando entrarono in casa, furono accolti da Samo che faceva i salti acrobatici per salutarli. Irene pensò che il cane creasse una bella intimità. Frank aveva già apparecchiato per due sulla terrazza vista baia, ultimo tocco, accendere le candele. Stappò il vino e riempì due bicchieri, ne porse uno a Irene. «Alla nostra», brindarono. «È tutto così perfetto», disse Irene lasciandosi sfuggire un sospiro. «Già», affermò lui, «Probabilmente è tutto un sogno». «Bé, allora non svegliarmi!», comandò Irene sedendosi a tavola, «almeno, fin dopo cena!», aggiunse poi ridendo. «Sperando che alla signora piaccia il pesce …», disse Frank portando a tavola ogni ben di Dio. «Assolutamente il mio preferito», fu la risposta gioiosa di Irene che aveva deciso di mettere da parte la sua incredulità e cominciare a vivere la serata. La cena fu ottima e Irene non si sprecò in complimenti, finito di mangiare si alzarono e si affacciarono alla terrazza sul lato della baia.

L’aria della sera era frizzante, si era alzato un leggero vento. Il cielo stava lentamente prendendo un colore rossastro, il sole era già calato dietro la collina. Irene ebbe un fremito e Frank le mise il braccio intorno alle spalle «Senti freddo? Entriamo?», le chiese. «Sì, meglio», rispose lei, anche se in quel momento avrebbe voluto che l’abbraccio non finisse mai. Lui la precedette nel salotto e mise un po’ di musica, riempì di nuovo il bicchiere di Irene, che rifiutò «No basta, grazie. Penso di aver esagerato. Mi gira la testa». «Siediti», le disse lui indicandole il divano alle sue spalle. Lei seguì il suo consiglio e si sedette. Tolse le scarpe e tirò su le gambe, rannicchiandosi contro lo schienale. Frank prese il suo bicchiere e la raggiunse sul divano, le prese una mano tra le sue, «piccola e morbida», disse cominciando ad accarezzargliela. «A cosa stai pensando?», gli chiese Irene dopo qualche minuto di silenzio. «Che sto veramente bene qui con te», si voltò a guardarla negli occhi, «sei diversa dalle altre donne che ho conosciuto. E sei diversa da come m’immaginavo che fossi», aggiunse sorridendo. «Un rude marinaio?», gli domandò Irene ridendo. «Un po’ sì. Vieni, ti faccio vedere una cosa», e si alzò dal divano, sempre tenendola per mano. Lei lo seguì scalza fino al pian terreno, dove lui accese le luci del suo studio. «Qui è dove lavoro», e la invitò a entrare. «Meraviglioso!», esclamò lei mentre si guardava intorno e si lascava pervadere da un miscuglio di odori di vernici e solventi. Un grosso ambiente open-space, con un’enorme vetrata che si dava sulla foresta, pieno zeppo di tele e colori, tavoli, sculture. «Posso curiosare?», chiese lei. «Certo», rispose lui, «sto preparando una mostra per la fine di questo mese, sarà la mia prima personale». «Complimenti, i quadri sono bellissimi. Sarà un evento straordinario, la tua mostra!», affermò Irene con entusiasmo. «E tu dovrai esserci, per renderlo un evento indimenticabile», rimarcò Frank abbracciandola da dietro. La strinse a sé e la girò in modo da guardarla in viso. Irene sentiva il suo cuore battere forte per l’emozione di essere tra le sue braccia. Dal primo momento che lo aveva incontrato, non aveva pensato ad altro, e ogni volta che immaginava di abbracciarlo sentiva i brividi correre su e giù per la schiena. Era la prima volta che il contatto fisico con uomo le faceva questo effetto e ora si trovava a pochi centimetri dal suo viso.

«Ho dimenticato le fragole!», esclamò lui a un certo punto, scoppiando a ridere. Irene lo guardò seria per un attimo e poi non riuscì più a trattenere la risata, «imperdonabile!», gli rispose. I due tornarono al piano di sopra, Frank prese le fragole dal frigorifero le guarnì con della panna montata e ne porse una coppa a Irene. «Che cena sarebbe senza dessert?», disse lui sorridendo. Irene era contenta, Frank riusciva a farla sentire a suo agio; aveva quasi la sensazione di conoscerlo da molto tempo, invece erano solo poche ore. Poche ore che erano bastate per far nascere un’attrazione profonda.
«È buffo che tu abbia attraccato proprio qui», disse Frank, «è una piccola baia dove non viene mai nessuno». «L’ho scelta apposta», disse lei, «avevo bisogno di isolarmi dal mondo». «Allora io ti ho stravolto i piani!», le sussurrò lui nell’orecchio. «Direi di sì …», disse lei sottovoce ricambiandole il sorriso, «… ma va benissimo così!». «Dici sul serio?», chiese lui. «Perché, avevi dubbi?», rise Irene che pensava di essere sempre molto esplicita nel mostrare le sue emozioni. «No!», rispose lui, ridendo.
Irene lo fissava negli occhi senza riuscire a distogliere lo sguardo, Frank le prese le mani e fece il gesto di abbracciarla. Lei lo precedette e gli mise le braccia intorno alla vita. Non si dissero nulla e nel silenzio lui cominciò a baciarle il collo, salendo lentamente verso il viso, cercando le sue le sua labbra. Lei reclinò la testa leggermente all’indietro, assaporando ogni secondo di quei baci. Quando sentì il suo respiro vicino, chiuse gli occhi e lo baciò sulle labbra. Avvertiva le sue forti braccia che la stringevano, si sentiva la donna più fortunata sulla faccia della terra. «Ti voglio», mormorò lui. «Anch’io», rispose lei in un sospiro.

venerdì 23 ottobre 2009

Questione di dignità

“Sua mamma è molto ansiosa” dice l’infermiera con un forte accento spagnolo. “È perché forse sta morendo, no?” Pensa la ragazza seduta sul letto, mentre le risponde con un sorriso stropicciato “Abbia pazienza”.

“Sta per morire”, si ripete nella testa come un mantra e intanto la guarda in silenzio. La mamma sta finendo a fatica il suo piatto di minestrone. Così lo aveva chiamato l’inserviente, minestrone, ma a lei sembra più del brodo sporco in cui galleggia della pasta scotta. La osserva così scrupolosamente che le fanno male gli occhi. Cerca di cogliere un particolare, uno solo, che possa darle la certezza che anche lei lo sa, ma non è sicura di poter reggere il suo sguardo ancora a lungo. Vorrebbe scuoterla forte e prendendola per le spalle vorrebbe urlarle: “Ma tu lo sai che di qui non esci più? Tu lo sai, vero?”. Invece rimane seduta, in silenzio. Perché è così che si fa con chi non ha più scampo, si resta in silenzio.

La mamma le chiede di scartarle il formaggino. Lei si avvicina e glielo prende dalle mani, nota che ha le unghie lunghe e non curate, non sembrano nemmeno più le sue dita. O forse non lo erano quelle di prima. Perché c’è stato un prima, diverso dall’ora, ma altrettanto doloroso. Torna a sedersi sul bordo del grande letto bianco e ricomincia a guardarla mentre fa quei suoi brevi gesti, i pochi consentiti dalla quantità di tubi che la circondano. Il bicchiere d’acqua nell’angolo destro del tavolino, la sveglia bene in vista per tenere sotto controllo la sua solitudine, i fazzolettini umidificati solo poco più in là, le sue uniche certezze dopo cinque mesi di ospedale. Intrappolata nel suo destino un po’ borghese si scusa di essere spettinata e cerca di afferrare il pettine, ma la flebo glielo impedisce. La ragazza docile si alza e senza parlare le avvicina il tavolino al letto. “Ma cosa ti pettini a fare che stai per morire”, pensa, ma subito dopo si vergogna di averlo pensato; è questione di dignità, sempre, anche davanti alla morte.

[…]

Mamma


Quando l’umano scivola via
cosa resta nelle pieghe del volto?
L’impronta del corpo che mi ha generato
nel risvolto di una coperta troppo corta.
Solo ricordo del male lontano e
l’affanno sospeso nell’aria acerba.


mercoledì 14 ottobre 2009

Ho desiderato la sua morte


Ho desiderato la sua morte.
Spesso ho cercato di immaginare il suo corpo senza vita, quando intuivo che non ce la faceva più. Quando intuivo che noi non ce la facevamo più.
La desiderava anche lei, ma non ha mai avuto il coraggio di guardarla negli occhi, la morte. Anche quando le era accanto. I suoi gesti inconsulti ci dicevano che la vita le faceva paura, più della morte, ma almeno la vita le era familiare.
Ora quella vita le sta scivolando via. Ha deciso di andarsene spegnendosi lentamente, in dissolvenza come un vecchio film.

Ho desiderato di vederla morire, per eliminare il dolore. Il suo di madre bambina e il mio di figlia madre, perché era diventato insostenibile, il dolore. Così forte che abbiamo dovuto nasconderlo al mondo.
Ho desiderato la sua morte, e ora la morte è lì con lei, pronta a prendersi il suo ultimo respiro.

mercoledì 7 ottobre 2009

Autostop all'alba

Pubblicato sul settimanale Vera n. 16 del 6 ottobre 2009

La vecchia Renault andava spedita per la provinciale macinando chilometri su chilometri. Il guidatore pigramente teneva il suo gomito fuori dal finestrino aperto, tamburellando sul volante con le lunghe dita affusolate il bel ritmo blues che stava ascoltando alla radio. Grandi occhi nocciola fissavano la strada da dietro un paio di Rayban, cercando di nascondere la stanchezza accumulata nel guidare tutta la notte. Lui odiava l’autostrada, preferiva perdersi per le strade secondarie. Lo faceva da sempre, anche da ragazzo quando andava in giro ad esplorare con la bicicletta, preferiva i campi alla strada.
Uno sbadiglio rilassò il suo mento forte, abbellito da un pizzetto nero corvino come i suoi capelli, legati in una lunga oda di cavallo. Marco doveva raggiungere Milano, era partito il giorno prima dal suo paese in Sicilia, dove aveva passato gli ultimi giorni di vacanza. Era un chitarrista blues e lo aspettavano quella domenica al Blue Note per un concerto insieme a Fabio Treves e la Treves Blues Band, con cui aveva già suonato parecchie volte. Lui se l’era presa con comodo ed era partito qualche giorno prima per gustarsi la strada come un’estensione delle vacanze. Non era la prima volta che attraversava l’Italia a quel modo e ogni volta notava qualcosa di diverso nell’aspetto di un borgo o di un paesaggio. Malgrado non fosse più un ragazzino, essere on the road per lui era sempre un’esperienza unica. Aveva passato ogni vacanza della sua vita con lo zaino in spalla a girare Europa e America, non poteva farne a meno. Con gli anni era diventato per lui un modo di essere e non solo un modo di viaggiare. Adorava la sensazione di libertà che gli dava e il contatto che riusciva ad avere con le persone che incontrava strada facendo. Amava la gente.
La vecchia auto era un casino, un po’ come la sua vita in quegli ultimi anni, essere musicista lo portava a viaggiare molto e non riusciva ad avere nulla di stabile che durasse nel tempo. Un grosso amplificatore Marshall adagiato sul sedile posteriore insieme alla sua amata chitarra, pile di giornali vecchi sul sedile del passeggero tenevano compagnia a buste vuote di fast food e bicchieri di Coca Cola e ad una serie di CD in ordine sparso. Non si era mai trovato a suo agio nei posti troppo ordinati.
La radio su cui si era sintonizzato cominciò a gracchiare, il segnale si riceveva a singhiozzo, allora Marco con la mano destra cominciò a frugare tra i resti musicali disseminati in giro. Trovò il CD Riding with the King di B. B. King e Eric Claplton e decise che sarebbe stata quella la sua colonna sonora. Lo infilò nello stereo e cominciò a seguirne il ritmo tamburellando la mano sulla coscia. Cantava: Don't you know we're riding with the king? Riding, you're riding with the king.
Dopo una curva, in lontananza intravide una longilinea sagoma di una ragazza che camminava sul ciglio della strada nella solitudine delle sei di mattina. I lunghi capelli biondi sventolavano al vento da sotto la bandana turchese, portava un piccolo zainetto, anch’esso turchese, sulle spalle e lo indossava quasi fosse un orsacchiotto di peluche. Sentendo una macchina avvicinarsi lei si voltò a mostrare il pollice per chiedere un passaggio. Marco l’osservò meglio, indossava un paio di jeans tagliati che le lasciavano libere le caviglie sottili e una camicetta di cotone bianco leggero a maniche lunghe.
Rallentò per accostarsi e chiederle dove andava «Ma è giovanissima», si disse stupito, quando le fu abbastanza vicino per vederla bene in viso. Nasino alla francese decorato da parecchie lentiggini e due grandi occhi verdi. Aprì il finestrino e le chiese: «Dove sei diretta?» «A Torino», rispose lei con una voce sottile che confermava la sua giovane età.
«Io vado a Milano, se ti può interessare, ti porto fino a lì». «Grazie, sì», disse lei avvicinandosi alla macchina. Fece quasi fatica ad aprire la portiera e Marco fu colpito di nuovo dalla sua giovane età «Non deve avere più di quindici o sedici anni», pensò mentre liberava il posto del passeggero da tutte le sue cianfrusaglie.
Lei si sedette appoggiando bene la schiena allo schienale, mise lo zainetto in terra tra le sue gambe e posò le sue mani sulle cosce in una posizione che mostrava tutto il suo imbarazzo. «Grazie», ripeté in un respiro.
«Mi fa piacere fare il viaggio in compagnia», disse Marco riprendendo la strada. Lei rimase in silenzio con gli occhi fissi fuori dal finestrino e lui si concentrò sulla guida.
Dopo un po’ Marco si accorse che la musica era finita, cercò un CD nel cruscotto. Tirò fuori un album di Ben Harper e lo porse alla ragazza «Puoi metterlo, per favore?» «Cosa?», chiese lei risvegliandosi dai suoi pensieri «Ti dispiace infilarlo nello stereo?», ripeté lui con un gran sorriso. «Ah, certo. Non avevo capito», rispose lei ricambiandogli il sorriso. «A proposito, non ci siamo nemmeno presentati. Io sono Marco», aggiunse lui. «Lory», disse lei dopo un attimo di esitazione.
Lei tirò fuori il CD dalla custodia senza nemmeno guardare di cosa si trattasse e lo infilò nella fessura. Rimase con la copertina in mano per un po’ senza sapere dove appoggiarla, Marco lo notò e gliela prese dalle mani mettendolo giù sul sedile posteriore. «Lo so, sono un casinista. Scusa», e rise. Anche Lory rise, ma non aggiunse altro. Rimasero ancora in silenzio, lui capì che lei era in imbarazzo e non forzò la conversazione «Il viaggio è lungo», rifletté. Dopo una mezz’ora Marco vide con la coda dell’occhio che lei stava seguendo il ritmo della musica con le gambe.
«Ti piace?», le chiese. «Sì», poi silenzio. Un’altra risposta monosillabica.
Lory trovò in terra una rivista musicale e cominciò a sfogliarla. Dalla velocità con cui girava le pagine sembrava che stesse solo guardando le fotografie. Finì la rivista in un attimo e poi riprese a guardare fuori dal finestrino.
Ad un certo punto Marco provò a fare un po’ di conversazione «Cosa ti porta a Torino?» «Tu!», rispose lei un po’ sarcastica. Marco scoppiò in una roboante risata «Che tipo che sei, ragazzina», le disse. «Non sono una ragazzina», ribatté lei fingendo di essere seria. Lui si accorse che lei finalmente si stava rilassando un po’. Lory dal canto suo era contenta che lui non si fosse offeso per la sua risposta un po’ secca.
Marco guardò l’orologio «È ora di farci una bella colazione, al prossimo paesino ci fermiamo». Lei annuì e poi tornò subito a guardare il paesaggio che cambiava velocemente. Sembrava preoccupata.
Marco avvistò un distributore «Mi fermo prima a fare benzina» e si avvicinò alle pompe. Quando scese dall’auto notò che Lory aveva preso il suo zaino da terra e lo abbracciava stretto sulla pancia mentre osservava in giro. «Chissà da cosa sta scappando?», si chiese tra sé e sé. Prese il secchio d’acqua e la spugna per pulire il parabrezza. Mentre lavava via la polvere e gli insetti dalla parte della ragazza, la fissava intensamente, le fece un cenno con la mano e cominciò a farle delle boccacce. Lei sorrise, quando improvvisamente gli tirò fuori la lingua scoppiando in una risata fragorosa. Lui si sentì meglio pensando che forse ora ci sarebbe stato meno imbarazzo.
Marco pagò e risalì in macchina, guardò Lory negli occhi e scoppiò anche lui a ridere. Ripartirono più leggeri. «Ora si va a mangiare», disse lui dirigendosi verso il centro abitato.
Posteggiò proprio davanti all’unico bar del paese, scese dalla macchina e s’incamminò verso l’entrata. Lory non si mosse, restò seduta abbracciando il suo zainetto turchese. Marco si accorse che lei non lo stava seguendo e ritornò indietro verso l’auto «Cosa fai? Non vieni?», le domandò mettendo la sua grande faccia appiccicata al finestrino e alzando gli occhiali da sole per marcare il fatto che stava parlando proprio con lei.
Lory esitò ancora un attimo poi lo seguì dentro al bar, sempre abbracciata al suo zainetto. Si sedettero ad un tavolino e prima di ordinare lei gli sussurrò sottovoce, piuttosto a disagio, «Io non posso pagare». «Lo avevo immaginato», rispose lui con un sorriso. «Non ti preoccupare, offro io».
Il gestore del bar si avvicinò al tavolo «Per me un cappuccino e una pasta alla crema», ordinò Marco «Bene, e per sua figlia?», chiese lui voltandosi senza sorridere verso Lory «Lo stesso», disse soltanto lei mentre incrociava lo sguardo di Marco che stava ridendo sotto i baffi. Rise anche lei. La preoccupazione sulla faccia di Lory scomparve completamente quando mise la pasta alla crema sotto i denti. Si rese conto che era affamata, e che non aveva mangiato nulla dalla mattina passata. Marco sorseggiò il suo cappuccino lentamente osservando Lory divorare la colazione. La vide stropicciarsi gli occhi con le sue piccole dita, bianche e affusolate. Aveva gli occhi lucidi e Marco si chiese se stesse piangendo. Era così giovane e carina, le faceva tenerezza. Rifletté sul fatto che lui, a quarant’anni, non aveva figli e non aveva mai pensato di farsi una famiglia. Fin da ragazzo aveva un solo sogno, la chitarra e nella sua vita non c’era stato posto per altro. Ora, viaggiare con una bambina lo inteneriva a tal punto dal chiedersi se avesse fatto bene. La vedeva così piccola e indifesa che sentiva quasi il desiderio di proteggerla. Non gli era mai successo di trovarsi in una situazione del genere. Frequentava molti ragazzi giovani per le lezioni di chitarra che lui impartiva, ma nessuno mai lo aveva toccato così in profondità.
Quella ragazza bionda e minuta che se andava in giro da sola per la provinciale alle cinque di mattina, pensando di evadere da qualcosa di misterioso, sprigionava un’aura speciale che lo aveva incantato.
«Sei un musicista?» chiese ad un certo punto Lory. Lui si stupì di questa apertura, dopo i lunghi silenzi che c’erano stati in macchina, non se l’aspettava. «Ho visto la chitarra», continuò lei. Marco le sorrise «Sì, infatti. Sono un chitarrista. Sto andando a Milano per un concerto». Dopo una breve pausa lui continuò «E tu?», approfittò dell’apparente disponibilità per chiedere notizie. Era curioso. «Vado dal mio ragazzo», rispose lei con una semplicità che sembrava po’ costruita a nascondere altro. Non disse più nulla. Lui si chiese allora se i suoi genitori sapessero che lei era partita, in autostop e senza soldi, per andare dal suo fidanzato, anzi si domandò anche se il suo fidanzato fosse a conoscenza del fatto che lei lo voleva raggiungere. Marco voleva saperne di più sulla sua storia. Finì il suo cappuccio e poi aggiunse: «Bello, il tuo fidanzato sarà contento di vederti. Deve essere difficile vivere così lontani l’uno dall’altro». Lei rimase in silenzio mentre il gestore ritirava le tazze del cappuccio dal tavolo e poi disse quasi sottovoce «Immagino di sì, lui non lo sa. Ma sarà contento». Marco rimase in silenzio per qualche minuto «È a Torino per lavoro?», lei non rispose. «Dico, il tuo fidanzato lavora lì?», ripeté lui allora.
«C’è andato perché ci siamo lasciati, ma so che sarà contento di vedermi», rispose allora lei. Marco ebbe l’impressione che lei cercasse di auto convincersi che stava facendo la cosa giusta. Decise di non insistere. Lory si alzò per andare in bagno, lasciò il prezioso zainetto sulla sedia. Lui lo interpretò come un segno di fiducia, ne era contento.
Lo raccolse, se lo mise in spalla e andò a pagare. Lory ritornò dal bagno e prese lo zaino dalla spalla di Marco con un gesto tutto naturale. «Grazie», disse solo con la sua giovane voce. «Grazie a te, ragazzina» disse lui. Questa volta lei non protestò. Il ghiaccio era rotto. «È ora di rimetterci in cammino, su, andiamo». Ritornarono insieme alla macchina e ripresero il viaggio.
Marco aprì il cruscotto e le mostrò la sua collezione di CD «Ti occupi tu della musica, ok?» «Perfetto», e Lory contenta si mise a rovistare tra i molti titoli. Trovò un album di Chet Baker e lo mise su, tutta soddisfatta della scoperta, quasi come se avesse trovato una pepita d’oro. Marco cominciò a battere il tempo sul volante e a canticchiare sottovoce. Lei tornò silenziosa per qualche minuto, poi ad un tratto domandò: «Se tu avessi 18 anni e avessi messo incinta la tua fidanzata, avresti paura?». Lui, stupito per la domanda improvvisa, smise di colpo di tenere il tempo «Ecco di cosa si tratta», pensò e le rispose «Penso proprio di sì, e molto anche» «Sai, il mio ragazzo aveva paura, ma cercava di nasconderlo», fece una pausa e poi continuò «Si è arrabbiato con me come fosse stata colpa mia e poi è partito, a Torino abita il suo migliore amico».
«È sicuramente una situazione difficile per tutti e due», cercò di rassicurala Marco. «Una nuova vita è una grossa responsabilità», proseguì lui. «È normale che lui abbia avuto paura». Lei non parlò più per una buona mezz’ora, si vedeva che aveva il magone e che cercava di trattenere le lacrime. Non voleva che Marco la vedesse piangere e provava a nascondere il viso girandosi verso il finestrino. Lui non insistette, intuiva la sua pena, aspettò che fosse lei a continuare. Quando finalmente lei parlò, non riuscì più a trattenere le lacrime e scoppiò a piangere «Lo devo assolutamente trovare, non posso farcela da sola», disse tra i singhiozzi. Si asciugò subito le guance con le mani e cercò di riprendersi. Marco avrebbe voluto stringerla e dirle che tutto si sarebbe aggiustato, ma aveva paura di metterla in imbarazzo. La sua fragilità lo colpiva profondamente, ma anche il suo coraggio di prendere e andarsene di casa così da sola, alla ricerca di una soluzione.
Mentre teneva fissi gli occhi sulla strada pensava a che tipo di famiglia potesse essere la famiglia di Lory. I suoi genitori che tipi erano? Si chiedeva se lei gli avesse detto qualcosa o li avesse tenuti all’oscuro, come credeva più probabile visto l’angoscia che Lory sembrava provare. Non sapeva bene cosa dire in quella situazione, si sentiva in imbarazzo anche lui. «Come vi siete conosciuti?», chiese poi lui pensando che forse era meglio prenderla alla larga. «A una festa, sai com’è», sospirò lei. «Ci siamo piaciuti subito, le mie amiche dicevano che era veramente carino. Poi …», fece una pausa e anche Marco restò in silenzio, voleva che fosse lei a parlare, non pensava fosse giusto forzarla. «poi, è successo», concluse infine lei. Aveva smesso di piangere. «Ho paura», aggiunse dopo un po’.
«Hai tutte le ragioni di essere spaventata». Marco le sorrise e riuscì a strappare un debole sorriso anche a lei. «Ma sei sicura che andare a cercare un ragazzo che se n’è andato quando ha saputo che eri incinta sia la cosa giusta da fare?», andò al sodo. «Non ho scelta», disse lei con una fermezza che non sembrava figlia della sua età.
Marco preferì non esagerare, in fondo non era suo padre, non era certo lui che doveva dirle cosa avrebbe dovuto fare anche se era tentato di farlo. Lui era solo uno sconosciuto in cui lei si era imbattuta qualche ora prima.
Lasciò che Lory si tranquillizzasse guardando il panorama dell’Appennino, ora la strada stava salendo. Cambiò discorso e per un po’ parlarono di musica e di concerti come se non avessero mai parlato d’altro.
Marco continuò a guidare fino all’ora di pranzo. «fame?», le domandò ad un tratto. «Sì», rispose lei. «Ma sono sempre senza soldi, come prima» «Lo so, ma non posso mica farti morire di inedia, no?», disse lui ridendo. «Tra un po’ ci fermiamo».
Lasciarono passare un paio di piccoli paesini e poi si fermarono in un centro abitato che sembrava un po’ più accogliente. Posteggiarono l’auto nella piazza centrale e scesero a cercare un posto dove pranzare. Trovarono una bella pizzeria in una stradina secondaria. Erano gli unici clienti. Si accomodarono in un tavolo verso il fondo del locale. Lory si allontanò per andare in bagno mentre Marco ordinava due pizze con le verdure grigliate. Lei ritornò al tavolo senza bandana e con i bei capelli biondi raccolti in una coda di cavallo «Sembra ancora più bambina, pettinata così», pensò lui guardandola mentre si avvicinava. Lei si sedette: «Grazie». Marco pensò che fosse particolarmente tenera nella sua ingenuità adolescenziale, aveva voglia di accarezzarle la guancia, ma preferì non farlo. Per un attimo gli sfiorò il pensiero che forse aveva fatto male a non voler avere figli.
Arrivarono le pizze. «Ma i tuoi genitori?», le chiese Marco «Non sanno nulla», rispose lei «Mi ammazzerebbero se solo immaginassero», aggiunse. «Saranno in pensiero, non credi?», continuò Marco esternando una preoccupazione reale. «Già», disse solamente lei e restò in silenzio. «Non posso tornare a casa». «Perché no? Forse non hai abbastanza fiducia nei tuoi genitori. Sono sicuro che capirebbero». «Credi?», domandò Lory che si sentiva abbastanza confusa. «Io penso di sì, in fondo ti hanno cresciuta. Ti vogliono bene», lui fece una pausa per cercare di capire cosa le stesse passando per la testa e poi continuò «Io proverei a telefonare, se fossi in te». Lory non rispose. Aveva lasciato tutte le croste della pizza in fila sul bordo del piatto e cominciò a rosicchiarle nervosamente una per una. Marco capì che quello era il momento buono per insistere «Sei stata così coraggiosa ad arrivare fino a qui da sola, sono sicuro che ce la puoi fare. Una telefonata e vedi come reagiscono». Sorrise teneramente per addolcire quello che stava per dire. «Se il tuo ragazzo è scappato a Torino, non credo voglia essere raggiunto».
Lory abbassò gli occhi. «Forse hai ragione», sospirò. Marco estrasse dalla tasca il suo cellulare e glielo posò gentilmente di fronte. «Solo se te la senti», le fece cenno con la mano di prenderlo. «Andrà tutto bene, vedrai.», disse per rassicurarla.
«Ci devo pensare», affermò lei fissando il telefono. Marco pensò di lasciarla sola per un attimo e si alzò per andare in bagno. Quando ritornò dalla toilette la vedeva di spalle. Mentre avanzava notò che stava parlando e allora rallentò il passo.
«Sì, Papà», la sentì dire «Sto bene, sono vicino a Roma». Fece una pausa per ascoltare «Ho fatto l’autostop. Sono stata fortunata». Altra pausa «È una brava persona, mi ha detto lui di chiamarti». Marco si sedette al tavolo e rivolse a Lory un sorriso di sostegno, lei continuò «Ascolta papà, ti devo dire una cosa … sono incinta». Lory lo sparò fuori come una fucilata mentre guardava Marco negli occhi come per cercare un appoggio. Lui le prese la mano e gliela strinse forte, facendole l’occhiolino. «Sì, papà. Lo so. Ero scappata per cercarlo, ma ora ho capito che voglio tornare a casa». Lei ascoltò cosa le stava dicendo il padre per qualche minuto poi rivolse il telefono verso Marco e disse: «Mio papà ti vuole parlare». Lui, colto alla sprovvista, esitò un attimo, ma poi pensò che era la cosa giusta da fare. «Pronto?» «La devo ringraziare per quello che ha fatto per Cristina», disse la voce di un uomo con un leggero accento Palermitano. Marco si stupì quando sentì il padre chiamare Lory con il suo vero nome, aveva intuito che ne avesse usato uno falso e pensò che comunque per lui sarebbe sempre stata Lory. «Non ho fatto nulla, mi era solo parso che sua figlia fosse un po’ confusa» «Le chiedo un ultimo favore, se la cosa non la porta fuori strada», domandò timidamente il padre di Cristina «Io pensavo di far trovare un biglietto aereo all’aeroporto di Campino, in modo che possa tornare a casa». Marco rispose senza esitazione «Non c’è alcun problema, l’accompagno con piacere».
Finita la conversazione Marco pagò il pranzo e si avviarono verso l’automobile. «Non potrò mai dimenticare quello che hai fatto per me», disse Cristina mentre imboccavano la strada per l’aeroporto. «Io non ho fatto nulla. Hai deciso tutto da sola», replicò lui «È stato solo un caso che tu abbia incontrato me». «Già», disse lei facendogli l’occhiolino «Un caso», e finalmente sollevata rise di cuore.
Arrivarono all’aeroporto e passarono al check in a ritirare il biglietto. Marco la volle accompagnare fino all’imbarco, con un velo di malinconia l’abbracciò stretta. «Abbi cura di te, ragazzina». Lei lo baciò teneramente sulla guancia e si avviò verso l’uscita. Si girò un’ultima volta a salutarlo prima di varcare la soglia. Marco pensò che fosse stato il più dolce incontro della sua vita.