giovedì 15 settembre 2011

martedì 16 agosto 2011

La Terre Mère


"Terre Mère" (work in progress)

One of nine photographs from the project "La Terre Mère"
©Donatella D'Angelo 2011


Ogni uomo ha bisogno di identificarsi in qualcosa che trascenda, trasfiguri, nobiliti, arricchisca la sua esistenza quotidiana individuale, ponendosi in contatto con un ordine simbolico superiore, rispetto al proprio corpo e alla propria vita.

Credo sia arrivato il momento per l’uomo di riacquistare la capacità di avvertire la dimensione animistica dei luoghi e degli esseri e che questa necessità possa risultare in un significativo passo in avanti sul cammino dell’individuazione dell’uomo stesso e della propria anima. Un ricongiungimento tra natura ed essere umano, un’integrazione reale che rifiuti lo sfruttamento feroce delle risorse naturali della terra da parte dell’uomo incentivando invece un’unione spirituale profonda tra le parti. Ricongiungimento che può avvenire attraverso un processo di semplificazione del pensiero e conseguentemente della società.

L’opera “La terre mère” è il prodotto di un lavoro autobiografico sulla ricerca del mio stesso centro simbolico attraverso il processo di semplificazione e ricongiungimento con la natura in cui la scelta del nudo e del particolare ha un forte connotato rappresentativo: il pube e la fertilità, la forma del triangolo con magia e spiritualità, la nudità come naturale semplificazione del pensiero.


©Donatella D’Angelo 2011

martedì 9 agosto 2011

le ricette di sunugal



scambio di sapori e saperi tra Italia e Senegal


Puoi sostenere l'associazione Sunugal con una donazione
tutte le info in terza di copertina.
Per ordinare la copia cartacea della rivista lascia nome e e-mail nei commenti
Grazie


mercoledì 8 giugno 2011

Del sole spento e della morte (2 puntata)




Aprivo gli occhi che era ancora buio con la sensazione che mi fossi appena addormentata. Non avevo la forza di guardare che ore fossero e mi tiravo il lenzuolo fin sopra al mento. Superato quell’attimo di smarrimento dove stentavo a riconoscere persino me stessa, cercavo di tornare alla calma rimbombante del sabato mattina. Non avevo motivo di alzarmi, mi giravo lentamente verso il muro a cercare una zona del letto più fresca, sperando di riaddormentarmi in fretta.

Con gli occhi chiusi aspettavo che il sonno tornasse a conquistare le mie membra, ma dopo qualche tempo l’attesa cominciava a essere troppo lunga. Sentivo un’inquietudine molle affiorare tra le lenzuola. Mi giravo di lato, cambiavo posizione alle gambe e poi alle braccia, ma i pensieri avevano ormai iniziato a lavorare. E quel lavorio mi teneva sveglia, quasi la mia attenzione fosse rapita dal rumore degli ingranaggi nel cervello che lentamente vanno a regime.

Volevo riempire la mente con il vuoto del silenzio per quietare l’ansia del risveglio precoce, ma lì, tra il sonno e la veglia, la tua immagine si manifestava invadente. Il tuo sorriso, incastonato nei miei pensieri, da giorni ormai non mi lasciava dormire. Riguardavo gli stessi fotogrammi all’infinito, studiavo i tuoi movimenti attraverso la costante ripetizione del nostro incontro.

Ma non era mai lo stesso, l’incontro. Aggiungevo un gesto che avrei voluto avessi compiuto, oppure toglievo uno sguardo che mi aveva messo in imbarazzo, lavorando l’evento come fossi alla moviola a montare una mia verità. Lo vivevo come un vero e proprio film, con una sceneggiatura originale scritta da me, dove noi protagonisti non seguivamo altro che la legge dei miei desideri.

Quello che non cambiavo, mai, nelle diverse scene, era il tuo sorriso. Quello non mi concedevo di alterarlo. Era qualcosa di inviolabile, che andava al di là del mio lavoro di regista. Un’opera d’arte, appena macchiata dall’ombra curva del tuo naso. Labbra tonde che piegavano alle estremità in due solchi che ricordavano le fossette sulle guance dei bambini. Un’attrazione tutta infantile a esaltare il tuo viso maturo, uno specchio in cui riflettersi.

Era l’emozione che provavo davanti all’assoluto di quel sorriso, il motivo della mia insonnia. Addormentarmi voleva dire congedarmi da quella ricchezza e io non ne ero capace. Lasciarlo andare era troppo difficile, temevo che quella sensazione non tornasse più, mi abbandonasse per sempre. Avevo paura di dimenticarmene e cercavo di tenere vivo il ricordo restando sveglia. Nel preciso momento in cui sentivo che il sonno stava per averla vinta mi aggrappavo a quell’immagine sperando di riuscire a trascinarla con me nel sogno insieme ai battiti accelerati del mio cuore pronto a esplodere.

Sabato era il giorno in cui ti avrei rivisto, o meglio, era il giorno in cui tu avresti visto quello che io volevo mostrare di me. Il pensiero dell’incontro mi procurava una scossa elettrica che correva per tutta la spina dorsale. Con gli occhi ormai spalancati rimanevo supina nel letto in attesa di cogliere il primo raggio di luce penetrare dalle persiane come esortazione a lasciare il letto. La luce, però, sembrava avesse deciso di non presentarsi all’appuntamento quella mattina. Avrei dovuto leggerci un segno; un avvertimento che l’intreccio della trama si sarebbe rivelato in seguito insolitamente oscuro.


1° puntata

sabato 4 giugno 2011

Fallen Angels

Angel #1 (virtual collage ©Donatella D'Angelo 2011)


Angel #2 (virtual collage ©Donatella D'Angelo 2011)


Angel #3 - Black Angel (virtual collage ©Donatella D'Angelo 2011)

mercoledì 25 maggio 2011

Motherhood in red

acilico su cartapesta e cartoncino
©2011 Donatella D'Angelo

intimacy in white

acrilico su cartapesta e cartone (33 x 37 cm)
©2011 Donatella D'Angelo

Del sole spento e della morte (1 puntata)




Nulla faceva presagire che sarebbe successo, perché niente sembra mai essere ciò che è in realtà. Non si ha la coscienza del dramma, di solito è destinato sempre agli altri; un modo imprudente di evocare il nostro senso d’immortalità.

Non penso tu mi abbia notato, trasparente come so essere io tra la folla, riesco a passare completamente inosservata. Un aspetto non trascurabile, la trasparenza, in un mondo come questo. Fatto di apparenze.

Io ti osservavo, invece. Seduto all’estremità opposta del tavolo, precario sulla sottile sedia in alluminio, che facevi dondolare su due gambe. Avanti e indietro a scatti, quasi a dire che avresti voluto essere da qualche altra parte; da qualsiasi altra parte, ma non lì, a riempire un locale già abbastanza affollato, un sabato sera uguale a tanti altri.

Noi si parlava e si rideva, ma tu restavi in silenzio. Il tuo era un silenzio nervoso, un silenzio lento con lievi accelerazioni. Che si alzava con te e ti seguiva mentre lasciavi il locale per rispondere al telefono.

I miei occhi, colpevoli di averti notato, provavano a fissare la tua immagine nella memoria nonostante tu, nella tua impercettibile danza, sfuggissi al loro contatto.

Ma è stato solo al momento dei saluti che ho sentito che ci saremmo rincontrati, quando ti è scappato un sorriso. Un sorriso semplice. Sorriso che avrei sofferto così tanto in seguito.

E così è stato. Ci siamo rivisti. Non più tardi di qualche settimana dopo quel sabato sera, uno scontro frontale nel bel mezzo del marciapiedi. Un attimo per capire dove mi avevi già visto e poi ancora quel sorriso.

Non ero poi così sicura che avessi veramente capito chi fossi, ma in quel momento non importava: mi stavi già invitando a bere un caffè.

«Che caso», hai ripetuto più volte tra una frase e l’altra, forse per colmare il vuoto dell’imbarazzo, ma io so che le coincidenze non vengono mai per caso. Tu questo non lo sapevi ancora.

Solo un attimo di esitazione, uno sguardo intorno e ti avviavi con le tazze di caffè verso l’unico tavolino libero, in fondo alla sala. Lontano dalla luce della vetrina.

Io mi sedevo accanto a te, scegliendo di stare a tre quarti. Non ero ancora pronta per incontrare il tuo sguardo diretto.

Nella penombra i tuoi lineamenti tornavano a essere gli stessi del sabato sera al locale, di un’intensità che la luce del sole non sapeva esaltare.

L’ombra marcata del naso, leggermente aquilino, che muore sulla guancia, la barba di qualche giorno con riflessi grigi a tradire l’età. La voce, quella no, non aveva età invece. Era profonda, dal petto.

Non ti facevo domande, non ce n’era bisogno. Orfano di quel silenzio che mi aveva catturato la prima volta che ti vidi, tu parlavi di te stesso senza timidezza alcuna. Nemmeno tu facevi domande, era quasi un monologo. Immerso nella tua necessità di raccontarti avevi lasciato freddare il caffè nella tazza senza berne nemmeno una goccia.

Ma io non ti ascoltavo, rapita dalla sovrapposizione della luce sulle zone d’ombra, studiavo il chiaroscuro del tuo viso, attenta a non farmi sorprendere. Pensavo che se avessi allungato la mano avrei potuto toccare quelle curve che l’ombra disegnava quasi in modo perfetto proprio a marcare le tue labbra in movimento.

Le mie mani, invece, erano ferme. Tenute giunte e adagiate sulle cosce sotto al tavolo. Mi sforzavo di tenerle immobili ora, perché sapevo che sarebbe venuto il loro momento, poi.

Mentre pagavi alla cassa, io attendevo sulla porta il tuo saluto e la conferma che ci saremmo rivisti. Un po’ un mio destino quello di attendere conferme.

«Allora, sabato?» mi ha detto avvicinandoti per baciarmi la guancia.

«Perfetto», ho risposto io voltandomi in modo che il bacio, finito poi sulle labbra, sembrasse casuale.

martedì 17 maggio 2011

troppe parole

Speech di Nicola Kane - dettaglio (*)

Troppe parole. Parole inutili, spogliate del loro significato, che riempiono vuoti incolmabili. Impilate come scatole di cartone. Parole rigurgitate in frasi sgrammaticate, in una contorsione linguistica adatta solo a biglietti d’auguri per amori improbabili.

Scritte in fretta per scacciare la noia. O la paura. Un movimento continuo che impedisce di riflettere; di accorgerti che sei solo e che non ti è mai piaciuto esserlo.

O meglio: che non sei mai stato capace di stare solo.

Temi l’immagine di te stesso e la proietti sull’altro in modo da vivere di luce riflessa. Non sei costretto a guardarti. Non ne saresti più capace ora, la luce diretta confonde la vista. Gli occhi ti fanno male e tu, di dolore, non ne vuoi sentire più. E lo giuri a te stesso.

È facile mantenere la promessa, ti viene restituito esattamente ciò che hai dato di te, una selezione prevedibile del meglio e del peggio. Così, per non restare mai deluso, dai e ricevi ciò che ti aspetti, senza alcun investimento emotivo. E nessuno sarà mai costretto a conoscerti per quello che sei: un capriccio del tempo.

Ti ritrovi in una continua masturbazione intellettuale a svendere le tue emozioni per un grammo di adrenalina. Non è questo a cui tu ambivi, ma la disperazione di una crisi di astinenza è ben peggiore e tu sai benissimo che non te la puoi permettere.




(*) Photos: Typographic interpretation. Martin Luther King’s ‘I Have a Dream’.

A hand rendered typographic interpretation of Martin Luther King’s ‘I Have a Dream’ speech. The piece focuses upon King’s use of metaphor, in particular his reference to land, drawing from landscape to create the form for the handwritten words. It also considers physical aspects of the 1963 march such as the steps upon which the speech was made, and the mass of people present as King spoke.

http://www.kith-kin.co.uk/presents/index.php/london-08/speech/

giovedì 21 aprile 2011

Bastava una sola parola per evitare che il sole si spegnesse

Battle of Bosworth by Philip James de Loutherbourg


Bastava una sola parola per evitare che il sole si spegnesse; bastava un gesto, semplice come un sorriso. Forse tanto semplice da diventare irraggiungibile, quel sorriso; tanto semplice da trasformarsi in smorfia di dolore.

Io ho affrontato la battaglia completamente disarmata, perché non ho mai saputo cosa fosse in realtà la guerra. La mia pelle nuda esposta a un mondo estraneo e un cielo senza sole, i miei unici ricordi.

Semplice per me, che vivo la lealtà come un credo; ma non per te, forse, che sei il mio opposto.

Ma io questo non l’ho capito in tempo e non ho saputo fare altro che spingerti verso un lago di non detto. Ti ho annegato, in quel lago, con le stesse mani con cui ti ho accarezzato. Ti ho sommerso di lacrime e di sangue finché non respiravi più.

E mentre vedevo la tua vita scivolare via, osservavo il cielo grigio riflettersi sull’acqua. Bastava una sola parola per evitare che il sole si spegnesse.

mercoledì 13 aprile 2011

il racconto L’ULTIMA CORSA di Donatella D’Angelo, in libreria!




"L'ultima corsa", un mio racconto,

Lo trovate a pag. 61 del libro

"DI CORSA ATTORNO AL MONDO"

di STEFANO MEDICI

(ed. ZonaContemporanea)

in libreria anche a MIlano dal 18 aprile 2011



vi anticipo l'incipit ...

L’ULTIMA CORSA di Donatella D’Angelo

«Ti asciughi le gocce di sudore sulla fronte con la manica della felpa. In realtà vorresti cancellare i pensieri che si affollano nella tua testa, un groviglio di frasi e immagini che ti provocano un dolore insopportabile. Le tempie ti pulsano, a ogni passo un colpo di scalpello scava in profondità. Hai l'impressione che il cervello possa esplodere fuori dalle orbite degli occhi, ma non ti vuoi fermare. Ti piace spingere oltre i tuoi limiti e sentire il fiato corto. È già quasi un’ora che corri e non ce la fai più. Fa freddo e il tuo sudore caldo si congela sulla schiena facendoti venire i brividi. I tuoi seni, costretti nel reggiseno a corsetto, sono doloranti. Vorresti poterli liberare e non sentire più lo sfregamento del tessuto sui capezzoli indolenziti.»



sabato 2 aprile 2011

rollio


È quel rollio che mi riporta indietro nel tempo; è quel dondolare sospinto dall’onda a darmi la nausea mentre chiudo gli occhi e lascio che sia il mio corpo a lasciarsi andare. Mi accascio e resto immobile.

Non era così che doveva essere. Penso. Mi avevano detto di non aver paura, di andare e uscire allo scoperto. Che era arrivato il momento giusto, ero pronta.

Invece tremo. Non riesco a muovermi e mi copro il viso con le mani. Le sento pulsare le ferite ancora aperte, il sangue scorrere sotto la pelle.

Avverto i passi del predatore che fiuta l’odore del mio sangue. Rosso cupo e denso. Si aggira poco lontano. Sa che ci sono e aspetta solo il momento di agire.

Mi stupisco di essere ancora viva. Vorrei potermene andare adesso, prima che si avvicini troppo, ma non ho la forza di tirarmi in piedi.

La vedo la strada, una strada alberata che corre dritta innanzi a me, di ghiaia bianca.

La strada da prendere. Non ci sono sponde a cui appoggiarmi e allora resto lì, aggrappata alle mie ginocchia.

Provo un dolore così profondo che incatena ogni mio pensiero a terra e io, incapace di prendere il volo, trattengo il respiro per non esistere e allontanare lo sciacallo. Non sono ancora morta.

Come l’eroe sulla via del ritorno, consapevole delle prove che lo aspettano, ma incapace di armarsi contro i nemici. Solo, in una lotta in cui nessuno lo può aiutare, nemmeno gli Dei, sa che prima o poi dovrà andare in guerra perché quello è il suo destino. Ed è anche il mio.

Intanto la testa continua a girare, la luce bianca che filtra dalle fessure mi confonde.

Vorrei che qualcuno mi venisse a prendere e mi portasse via. Magari in braccio. Vorrei concedermi una tregua, curarmi le ferite, vorrei poter guardare avanti senza abbassare lo sguardo. Vorrei essere un gatto che cade sempre in piedi.

Vorrei. Ma non oso.

lunedì 28 marzo 2011

La donna comunista che ha mangiato il mio cuore


Dolce, fin quasi alla nausea, la sensazione di lei che affonda i denti nel mio petto.

Un morso, uno squarcio. Rosso, il sangue sgorga; lei lo beve dalle mani a coppa e io, senz'armi, mi lascio penetrare dal nemico.

Aperto il varco, si addentra nel mio corpo con le mani giunte come una mistica in preghiera. Calda, accoglie l’uomo che le offro in un abbraccio umido, con generosa voluttà mi percorre da cima a fondo, confondendomi. Danza carnale tra il groviglio delle mie arterie.

Urlo di piacere nel momento in cui lei afferra il mio cuore lacero tra i denti, il desiderio rimanda il dolore originando pena. La forza data in pasto al mio avversario mi allontana dall’amore originale e scappo via senza voltarmi, lasciando indietro la donna comunista avvolta stretta, come un serpente, attorno alla sua spada di Damocle.

giovedì 3 marzo 2011

ORNAMENTAL EROTICA in mostra




Mursia è lieta di invitarla all'inaugurazione di

ORNAMENTAL EROTICA
virtual collages di Donatella D'Angelo

Interviene: Andrea Villani

(seguirà aperitivo)


Martedì, 8 marzo - ore 18.30
la libreria Mursia via Galvani, 24





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DONATELLA D'ANGELO
vive e lavora a Milano come artista visiva e graphic designer dal 1984, recentemente ha intrapreso un lavoro di ricerca personale sul tema del nudo e della femminilità esponendo a Milano le sue immagini elaborate usando la tecnica del collage virtuale.
Ha illustrato alcuni libri per l'infanzia e manuali per Sfera Editore e Hoepli.
È docente di Packaging Design alla Fondazione Accademia di Comunicazione a Milano. Collabora occasionalmente con riviste e blog letterari scrivendo racconti.

http://www.wix.com/donatelladangelo/dadografico



ANDREA VILLANI
ha scritto per il teatro e pubblicato diversi racconti per antologie, riviste e quotidiani tra i quali Gazzetta di Parma, La Repubblica e Giallo Mondadori. Ha scritto e interpretato reading tra i quali "Noir Tropical Reading". E' responsabile cultura della rivista "Terre Verdiane News" e direttore artistico e conduttore della rassegne letterarie, musicali ed enologiche Diciottoeventi e Noveventi. Ha pubblicato, con Todaro, il romanzo noir "La notte ha sempre ragione" e "La strategia del destino" con Mursia Editore. E' ospite opinionista a Rai2, a Rai Notte, a TV Circuito 5 Stelle e a Rai Radio 2.

http://www.andreavillani.it



venerdì 21 gennaio 2011

Il mio amore è la luce dei tuoi occhi

(Photo - via Vitruvio ©Donatella D'Angelo)

Francesco la vedeva tutti i giorni sul tram, la mattina mentre andava a lavorare. Lei saliva la fermata dopo la sua; lo prendeva quasi al volo come fosse costantemente in ritardo. Saliva a testa bassa e senza nemmeno guardarsi intorno si dirigeva verso il fondo. Non si sedeva mai, nemmeno se c’era un posto libero; stava in piedi a guardare fuori dal finestrino. Scendeva solo qualche fermata dopo, a quella dell’Ospedale, di solito dall’uscita sul retro. Erano almeno due mesi che Francesco percorreva la stessa strada e lei c’era sempre, aveva immaginato che potesse lavorare in qualche reparto come infermiera o fosse addirittura una dottoressa, anche se sembrava troppo giovane. Avrebbe potuto essere studentessa in medicina, pensò.

Lei aveva un non so che di fragile nell’aspetto e Francesco talvolta fantasticava di poterla proteggere da qualche pericolo. I capelli biondi fini, portati il più delle volte pinzati sulla nuca, lasciavano libero il suo collo lungo e sottile. Indossava spesso degli abitini a fiori che le evidenziavano il seno piccolo e la vita stretta; e quando Francesco la immaginava, la pensava proprio vestita con uno di questi abitini estivi leggeri che la facevano sembrare una ragazzina spensierata.

Era in qualche modo attratto da lei, ma la sua timidezza lo inibiva nel fare una qualsiasi mossa che non fosse solo osservarla da lontano. Aveva pensato molte volte di avvicinarla, ma temeva di sembrare inopportuno e di fare la figura dell’invadente. Qualche volta ci aveva anche provato, ad avvicinarsi; si era alzato dal suo posto e si era messo in piedi di fianco a lei sperando di essere in qualche modo notato. Fino ad ora non sembrava che la ragazza si fosse mai accorta della sua costante presenza; anzi, a volte era così distratta che, forse, non si accorgeva della presenza di nessuno.

Una mattina il caso volle che, appena salita la ragazza, il tram frenò bruscamente per evitare un cane che stava attraversando la strada. Lei, che non aveva ancora raggiunto il suo solito posto sul retro, perse l’equilibrio e finì dritta nelle braccia di Francesco che si era appena alzato.

«Oh, mi scusi tanto» disse lei senza guardarlo direttamente negli occhi. «L’ho presa al volo, non è caduta», disse lui con un sorriso. Le stava ancora tenendo strette le braccia. Lei riprese la sua postura eretta ringraziando, «Sì, è stato bravo, ma ora mi può lasciare. Sono in piedi», aggiunse ricambiando il sorriso.
«Oh mamma, ha ragione. Mi scusi lei ora», rispose imbarazzato. E mentre Francesco le rispondeva, notò qualcosa di strano nel suo sguardo, come se davanti ai suoi occhi ci fosse un velo.
Arrivò la sua solita fermata, ma questa volta la ragazza, prima di scendere, si voltò e sorrise di nuovo a Francesco «Grazie ancora» gli disse con dolcezza.
Quel singolo attimo di vicinanza riuscì a infondere a Francesco una serenità infinita così che passò tutta la giornata trasognante.

Il giorno seguente lui l’aspettava; salito sul tram come al solito, non vedeva l’ora che salisse anche lei, ora aveva la scusa per salutarla, per parlarle; e si mise al finestrino per poterla vedere il prima possibile. Pioveva e il vetro del finestrino era appannato, così pensò di aprirlo e mettere fuori la testa. Passata la prima fermata, il tram faceva una larga curva prima di raggiungere quella successiva – la fermata dove la ragazza solitamente saliva – e Francesco, impaziente, si sporgeva in punta dei piedi per cercare riconoscerla tra la folla di persone accalcate sotto la pensilina e quelle con gli ombrelli aperti. Salirono tutte, una per una. Ma lei non c’era.

La delusione di Francesco fu enorme. Lei non aveva mai perso il tram in due mesi. Lui guardò l’orologio domandandosi se fosse troppo tardi, o magari troppo presto, ma constatò che era esattamente la stessa ora di sempre. Si domandò cosa poteva essere successo e decise di continuare a piedi per smaltire un po’ della tristezza che gli si stava accumulando dentro. Scese dal tram alla fermata seguente e cominciò a camminare verso il suo studio senza curarsi della pioggia che lo stava inzuppando dalla testa ai piedi.

Francesco era un pittore. Aveva conseguito la laurea in architettura per fare contenti i suoi genitori; nonostante ciò, finito l’università, non aveva mai cercato un lavoro da architetto, aveva preferito continuare a fare ciò che più amava: dipingere. Era bravo e anche molto apprezzato nell’ambiente; aveva già esposto i propri lavori a molte mostre collettive e anche tenuto con successo delle mostre personali. Aveva cominciato così per caso, facendo un laboratorio di acquarello alle scuole medie, e poi si era appassionato. Ora divideva un open space in centro città con, un suo amico scultore, e stava preparando una nuova serie di quadri per una mostra che si sarebbe tenuta di lì a breve.

Arrivò in studio completamente fradicio, il suo amico non c’era ancora e lui entrò lasciando pozzanghere d’acqua in terra ad ogni passo. Si sedette su una sedia e rimase lì seduto immobile a pensare alla ragazza del tram. Gli venne un attacco di malinconia al pensiero di non vederla mai più.
Non aveva nemmeno uno straccio per asciugarsi e nessun vestito per cambiarsi. Quando cominciò a sentire i brividi di freddo per l’aria che gli penetrava attraverso i vestiti bagnati, decise di tornare verso casa. Non era in vena di lavorare oggi.
Lasciò un messaggio scritto su un pezzo di giornale all’amico dicendo che lo avrebbe trovato a casa e si chiuse la porta alle spalle.
Stava smettendo di piovere e quindi pensò di ritornare a casa a piedi; camminare gli avrebbe fatto bene. Arrivato all’altezza dell’ospedale intravide una figura familiare che stava entrando in un bar. Era lei, ne era sicuro. Decise di seguirla e si avviò verso lo stesso bar. Entrando la vide seduta a un tavolino in fondo alla stanza che stava sorseggiando un cappuccino. Era proprio lei.

Chiuse gli occhi, tirò un grosso respiro e si disse «Ora o mai più». Cercando di raccogliere tutto coraggio che aveva si avvicinò al tavolo. Lei aveva la testa bassa e non lo vide arrivare.
«Sbaglio o ci siamo già visti?», disse Francesco, pensando che una frase più stupida di quella non la poteva dire. Lei alzò lo sguardo e sorrise, lo riconobbe subito: «Sei il ragazzo del tram!», gli rispose.
«Posso sedermi?», chiese lui contento che lo avesse riconosciuto subito. «Ma certo, accomodati.», disse lei. Francesco ordinò un bicchiere d’acqua senza toglierle gli occhi di dosso.
«Io sono Chiara, piacere. E tu?» aggiunse poi lei. «Francesco», replicò lui.
Non poteva credere che stesse succedendo. Era lì, seduto con lei a chiacchierare del più e del meno come se si conoscessero da sempre.
Parlarono per quasi due ore, Francesco le raccontò del suo lavoro e dei suoi progetti futuri; poi a un certo punto le chiese se, per caso, lei lavorasse in ospedale. A quella domanda Chiara s’incupì e restò in silenzio.
«Chiedo perdono, sono troppo invadente» si scusò lui.
«No, no. Non sei tu. È che è difficile spiegare».
«Non devi, non ti preoccupare» la rassicurò lui sentendosi in imbarazzo e pensando a come cambiare argomento.
«No, ma … forse è meglio che te lo dica subito», considerò Chiara, «sai, nel caso ci incontrassimo di nuovo» disse poi accennando a un lieve sorriso.

Francesco capì che la cosa era seria e in attesa che lei esternasse il suo problema si tirò indietro sulla sedia sedendosi con la schiena ben appoggiata allo schienale e prendendo una posizione d’ascolto composta.
Dopo ancora qualche secondo di esitazione Chiara disse: «Ho una patologia degenerativa della retina», buttò la frase fuori dalla bocca tutta di un fiato e poi continuò. «Sto progressivamente perdendo la vista».
Francesco restò in silenzio, sapeva che qualsiasi parola in quel momento sarebbe stata inutile. Le sorrise dolcemente poi, esitando un poco, allungò la mano verso la sua; anche se non sapeva come Chiara avrebbe potuto reagire a un gesto così intimo fatto da un estraneo.
Lei si lasciò prendere la mano e sorrise. Francesco ne fu felice. In quel momento si sentiva l’uomo più fortunato del mondo. Lui e la sua “ragazza del tram”, mano nella mano.
«Se ti chiedessi di uscire con me una sera, verresti?», le chiese d’un tratto.
«Sì», rispose Chiara.

Uscirono spesso insieme nelle settimane seguenti e Francesco venne a sapere che Chiara era una pianista, che aveva girato il mondo per fare concerti e che ora si era dovuta fermare a causa della sua malattia. Aveva perso l’uso dell’occhio destro quasi completamente e in questo periodo si stava sottoponendo a cure per cercare di rallentare il processo degenerativo per l’altro occhio. Le restava l’insegnamento che amava moltissimo e che le dava un senso di utilità.
Francesco si rese conto in fretta dei disagi che la perdita della vista le procurava. Faticava a fare le piccole cose, ma cercava sempre in ogni caso di sbrigarsela da sola senza chiedere aiuto. Lui scoprì che era una donna tutt’altro che fragile, al contrario di quello che aveva immaginato prima di conoscerla.

Chiara amava l’opera e quell’estate, per festeggiare il loro primo anno insieme, lui acquistò i biglietti per andare a vedere Il Rigoletto all’Arena di Verona. Era una serata bellissima, nel cielo terso brillavano milioni di stelle. Francesco pensò che fosse il momento giusto e all’uscita dello spettacolo prese a braccetto Chiara: «Andiamo a fare una passeggiata, ti mostro il balcone di Romeo e Giulietta».
Arrivati nella piccola piazza, sotto il balcone Francesco l’abbracciò: «In realtà ti ho portato qui per dirti una cosa», le sussurrò lui nell’orecchio.
Lei sorrise in modo leggermente canzonatorio: «Non vorrai mica chiedermi di sposarti proprio sotto il Balcone di Giulietta?», replicò.
Francesco scoppiò a ridere: «Invece sì, e ho persino comprato un anello», rispose mentre infilava la mano in tasca. Tirò fuori un piccolo scatolino rosso e glielo mostrò cercando di restare serio.
«Vuoi tu, Chiara Fasano, diventare mia moglie nel bene e nel male, per i secoli dei secoli?»
«Ma sei serio?», gli chiese lei un po’ sorpresa.
«Certo che sono serio!», affermò Francesco senza smettere di sorridere. Chiara si adombrò e restò in silenzio, dopo qualche secondo gli chiese: «in salute e in malattia?»
Lui capì cosa stava pensando, e la strinse a sé. «Certo sciocchina, mi prenderò cura di te!».
Chiara era commossa e le stava venendo da piangere, appoggiò il viso sul suo petto per cercare di nascondere le lacrime che le stavano sgorgando per la gioia. Francesco se ne accorse lo stesso, ma fece finta di niente.

Chiara, qualche settimana dopo la proposta di matrimonio, lasciò il suo monolocale si trasferì a casa di Francesco, la vista era peggiorata ulteriormente e cominciava a fare veramente molta fatica nello svolgere semplici azioni quotidiane come, ad esempio, prepararsi la colazione alla mattina. Francesco non la voleva lasciare sola. Nonostante lei avesse un sostegno psicologico, la progressiva perdita d’indipendenza, la buttava tremendamente giù. L’idea di diventare un peso per gli altri la faceva stare molto male, la rendeva nervosa. Negli ultimi tempi era diventata intrattabile.

Francesco, che l’amava teneramente, portava pazienza. Capiva quanto potesse essere difficile per lei e cercava di aiutarla in modo discreto, senza essere troppo invadente. Aveva la fortuna di essere un artista, di lavorare per conto proprio, e questo gli dava la possibilità di trovare il tempo libero necessario per potersi prendere cura di lei.
Chiara continuò ad avere studenti di pianoforte, Francesco le aveva predisposto una stanza per la musica senza ostacoli: solo il pianoforte nel centro, che dava verso le grandi vetrate sul retro. Lui sapeva che, nonostante la sua cecità che avanzava velocemente, Chiara sarebbe stata ancora in grado di percepire le luci e le ombre; per questo ci teneva che la sua stanza fosse la più luminosa della casa.
Lui le faceva trovare sempre tutto pronto, l’aiutava a scegliere i vestiti alla mattina, a organizzarsi la giornata e solo quando sapeva che lei era tranquilla andava nel suo studio a lavorare per qualche ora.

Una mattina Chiara si svegliò con un umore peggiore del solito, sì alzò dal letto e si avviò a tastoni verso il bagno.
Francesco le aveva appena disposto i suoi abiti ai piedi del letto, quando gli parve di sentire dei singhiozzi provenire da dietro la porta. Allora bussò, ma non ottenne risposta, sentì solo tirare su con il naso.
«Chiara?», chiese «Stai bene?».
«No che non sto bene», rispose lei con un filo di voce.
«Posso entrare?», domandò Francesco, ma di fatto aveva già aperto la porta. Lei era seduta sul bordo della vasca da bagno, con la faccia tra le mani. «Stamattina ho aperto gli occhi», cominciò a dire poi si fermò.
«Sì?», incalzò lui che non sopportava di vederla soffrire.
«Non ho notato alcuna differenza tra il buio e la luce». Chiara sapeva che sarebbe arrivato questo momento, lo sapeva anche lui e la prese tra le braccia. «Amore, ci sono qui io per te».
«Ecco, anche di quello ti volevo parlare», aggiunse Chiara, «vorrei smettere di essere un peso per te».
«Ma tu non sei un peso», replicò prontamente Francesco, ed era proprio quello che pensava. Non aveva mai sentito il prendersi cura di Chiara come un peso, e ora non capiva esattamente cosa lei gli volesse dire.
«Vorrei non dipendere più da qualcuno», spiegò lei, dopo essersi asciugata le lacrime.
«Non capisco cosa vuoi fare» le disse Francesco infine, un po’ preoccupato perché non l’aveva mai vista in quello stato, «Vuoi andartene?»
«Ma no, Francesco. Non potrei vivere senza di te, lo sai anche tu», chiarì lei. «Non lo so cosa vorrei. Vorrei non sentirmi così, ecco».
Francesco la prese per la mano e la portò sul letto dove cominciò ad accarezzarla per rassicurarla: «ti amo da morire», le sussurrò in un orecchio.

I giorni passavano velocemente e Francesco osservava la sua amata rassegnarsi alla sua condizione. A un certo punto, come avesse avuto un’illuminazione, si rese conto di ciò che Chiara desiderava e che non sapeva come esprimere. Decise che da quel momento, invece di fare le cose al suo posto, avrebbe provato a insegnarle come farle da sola.
Iniziò prendendole le mani e guidandogliele nell’armadio accarezzando i vestiti, in modo che lei potesse imparare a usare il tatto per riconoscere i vestiti. «Questo è quello rosso lungo, senti la seta?», le diceva tenendo anche lui gli occhi chiusi, in modo da provare le sue stesse sensazioni.
Lo stesso lo fece con il frigorifero, indicando cosa ci fosse ripiano per ripiano. E tutto il resto della casa. «Ti prometto di essere sempre molto ordinato e di rimettere ogni cosa al suo posto», disse Francesco ridendo. «Già, non fare il solito dispettoso», rise lei tirandolo a sé per la manica.
Erano riusciti a trasformarlo in un gioco e il più delle volte finivano la “lezione” facendo l’amore e ridendo come ragazzini.
A Chiara finalmente tornò il buon umore e Francesco decise che era arrivato il momento per lei di affrontare il mondo esterno e porgendole il cappotto le sussurrò: «Il mio amore è la luce dei tuoi occhi».


Racconto in pubblicazione sul settimanale Vera (n° 4 di gennaio, anno 2011)