domenica 30 agosto 2009

mai più senza amore

pubblicato sul settimanale Vera n°10 del 25/08/09


Il ragazzo senegalese chiedeva soldi. Era già da un po’ che Gianna, seduta ad un tavolino del bar, lo vedeva andare su è giù per il marciapiedi assolato. Alla terza volta che le passava di fianco gli fece un gran sorriso. Lui le si avvicinò allungando la mano aperta verso di lei.

«Un euro, per mangiare?»

«Siediti qui con me», le rispose Gianna indicando la sedia libera di fronte a sé. Il senegalese ricambiò il sorriso con uno sguardo interrogativo. Lei continuò: «Ti offro qualcosa».

Lui esitò un secondo, poi si sedette. Il cameriere, che aveva visto la scena, arrivò subito come se volesse dire qualcosa. Gianna, per paura che potesse obiettare il suo gesto non aspettò e ordinò subito: «Un cappuccio e una brioche per il signore».

«Subito», rispose il ragazzo, che fece dietro front senza nemmeno accennare ad un sorriso.

«Come ti chiami?», chiese Gianna al suo ospite. «Rasul», rispose lui con un lieve imbarazzo. «Bel nome, io sono Gianna».

«Anche il tuo è un bel nome, signora», disse lui mentre il cameriere posava la tazza e il piattino con la brioche sul tavolo. Gianna pagò per Rasul.

«Tutto bene?», chiese lei. «Sì signora, tutto bene». Lui addentò la brioche e Gianna non fece più domande. Lo guardava sorridendo. Poi ad un certo punto le cadde l’occhio sull’orologio e gli disse: «Stai qui seduto e finisci con calma, io devo andare a lavorare». Lui abbozzò un sorriso tra un sorso di cappuccio e l’altro. «Grazie», sussurrò solamente.

Gianna si allontanò pensando: «Se va tutto bene a lui, di che mi lamento io?».

Gianna arrivò in università in ritardo, gli studenti erano già tutti lì. Fece la sua lezione così come l’aveva in testa senza aver potuto preparare nulla prima. Andò bene lo stesso. Il caso aveva voluto che la sua collega si trasferisse all’estero lasciando nelle sue mani il progetto di drammaturgia teatrale elaborato insieme da portare avanti fino all’esame, lei ne era entusiasta e si era buttata sulla cosa con tutta la sua energia Si trovava bene con i suoi studenti e le piaceva molto stare tra i giovani perchè le dava un senso di leggerezza. In questo periodo della sua vita, dove si sentiva soffocare dagli eventi, ne aveva un gran bisogno. Aveva perso da poco entrambe i genitori in un incidente stradale e non aveva ancora superato pienamente il colpo che aveva accusato. In aggiunta, dopo vent’anni di matrimonio, cominciava ad avere la sensazione di non essere più innamorata di suo marito. Lui era una brava persona che le voleva un gran bene, ma ultimamente lei era arrivata a non sopportare più la sua presenza. Si sentiva fredda e distaccata senza avere un motivo così evidente. Aveva dato la colpa alla perdita che aveva appena subito, ma sotto sotto lei sentiva che c’era di più.

Alla fine della sua lezione s’incamminò verso l’uscita insieme ad alcune studentesse e rimase a chiacchierare alla fermata con una paio di loro mentre aspettava il bus per tornare a casa. Era così presa dalla conversazione che quasi lo perdeva. Non aveva tutta questa voglia di ritornarci, a casa. E Anche la sua distrazione sembrava quasi un modo per allontanare quel momento.

Salì sul tram, trovò un posto a sedere e il suo viso si rabbuiò. Fece tutta la strada verso casa cercando di allontanare i pensieri. Provava a concentrarsi sul suo progetto teatrale, ma le sue riflessioni la riportavano sempre a pensare che non voleva tornare a casa.

Entrò nel suo appartamento silenzioso e buio. «Bene, non è ancora arrivato», pensò con un sospiro di sollievo. Lasciò la borsa e le scarpe all’ingresso e scalza percorse tutta la casa ad aprire le persiane. La luce estiva entrò invadente ad illuminare il viso di Gianna e a far brillare i suoi grandi occhi azzurri, sempre splendenti, nonostante la malinconia di questi ultimi mesi. Fece un gran respiro e il profumo dei gelsomini che aveva in terrazza le riempì i polmoni.

Decise di farsi una doccia prima di cominciare a preparare la cena e si diresse verso il bagno. Sì spogliò, lasciando cadere i vestiti per terra. Mentre stava entrando sotto il getto d’acqua calda sentì sbattere la porta d’ingresso. Sobbalzò, ma continuò in quello che stava facendo, senza fermarsi.

Dopo un attimo sentì bussare alla porta del bagno. «Avanti», disse Gianna. La testa brizzolata e barbuta di Giorgio, suo marito, fece capolino sorridente dalla porta semiaperta. «Non avere fretta, ho una cena di lavoro. Sono tornato a casa per cambiarmi, ma esco subito». Lei rimase dietro la tenda della doccia, «Va bene», furono le uniche parole di Gianna, mentre si risciacquava lo shampoo dai capelli. Giorgio uscì di casa dopo soli pochi minuti. «Farò tardi, ciao», aggiunse lui velocemente prima di chiudere la porta. Gianna, che era ancora in bagno, non rispose nemmeno. Ma lui probabilmente non l’aveva nemmeno attesa la sua risposta. Il lavoro era tutto per lui e ora poi, che aveva aperto uno studio legale insieme al suo migliore amico, ne era completamente assorbito.

Gianna osservò il suo viso nello specchio, non sapeva spiegarsi il perché di quel disagio ogni volta che suo marito le era accanto. Eppure lui le voleva molto bene e la trattava sempre con un grande rispetto. Si sedette sul bordo della vasca avvolta dal suo accappatoio blu con la testa tra le mani e tirò un gran sospiro. Avrebbe fatto come le suggeriva lui, se la sarebbe presa con comodo.

Si asciugò i capelli, si mise in pigiama. Prese il telefono e chiamò la pizzeria sotto casa.

«Volevo ordinare una pizza ortolana e una birra, grazie», disse, pensando che evitare di cucinare fosse un ottimo inizio di serata.

Andò in salotto, cercò un film tra i dvd «Ecco, il favoloso mondo Amelie, perfetto. Lo rivedo volentieri», e si spaparanzò sul divano in attesa della sua cena.

Quando si coricò, poco dopo mezzanotte, suo marito non era ancora tornato. Non se ne preoccupò. La sensazione del letto tutto per sé non le dispiaceva.

La mattina seguente la sveglia suonò alla solita ora. Giorgio era già in cucina, Gianna sentiva l’odore di caffé attraversare la casa e stuzzicarle le narici. Non si era nemmeno accorta del suo ritorno quella notte. Si alzò e lo raggiunse di là, lo trovò già vestito e pronto per uscire.

«Buon giorno, ti ho preparato il caffé, io devo scappare», le disse posandole la tazza sul tavolo «Ho una riunione prestissimo». Si avvicinò per baciarla, ma lei fece finta di non notarlo e lo evitò girandosi per prendere la zuccheriera. «È già zuccherato», disse lui. «Ciao, buona giornata», gli rispose lei solamente. Lui uscì con le sue carte sottobraccio e lei si preparò con calma per la sua lezione, dopo un’oretta uscì anche lei.

Passarono un paio di settimane con i giorni tutti un po’ uguali a sé stessi, e l’umore di Gianna non sembrava migliorare. La comunicazione tra lei e Giorgio era ormai completamente interrotta. La cosa che stupiva Gianna era la competa assenza di sensi di colpa. Giorgio sembrava così preso dal lavoro da non accorgersene neppure, e lei non faceva nulla per cambiare le cose.

Una mattina, al bar, Gianna si sedette al solito tavolino appena fuori dalla porta e notò Rasul in piedi sull’angolo della via, sembrava quasi che l’aspettasse, ma non avesse il coraggio di avvicinarsi. Avevano preso l’abitudine di incontrarsi tutte le mattine per fare colazione insieme, Gianna amava molto conversare con lui. Lei gli sorrise e lo invitò al tavolo. Lui esitò, ma lei insistette e Rasul allora si avvicinò.

«Ciao, Rasul, cosa c’è, non ti siedi?». «Devo andare», le disse quasi sottovoce restando in piedi. «Ma cosa è successo?», chiese Gianna un po’ allarmata. Il cameriere li vide e fece cenno con la testa di aver capito, dopo qualche minuto arrivò con due cappucci e due brioches.

«Volevo darti questo, Gianna», le disse tirando fuori dal grande borsone che aveva a tracolla un quadernetto con la copertina in pelle tutta consumata. «Domani torno in Senegal, mia mamma sta male», continuò. «Oddio, mi dispiace», esclamò Gianna.

«È molto vecchia. Poi tornerò e porterò mia moglie e mia figlia». Aggiunse sorridendo. Gianna non poté che ricambiare quel bel sorriso. «Voglio che quando tu torni, me lo fai sapere», gli disse lei mentre scriveva il suo numero di telefono sul retro di un piccolo depliant. Quando il cameriere arrivò Rasul se n’era già andato, appoggiò lo stesso i cappucci sul tavolo e Gianna pagò come al solito.

Aveva tra le mani il quadernetto di pelle, ma non osava aprirlo, si sentiva quasi un’intrusa. Lo mise in borsa così, senza violarlo. «A casa, con calma», pensò.

E così fece. Augurò la buona notte a Giorgio, si infilò il pigiama e si buttò sul divano con il libricino in mano. Studiò ancora l’esterno di pelle marrone, lisa negli angoli, girandoselo tra le mani. Poi lo aprì ad una pagina a caso. Una scrittura fitta riempiva le spesse pagine ecru. Cominciò a leggere dalla prima pagina, era scritto in francese. «Carissima Marèm, in un villaggio molto lontano da qui vive una bambina felice». Era una favola. Continuò a sfogliarlo con curiosità, erano tutte favole ed erano tutte dedicate alla sua bambina. Parlavano della sua terra, del villaggio del nonno, della città che lo aveva accolto, dei tanti viaggi che aveva fatto.

Gianna si tuffò nella lettura e perse completamente la nozione del tempo. Lesse per quasi tutta la notte. In tutte c’erano meravigliosi riferimenti ad amore e libertà che l’appassionavano e le facevano rendere conto quando arida fosse diventata la sua vita di questi ultimi anni.

Si svegliò la mattina dopo con Giorgio che le scuoteva una spalla. Le portava una tazza di caffé fumante.

«Lavorato troppo?», le chiese. Lei si sciolse con un grugnito da quella posizione rannicchiata che aveva assunto per dormire sul divano. «No, leggevo. Ma che ore sono?», mugolò aprendo un occhio.

«Le dieci», rispose lui e Gianna ebbe un sussulto e si tirò subito seduta. «Non ti preoccupare, è sabato», l’anticipò Giorgio.

«No, pensavo a Rasul, sarà arrivato!», esclamò lei sovra pensiero. «Chi è Rasul?», chiese lui incuriosito. Gianna si rese conto che per due settimane lei aveva fatto colazione con Rasul, avevano conversato, avevano diviso confidenze e non si era mai preoccupata di raccontarlo a Giorgio. «Un ragazzo senegalese che vedevo spesso al bar dove faccio colazione», disse lei e aggiunse: «So che tornava dalla sua famiglia». «Ah», disse Giorgio senza chiedere nient’altro.

«E tu che fai già tutto vestito di sabato?». «Niente, pensavo di passare dall’ufficio per un’oretta prima di pranzo».

Gianna si sdraiò di nuovo sul divano con un debole «Mah». «Gianna, ho accettato l’incarico. Che vuoi che faccia?». «No, niente. Va bene così», rispose lei poco convinta.

«Preparati per l’una, su dai. Ti porto a mangiare al ristorante indiano», cercò di consolarla Giorgio. «Ok», disse lei semplicemente richiudendo gli occhi.

Giorgio uscì ricordandole: «All’una, Gianna». La porta d’ingresso si chiuse alle sue spalle e Gianna prese in mano il libricino.

Lei e Giorgio si conoscevano dai tempi dell’università lui studiava giurisprudenza e lei drammaturgia. Non c’era stato un vero colpo di fulmine, ma grazie ad amici comuni si frequentarono abbastanza per arrivare a mettersi insieme. Fu sempre una relazione tranquilla senza troppa passione, ma con un grande rispetto reciproco.

Qualcosa però era successo durante il percorso. «Forse il fatto che lui non abbia voluto figli», pensò Gianna alzandosi dal divano. «Oppure la responsabilità del nuovo studio legale che lo porta sempre fuori casa». Non c’era mai stato motivo di astio tra i due coniugi, non litigavano quasi mai. «Ci siamo allontanati, semplicemente. Come due pezzi di legno alla deriva che seguono correnti diverse». Prese con sé il quaderno di Rasul. «Ciò che voglio è qui dentro», mormorò tra sé e sé avviandosi verso la camera da letto. Tirò fuori una valigia capiente e l’appoggiò aperta sul letto. Si guardò intorno, aveva poche cose a cui era particolarmente affezionata. Aprì l’armadio dei vestiti e cominciò da quelli, ne prese alcuni senza nemmeno sceglierli e li buttò alla rinfusa nella valigia insieme a un paio di libri e al suo diario.

Tirò fuori dal cassetto dello scrittoio le chiavi del monolocale che le aveva lasciato in eredità suo papà, che per fortuna era rimasto sfitto. «Avrà bisogno di qualche lavoro, ma per ora andrà benissimo», pensò. Per ultimo prese anche carta e penna e si sedette. Esitò un secondo, poi iniziò a scrivere: «Carissimo Giorgio, non so bene come cominciare questa lettera. Posso solo dirti che ho bisogno di tempo da sola per capire che cosa è per me l’amore …»

mercoledì 26 agosto 2009

Nuda

(prima breve riflessione sul cammino della via Francigena)

Vengo al mondo, nuda. Muoio e rinasco seguendo un sentiero tondo. Un’alba e un tramonto. I pensieri sorretti a mezz’aria semplicemente attendono la forza dell’inizio.
E nuda sarò, nell’attraversare il giorno. Scalza su zolle di terra cruda, arata di fresco. Conquisto l’aria intorno a me con un solo respiro. Respingo la paura, la mia e la tua. Non mi appartiene. Non c’è rovo che possa seriamente ferirmi. I dolori sono altri.
Vengo al mondo, nuda. Sento l’energia primordiale pulsare nelle tempie. Primitivo intuito. Prima pulsione. Nuda, mi espongo al mondo perché possa sentirlo. Un passo dopo l’altro. La forza viene dalla forza. Non mi riconosco nel tuo sguardo opaco. Io guardo oltre.




















(sul cammino - Sutri VT)

soffro

Soffro di una memoria che tradisce i ricordi.
Un ingranaggio inceppato in un processo senza fine.
Oblio da catena di montaggio.
Soffro dell’aggressività altrui che nega la mia libertà.
Per sopravvivere al dolore taccio.
Nel silenzio trovo le parole, unico solitario punto d’incontro tra dentro e fuori.
Soffro dell’aridità affettiva di chi soggiorna nell’intelletto senza mai uscire dal ruolo.
Dito indice a fendere l’aria.
Vergogna che riflette una cattiveria difficile da espellere.
Soffro del rifiuto al confronto frontale.
Continuo, incessante, senza fine.
Nella vita e nella morte sempre uguale a sé stesso.

martedì 11 agosto 2009

Nausea

Ho la nausea. Non passa.
Resto seduta sul letto, scomposta, come se fossi in bilico su uno strapiombo. Non era così che volevo che fosse. Ora è troppo tardi. Non si torna indietro.
Il passato è lì a ricordarmi da dove vengo, privo d’indicazioni su dove andare. Impantanata in sabbie mobili di frasi inutili, sfrondo a morsi il presente scomodo.
Non sento più nulla. Solo l’eco dei miei pensieri macinati fini dai sensi di colpa che si propaga in tutta la testa.
Ho il voltastomaco. Non passa.
Vorrei espellere dal mio ventre i giudizi superficiali di chi pensa di sapere chi sono. Io, donna bulldozer. Regina di cuori, di un regno anestetizzato. Rabbia sedata.
Per tre gocce amare in un bicchier d’acqua l’umore sfugge alla morte.
E sogno un amore a mollo nel caffelatte come una Macina del Mulino Bianco e tetti in tegole rosse. Il letto non mi basta più e spazio oltre le mura spagnole. Osservo il viso della Vergine di Antonello da Messina e piango.
Ho il vomito. Non passa.
Il rollio dell’insolenza mi fa venire il mal di mare. Come una partita a tennis, dritto, rovescio, schiacciata, l’avversario risponde con una palla tagliata. Match point. Basta un colpo per farla finita. Troppo facile, vincere o perdere la vita così. Non è nel mio stile. Io mi nutro come una gatta randagia sotto il tavolo di un ristorante di pesce a Porto Santo Stefano. In attesa di un poco di ciccia attaccata alla lisca alzo la coda e mi struscio contro la gamba della sedia. Corvino di indole l’uomo mi sfama.
Ho lo stomaco sottosopra. Non passa.

un amore sbagliato

Il 25 aprile ho amato un uomo. L’ho amato nel nostro letto. L’ho amato una sola volta.
Il 25 aprile ho capito che non ci sarebbe stato ritorno. Non sarebbe stato più possibile.
Ti ho indicato la porta come unica soluzione e tu te ne sei andato senza immaginare che non saresti più tornato.
«È finita». Te lo dicevo da tempo e tu non ci volevi credere. La vita impietosa ha deciso per noi e io mi son fatta portavoce di una scelta sofferta.
Ora vuoi tornare e mi chiedi scusa. Ora è tardi. «Per il male che ti ho fatto», mi dici.
«Non potevo più amarti così, come eravamo», dico io. «Non ti amo più».
Ti avevo avvertito e tu non mi credevi. «Non minacciarmi», dicevi. Ho dovuto smettere di amarti, non è stato facile. Pensavi potesse durare per sempre. Anch’io l’ho pensato. Ci sono stati momenti in cui credevo che fosse per sempre. Non ora, non più. Niente è per sempre.
Il 25 aprile ho amato un uomo, un uomo che non eri tu. L’ho amato molto, per poco.
Tu mi hai allontanato con le tue mani dure, con la tua voce feroce. Mi hai allontanato e io ti ho lasciato fare.
Ti ho amato e ti perdono, ma non posso più vivere con te. I fatti non si possono cancellare. Sono successi e mi hanno segnata. Hanno segnato anche te. Due vite segnate dai fatti.
Non potevo più tacere, stavo scomparendo nel nulla. Ho dovuto riprendere in mano la mia vita, la mia dignità di donna. L’amore non c’entra, quello c’è stato. Ma era l’amore sbagliato.

sabato 1 agosto 2009

LA SCELTA DI GLORIA

pubblicato sul settimanale Vera n°7 del 04/08/09


Gloria aveva ancora tra le mani la lettera scivolata fuori dalle pagine di un libro lasciato sul divano. La maneggiava come se fosse stata di fuoco, la girava e la rigirava senza sosta come per cercare delle parole che negassero tutto quello che aveva appena finito di leggere. La lesse una, due, tre volte. Erano poche inequivocabili parole, che la colpivano direttamente nel centro del petto. Si sentiva mancare e si dovette sedere per terra. Fece un gran respiro e ricominciò a leggere la lettera dal principio per la quarta volta.
«Caro Alberto, sono sdraiato sul mio letto e non riesco a smettere di pensare a noi due. Ai nostri momenti d’amore rubati al tempo e a tutte le cose meravigliose che mi dici continuamente. Una persona nella vita arriva ad un punto dove deve scegliere da che parte stare, può avere tante strade davanti, ma ne deve seguire una. Sono certo che tu sarai in grado fare la tua scelta serenamente senza far soffrire le persone che ti stanno accanto. Io non ti faccio fretta, sappi solo che ti amo e ti aspetto. Tuo Angelo».
Gloria aveva una gran voglia di urlare e infatti lo fece nella solitudine di quella stanza. «Perché, perché, perché?», gridò con tutta la voce che aveva in gola.
Le veniva da vomitare. Corse in bagno. Si svuotò lo stomaco e cercò di calmarsi. Si sedette sul bidet con la testa tra le mani.
Provò ad alzarsi, ma le girava ancora la testa. Si appoggiò al lavandino e mise la faccia sotto al rubinetto dell’acqua fredda. Restò così, qualche secondo, trattenendo il respiro. L’acqua scorreva sugli occhi chiusi, sul naso, sul mento. Poi prese un asciugamano e ci affondò il viso, tornando a sedersi. Gloria era talmente delusa da non provar più nemmeno rabbia. L’aveva già urlata tutta fuori prima, nel mezzo del suo salotto.
Una volta passate le vertigini andò di là a prendere la lettera e l’appoggiò in vista sul tavolo. Si muoveva nell’appartamento avanti e indietro tenendo lo sguardo sul bianco del foglio nel mezzo del tavolo come se lo stesse studiando. Sperava quasi che a voltarsi sparisse, per non dover affrontare la questione. «Che faccio, ora?», si chiedeva inquieta.
La giornata sembrava non avere mai fine. Gloria cercò di lavorare al suo romanzo, ma non riusciva a concentrarsi. Era tormentata dall’idea di dover affrontare per l’ennesima volta l’argomento con Alberto. Non era il primo tradimento. Ne erano avvenuti altri negli anni. Prima e dopo il matrimonio. Lei aveva finito quasi con l’abituarsi al fatto di non bastargli come amante. Nel frattempo avevano cresciuto due figli, Marco e Serena, comprato casa, fatto progetti insieme come se il problema non esistesse.
Alberto le chiedeva sempre scusa, dopo. «Non lo farò più», diceva lui ogni volta. «Ti amo, non voglio perderti», ripeteva tra i singhiozzi. E ogni volta Gloria perdonava e s’illudeva che fosse l’ultima. «In fondo lui torna sempre da me», si diceva. Il dramma si trasformava in una scappatella, una debolezza del momento e il problema veniva pian piano messo da parte fino alla volta successiva.
Ma con Angelo, no. Non poteva essere una debolezza. Si erano conosciuti tutti e tre al liceo e si frequentavano da allora. Avevano studiato insieme, passato vacanze al mare per anni a casa dei genitori di Angelo. Lui aveva anche avuto una breve storia d’amore con la sorella di Gloria, prima di accettare le sue tendenze omosessuali. Angelo era lì, da loro a cena non più di una settimana prima a festeggiare il suo compleanno.
Quasi non poteva crederci «Non sta succedendo a me, impossibile», si ripeteva Gloria. Per lei era un colpo terribile, lo viveva come un doppio tradimento. Il marito e il migliore amico.

«Piangere non serve», si disse Gloria. «Stavolta devo prendere una decisone definitiva».
Spense il computer, staccò il telefono, accostò tutte le persiane e si sdraiò sul divano. Chiuse gli occhi, ma non riuscì a rilassarsi nemmeno così. La sua testa era piena di domande, dubbi. Molte delle certezze che aveva erano crollate di colpo. Ora dubitava delle cose che Alberto le aveva raccontato, delle serate fuori per lavoro, dei seminari all’estero. La sua fiducia era stata tradita, questa era la cosa che le pesava di più.
Le cose tra loro non andavano bene da tempo, e lei lo sapeva. Le incomprensioni erano aumentate e, soprattutto negli ultimi mesi che non facevano più l’amore. Alberto coglieva ogni occasione per litigare. Ora aveva chiaro il motivo di tanta tensione. Lei aveva già pensato di lasciarlo altre volte, ma non ne aveva mai avuto il coraggio. Forse non era riuscita a considerare una separazione come soluzione possibile per la paura di restare sola. Non la vedeva come una situazione facile da affrontare per una donna di cinquant’anni. Si era sempre sentita insicura, nonostante i figli fossero già indipendenti e lei fosse una scrittrice di discreto successo. Gloria aveva sempre vissuto credendo nell’amore romantico, l’amore per sempre, l’amore che aiuta a superare tutti i problemi.
Ora, però la situazione era diversa. Scopriva una relazione omosessuale del marito con il loro migliore amico, che probabilmente andava avanti da anni. Una vita parallela. Non poteva passarci sopra come aveva fatto in passato. Doveva prendere una decisione e doveva prenderla subito. Non poteva più rimandare per rispetto a sé stessa. Passarono le ore con lei sdraiata sul divano. Ad un certo punto si tirò in piedi di scatto, quasi avesse avuto un’illuminazione. Capì cosa doveva fare e si mise in attesa.

Alberto tornò a casa alla solita ora, notò subito che c’era qualcosa che non andava.
L’appartamento tutto buio e silenzioso. «Gloria?», chiamò chiudendosi alle spalle la porta d’ingresso.
Lei non rispose. Lui entrò in salotto e la trovò seduta al tavolo nella penombra. Teneva tra le dita la lettera. Alberto intuì immediatamente la gravità della situazione.
«Pensavo fosse una faccenda chiusa da tempo, ti voglio fuori di casa entro domani», disse lei mentre si alzava a consegnare la lettera nelle mani di Alberto. «Possiamo parlarne?», domandò lui con un fil di voce. «Che differenza farebbe? Il perdono non costa nulla, quando sei tu quella ad aver paura di essere abbandonata. Questa volta è diverso», furono le ultime parole di Gloria.
Alberto capì dal suo tono che era finita sul serio e che sarebbe stato inutile anche solo discuterne. Non aveva la forza nemmeno di giustificarsi. Se si era arrivati a questo la colpa era anche sua, in fondo erano anni che portava avanti una relazione con Angelo senza avere il coraggio di decidere da che parte stare. Ora la decisione l’aveva presa Gloria per lui.
Alberto prese il cellulare dalla tasca e chiamò Angelo. «Vengo da te», disse solamente. Poi riattaccò.
Per tutta la sera Gloria non parlò. Non riusciva ad uscire nulla dalle sue labbra, nemmeno un mugugno. Aveva la testa vuota, tanto quanto la bocca. Seguiva con gli occhi i movimenti di Alberto, mentre radunava le sue cose in due valigie nel silenzio di una casa che già sembrava troppo grande.
Lui, una volta pronto per andarsene, esitò davanti alla porta. Si girò verso Gloria. «E i ragazzi?», le chiese. Gloria non gli rispose, allontanò lo sguardo. Il pensiero di doverlo comunicare ai figli era un dolore immenso per lei. «Li chiamo io domani», continuò lui aprendo la porta. «È il minimo che tu possa fare per loro», disse lei con fermezza guardandolo dritto negli occhi.
«Passo quando non ci sei a prendere il resto della mia roba», e la porta si chiuse su una storia forse finita da tempo.

Gloria non aveva cenato, non aveva fame ed era emotivamente esausta. Sapeva dentro di sé che quella era la strada giusta, anche se dolorosa. «Avrei dovuto pensarci anni fa», si disse mentre inaspettatamente cominciava a provare un senso di sollievo. Spense tutte le luci in giro per casa, accese delle candele e si versò un bicchiere di vino rosso per rilassarsi. «Ce la posso fare», pensò mentre cercava la musica giusta tra i molti dischi di musica jazz che adorava. Blue train di John Coltrane sembrava la scelta migliore.
Gloria aprì le finestre per respirare l’aria estiva. Inspirò a pieni polmoni e pensò di coricarsi. Andò verso la camera da letto, ma si bloccò sulla soglia. L’idea di dormire nel letto coniugale la turbava, decise allora di sistemarsi sul divano.

Soffiò sulla fiammella. L’odore della candela appena spenta non le dava noia, anzi le era sempre piaciuto. Nella penombra Gloria raccolse i vestiti che si era lasciata cadere in terra e si sedette sul bordo del divano, come se non osasse di più. Si avvolse nelle due coperte messicane, quella bianca, più morbida sfiorò i suoi seni. Lei dormiva così, nuda.
Sapeva che ora quello era il suo posto e si accoccolò in un angolo.
La solitudine che aveva scelto non la spaventava, sarebbe stata come una pausa. Un lasso di tempo tra la partenza e l’arrivo. E anche se lei non sapeva con certezza quali fossero la destinazione e la durata del viaggio, cercava di stare tranquilla.
Chiuse gli occhi e lasciò che i deboli rumori della notte intrattenessero il silenzio dei suoi pensieri. Si addormentò così, abbracciata alle sue ginocchia.
Più duro fu il risveglio, senza rumori. Solo un lontano brusio dalla strada. Le persiane lasciate aperte per accogliere l’alba ora lasciavano entrare un debole sole. Gloria fece scivolare le coperte in fondo al divano e si mise a sedere. Ripensò agli eventi della sera prima. Aveva fatto una scelta e la stava portando fino in fondo.
Non lo aveva fermato mentre faceva la valigia, non aveva pianto. L’aveva lasciato andare via, come doveva essere. Era proprio finita. Aveva semplicemente chiuso la porta a chiave una volta che lui era uscito, come se non avesse mai abitato lì.
Rimase seduta sul bordo del divano per alcuni minuti, giusto quel tempo per realizzare che era successo sul serio. Sì alzò lentamente voltandosi verso la porta della camera da letto che era buia e silenziosa. Scosse la testa quasi irritata come per mandare via dei brutti pensieri e si avviò verso il bagno.

Gloria si buttò con rabbia sotto la doccia e cominciò a strofinarsi il corpo con forza come se volesse lavarsi via gli ultimi pensieri che le affollavano la testa. Ad un certo punto gettò la spugna per terra e scoppiò a piangere.
Le lacrime, confondendosi con le gocce d’acqua, potevano lentamente rotolare giù per la pelle nuda fino a morire silenziose senza essere viste.
Mentre il getto d’acqua calda la continuava a massaggiare in tutto il corpo, la sua mente vagava fino a perdersi nell’atto di aggrapparsi momenti del passato scappati via, fissando insistentemente quella crepa sulla piastrella di fronte a sé, come se da essa attendesse un suggerimento su come sentirsi.
«Non lo amavo più nemmeno io», si disse «sarebbe finita lo stesso, prima o poi. Era solo questione di tempo».
Si accasciò sul fondo della doccia abbracciandosi le ginocchia in quel suo modo infantile che usava fare nei momenti di tristezza e lasciò che l’acqua le scorresse sulla schiena gustandone l’intensità. Dopo qualche minuto si rasserenò.
Un brivido, una fantasia. Si toccò il seno e le cosce, ammorbidite dall’acqua.
Nonostante l’età era ancora una splendida donna, lei lo sapeva. Gli amici e i figli l’amavano, l’avrebbero sostenuta nella sua scelta. Non sarebbe stata così sola.
Reclinò la testa all’indietro e assaporò un po’ di quel sesso che le era mancato negli ultimi mesi, mentre i minuti si allungavano su tutti quei pensieri che non hanno un posto stabile nella mente, che vagano senza controllo e che possono andare e venire indisturbati. L’acqua alla fine riuscì a portarle via la malinconia. Nello specchio rivide l’immagine di lei da ragazza con tutta la vita davanti che si sovrapponeva con la donna di oggi. «Forza Gloria, vai avanti per la tua strada», si disse sorridendo. «Non avere rimpianti».
Tornata alla realtà, avvolta da un ampio accappatoio giallo si sedette davanti alla grande finestra del salotto con una tazza di caffé in mano. Era mattino presto. Osservava la strada, il mercato settimanale che via via andava riempiendosi di persone indaffarate. Guardava con curiosità il via vai di gente di tutti i colori e di tutte le età. Le arrivava all’orecchio il brusio delle voci, le risate dell’ortolano all’angolo che prendeva in giro la vecchia signora, sentiva l’odore di rosmarino dei polli arrosto entrare dalla finestra aperta.
«Al diavolo, il mondo è là fuori!», esclamò. Si alzò di scatto, senza aver finito il suo caffé, s’infilò il vestitino rosso lasciato sul tappeto la sera prima, un paio d’infradito e scese tra la folla.