sabato 28 marzo 2009

Pensierini parte seconda

#5
Cupa nella sua assenza, la luce si sottrae alla vista,
taciuta consapevolezza, di un lungo inverno che non si arrende.



#6
Mi allontani
perché amo,
non so fare altro.
Vivo di quello.
Mi allontani.
Ti amo lo stesso
un amore discreto,
da lontano.
Lo meriti, l’amore.
Non il mio magari,
quello del mondo
che conosci.
Non me, lo so
non sai chi sono.



#7
Fragile vento,
segno,
desiderio tradito
e parole,
rubate.

timida rugiada,
strofa,
d’amore vestita,
un mondo,
diviso.



#8
Sorge dall’amore il male.
Si erge nel mezzo del cuore,
a mo’ di pugnale.

Confusa la mente invoca
nel chiasso delle emozioni,
la quiete.

martedì 24 marzo 2009

la ragazza che alza le spalle

Poi qualcosa si è inceppato, mi ha fatto inciampare e sono cascata. Ho stravolto il significato, fatto confusione. Il sesso è diventato merce di scambio, usato per sentirmi amata. Ho giocato d’azzardo con l’amore, l’ho scommesso e l’ho perso.
Alla ricerca di me stessa tra gli incontri di una notte. Musicisti sconosciuti e artisti scriteriati. Il sesso tra i muri di case occupate, ai concerti punk, per la strada. Costeggiando in punta dei piedi l’euforia della droga. Un piede dentro e l’altro fuori. Mi chiudo a riccio lasciando fuori il mondo, quel mondo che tanto vorrei girare in lungo e in largo.
Comincio a correre, sempre più veloce. Per non pensare trattengo il respiro.

Canta in inglese con un accento tedesco. Seduta in prima fila lo fisso per tutto il concerto. Il posto è piccolo e non può che notarmi. Sorrido, lui ricambia. Infatti.
Un paio di ore dopo siamo a casa mia. Due settimane dopo sono a Vienna da lui in visita. Un paio di mesi di frequentazione dopo rimango incinta.
Sono costretta a fermare la corsa. L’immobilità mi obbliga al pensiero ed è ciò che non voglio. Cosa ci faccio io, con un test di gravidanza positivo in mano?
Seduta sul bordo della vasca da bagno non so rispondermi.
Lo chiamo e gli parlo. E mentre parlo mi chiedo chi sia quello sconosciuto dall’altra parte del telefono. Allora lascio parlare lui, ma non lo riconosco. Gli dico addio, è finita. Lui, allarmato, è già sul primo treno per Milano. Io, più allarmata di lui, lo rispedisco al mittente. Per sempre. A diciannove anni non potevo fare altro. Non volevo fare altro.
Abortisco, in modo leggero, un po’ come un’alzata di spalle. Allora ero così. Alzavo le spalle. Vivevo un susseguirsi di eventi per colmare un vuoto. Senza prendere fiato. Non mi fermava nulla, nemmeno la vita.

Riprendo esattamente da dove mi sono fermata, quasi non fosse successo nulla. Il mio monolocale è un porto di mare, ma mi sento sola. Un vuoto che non riesco a colmare.
Qualche mese dopo. Ho mollato tutto. Sono partita per Londra. “All’avventura” mi dico. Conosco in treno due ragazze di Crema, si parla del più e del meno. Poi mi spiegano che sono in partenza. Hanno trovato lavoro come cameriere in una “residenza” per studenti. Pulire le stanze, rifare i letti, cose così. “Partiamo fra due settimane. Vuoi venire?.”
Detto fatto.
Il mio arrivo a Victoria Station, qualcosa d’indimenticabile. Chiodo e capelli blu, dipinti durante la traversata della manica. Due paia di calzettoni per gli anfibi troppo grandi. I piedi mi sudavano, mentre facevo i primi passi sul suolo londinese. “Un sogno” penso.
Ma non per molto. Pulire i gabinetti degli altri non fa per me. Nel giro di un mese ero fuori.

Sette mesi ho passato a Londra, sette mesi a rincorrermi. Ho dormito ovunque trovassi un giaciglio. La casa di due benestanti romani. Il marciapiede a Piccadilly Circus. Una casa occupata in periferia. Tra pulci o lenzuola faceva lo stesso. Tutto senza mai prendere fiato. Perché una ragazza che alza le spalle non ha tempo di respirare, vive in apnea.
Ma a trattenere il respiro per sette mesi si rischia. Così ho alzato le spalle per l’ultima volta. “Papà, ho bisogno di soldi per il treno. Torno a casa.”. E lui era lì, pronto, ad incollare i miei cocci. Come sempre. Senza giudicare. Con la generosità di chi si sente responsabile.

È stato soltanto quando la solitudine è diventata così insopportabile che mi sentivo trasparente anche tra la folla e il silenzio così persistente che udivo solo il mio affanno, che mi sono arresa all’inevitabile. Seduta su una panchina a Saint James Park, ho scritto le parole del mio ritorno. Londra: una tregua da me stessa per potermi riprendere in mano.
La pioggia sottile dei pomeriggi inglesi firma il mio foglio di via. Dopo mesi di fuga è ora di tornare per fare i conti con i miei fantasmi. Incapace di sbarazzarmene.
Ero partita da Milano pensando di poterli lasciare indietro. Li ho invece sorpresi nascosti lì, dentro la mia valigia. Io esisto bianca, come esisto nera. L’interezza è la mia anima, non si può scomporre, anche la mia parte più buia fa parte di me.
Quindi basta con i capelli blu. Torno sola con il mio bagaglio.


S. JAMES PARK

Un paio di occhiali,
memorie.
Ma dietro quelli niente,
un pensiero trasparente,
mai esistito.
E vago,
contemplo parole
che non comprendo.
Un battito d’ali mi risveglia,
il passero prende il volo.
Lo osservo volteggiare.
E sparire,
dietro una nuvola.
Non mi sono mossa.
Nel silenzio della mia mente,
ascolto tutto,
tutto è intorno a me.
Colori che si credono musica.
Una leggera brezza
muove le foglie.
Quelle stanche
si fanno trasportare
dalla corrente del fiume.
Una forza infinita
sospinge la mia anima
verso nuove frontiere,
ma non mi muovo.
Continuo a vagare
nel silenzio delle illusioni.
Passeggiata piacevole
per chi vuol dimenticare
un futuro incerto,
un biglietto di sola andata.

sabato 21 marzo 2009

pensierini

#1
Quintali di brodo,
sulla mia strada.
Selvaggia mente,
vergognosamente,
immorale vaga.
Possente pensiero,
potente.


#2
l’uomo e la mente,
occhio che sente,
parola celata,
mai pronunciata.

E se ne va …

Poesia
E così sia …


#3
Greve.
Taccio
parole.
Torpore d’autore.
Urlo
Dentro.



#4
Amore al plurale
in letti singoli,
frammenti
di un’unica immagine.

Pietà rifiutata
in un gemito opaco,
limitato
al desiderio di essere.

Natura sincera,
al di là degli occhi,
taciuta
per pudore d’amare.

domenica 8 marzo 2009

Il "Vecchietto"

Milano, 1972

Nonno paterno pittore. Rara, ma intensa frequentazione. Un passato reticente e avaro di particolari, non parlava volentieri di sé. Lo andavamo a trovare solo ogni tanto e io, ogni volta, avevo la sensazione d’intrudere nel suo universo incantato. Il suo studio in via Mercato l’ho sempre vissuto come un mondo a sé stante. Scollegato, in un certo senso, dalla realtà familiare. Un’oasi.
Conservo immagini piene di colore e di musica. Le rivedo come se fossero fotografie, nature morte. La tavolozza, i pennelli e le decine di tele. Un ricordo esteticamente completo, un equilibrio perfetto tra cromatismo e affettività. Non l’ho mai visto dipingere, se non nella mia immaginazione. Eravamo anche noi una parentesi nella sua vita. Nella sua creatività.
Il grande open space mi accoglieva con un profumo intenso di acquaragia e di chiuso, un odore quasi rassicurante. Nella penombra della cucina, dove regnava un disordine permanente, l’enorme forno per cuocere la ceramica mi metteva soggezione e ogni volta ci passavo di fianco veloce, senza guardarlo. Ero costretta a passare di lì per entrare nel salone e raggiungere il pianoforte all’angolo opposto, il mio angolo preferito. Seduta sullo sgabello ad osservarlo di soppiatto, mi riempivo i polmoni di quella passione che si respirava in ogni punto nella stanza.
L’uomo delle arti, mi piaceva pensarlo così, pittura e musica. Con le sue grandi mani nodose e deformate suonava per noi pianoforte e violino. Senza talento. Suonava stonato allegria e gioia di vivere, e rideva, rideva molto. Nella sua maniera un po’ bohèmiana di affrontare la vita, trasandato e ricurvo, esercitava su di me un fascino enorme. Profumava di libertà. Aveva lasciato la famiglia per la sua arte, dopo aver esaurito i principali doveri di padre e marito si era dedicato solo ai suoi quadri. Il “Vecchietto” lo chiamava mio padre. Il “Vecchietto” era diventato il suo soprannome. Il desiderio affettuoso di un figlio nel tentativo di accudire l’anima libera del padre che non sopporta legami. Per noi non aveva altro nome.
Ricordo il suo splendido modo di comunicare, cortese e un po’ imbarazzato, fascinoso nel suo essere artista e nonno. Io lo vedevo così, nonostante mio padre parlasse spesso del suo pessimo carattere. Con lui ho scoperto la pittura. Immagini che tuttora mi riempiono di gioia, di una gioia così immensa che a guardarle mi commuovo fino alle lacrime. Immagini che mi emozionano al punto di sentirmi scivolare dentro la pennellata. Mi sento il quadro stesso. La capacità di dare origine a figure così vigorose e l’appassionata ricerca delle forme e del loro significato profondo sono i gesti che nutrono la mia anima. Il nonno pittore, un segno indelebile, la mia iniziazione al mondo delle arti. Una vita lunga e disordinata. Morto poi, per la troppa voglia di vivere, giocando al di sopra delle sue possibilità. Ha parato tutti i colpi, prima di cedere all’ultimo. Dopo tre infarti e un ictus, la scoperta di non riuscire a tenere più in mano la matita gli ha fatto scivolare via la vita. Silenziosamente venuto meno nel letto di ospedale, con una Santa Teresa appena abbozzata sul comodino.

venerdì 6 marzo 2009

L’altro lato della medaglia.

Gignese 1970

È lì, sdraiata sul pavimento di una grande sala spoglia. Di schiena. Indossa un abito da sera rosso, un fuoco nel mezzo di un grande cerchio di luce. Le spalle sussultano. Sembra quasi che pianga e io faccio per chiamarla. Vorrei consolarla. Lei si volta con un sogghigno satanico sulle labbra. Verde in viso. Mi sveglio di colpo, tutta sudata urlando: “non sei mia mamma!”.
E continua a venire in sogno, la donna dal viso verde. L’altro lato della medaglia. L’immagine della mamma cattiva e traditrice che è solo il retro di un fronte buono e accudente.
Immagine di una lucidità liquida, come se trasudasse il suo alcolismo. Coesistono il buono e il cattivo in un unico essere. La sua faccia deformata dall’alcol, gonfia, tumefatta. E la sua faccia del bacio della buona notte, sorridente e rassicurante. Le due facce di un’unica mamma. Convivono le due facce, ma non si mostrano mai insieme. Bianco o nero.