lunedì 6 dicembre 2010

senza senso (quindicesima puntata)


BERTRAND

Rientri a casa in silenzio pensando che tua moglie è una stronza. Non avresti fatto quello che hai fatto se lei non ti avesse fatto tutte quelle domande. Di questo sei certo. Tu non sei responsabile di quanto è successo, e nemmeno il cognac che ti riempie come una botte. Lei doveva tenere la bocca chiusa.

La vedi in salotto seduta sul divano mentre passi per il corridoio. Non sosti davanti alla porta, ma sbirci dentro con la coda dell’occhio. Noti che lei non si volta al tuo passaggio, rimane ferma con le gambe accavallate e gli occhi sulle pagine del libro che ha in mano.

Ti irrita semplicemente vederla immobile in quella posizione, sei sicuro che ti abbia sentito entrare. La vivi come una punizione e tiri diritto fino alla camera da letto.

Mentre ti spogli, avverti il peso di quelle domande. “Come mai sei già tornato? Non finiva domani il seminario? Perché non mi hai avvertito?”. Un peso che ti costringe a metterti davanti alle tue mancanze di marito. Al tuo menefreghismo. Al fatto che hai sempre amato altre donne.

Puoi ancora sentire l’eco delle tue parole mentre le rispondevi, affilate come una lametta, trattenute a stento sulla lingua prima che la rabbia esplodesse e le sputassi fuori con una furia inaspettata. Volevi fare male con quelle parole, la tua intenzione era di ferirla per farle pagare l’intero conto della tua frustrazione per la perdita di Nathalie.

«Lei, questa volta, non torna», è l’unico pensiero che pulsa ora nella tua mente.

Non sei riuscito ad annegare la tua disperazione nell’alcool, allora provi ad annegare il tuo matrimonio. Ti senti inadeguato e non riesci a sopportare che lei te lo faccia notare. Proprio lei che annaspa alla ricerca della perfezione. Che le prova tutte per compiacerti.

Ti addormenti talmente in fretta che confondi la realtà con il sogno, immagini di galleggiare nudo in una bottiglia di Hennessy e il rollio ti fa venire il mal di mare. La nausea ti stringe lo stomaco e sei costretto ad alzarti a trascinare il tuo corpo addormentato fino al bagno, frenando l’acidità che risale per l’esofago.

Non riesci a trattenere i conati e sei costretto a far correre le tue gambe aggrappandoti al muro per non cadere. Tutto gira a una velocità vertiginosa, anche la tazza del cesso dove stai rimettendo l’anima.

Il tuo respiro pesante ti riporta al presente. La testa ti scoppia. Coperto di sudore torni a letto sentendoti la persona peggiore che conosci.

senza senso (quattordicesima puntata)


CHRISTINE


Passeggi nella via adiacente a dove hai affittato la stanza, la stessa che vedevi dalla finestra. Passi sotto l’insegna al neon rossa e blu; sbirci all’interno della vetrina e ti soffermi a osservare una famiglia in fila che attende il proprio kebab. Poi prosegui senza una meta precisa, solo perché desideri fare parte anche tu di quell’immagine di cui prima eri spettatrice dall’alto.

La gente riempie i tavoli fuori dai locali. L’afa estiva ti toglie le forze, ma continui a camminare senza pensare a dove vuoi andare. Ti ricordi di non aver mangiato nulla da quando sei arrivata e ti ritrovi a curiosare il menù esposto fuori da un ristorante giapponese.

La fame e la curiosità ti spingono a entrare e timidamente ti accomodi a un tavolino nell’angolo, quello più lontano dalla porta. Sedere con la schiena contro le pareti ti fa sentire più sicura, non sei abituata ad andare in giro da sola. Osservi il gruppo di ventenni seduti a un tavolo proprio nel centro del ristorante, li vedi parlare senza capire cosa si dicono. Ridono, sembra stiano celebrando un compleanno. La ragazza bionda che ti da le spalle sta aprendo dei pacchetti colorati.


Tu non hai mai festeggiato il tuo compleanno al ristorante, nemmeno con gli amici ai tempi dell’università. Ti è sempre sembrato un momento da passare in famiglia, in quel modo abitudinario che solitamente avviene soltanto in famiglia, ripetendo di anno in anno le stesse cose, le stesse azioni, gli stessi commenti. Dove ti avvolge la sicurezza degli stessi profumi e degli stessi colori.

Quando eri bambina, tua mamma organizzava, la domenica, una grande merenda per te e tua sorella. Festeggiavate gli anni sempre insieme perché il caso ha voluto che nasceste lo stesso giorno di maggio, due anni esatti una dall’altra. Se il tempo lo permetteva, facevate una passeggiata prima di mangiare la torta; oppure tua mamma preparava panini e limonata e andavate a fare un pic nic nei grandi prati fioriti dietro casa dei nonni.

Ti ricordi chiaramente la nonna e il nonno, la mamma insieme a tua sorella. E le zie con i cugini. Non riesci, però, a far affiorare dalla tua memoria nemmeno un’immagine di tuo padre a un vostro compleanno. Lui arrivava la sera con due mazzi di fiori di campo, uno per te e uno per tua sorella.

Era in Chiesa di solito, la domenica pomeriggio. Fin da quando era ragazzo, cantava nel coro della chiesa e non aveva mai perso una prova se non forse una volta, che una polmonite lo aveva costretto a letto per giorni interi.

Solo adesso, che lui non c’è più, ne senti la mancanza. Prima, che tuo padre non ci fosse ti sembrava una cosa normale, anche per la festa del tuo compleanno. Nessuno aveva mai fatto osservazioni sulla sua assenza. Così era sempre stato.

giovedì 2 dicembre 2010

Sisterhood


sisterhood (virtual collage 2010)


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"skin - ornamental erotica"

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martedì 29 giugno 2010

senza senso (tredicesima puntata)


NATHALIE

Speri che non si sia sentita al telefono, la delusione. Hai sempre fatto fatica a fingere. Solo al pensiero di un confronto con tua sorella la nausea aumenta. Guardi l’ora: le cinque. Decidi di alzarti, e nel silenzio di un’alba dolorosa ti trascini fino alla cucina.
Prepari il caffè con la speranza che scuota la tua anima indolenzita, ma anche i gesti che ti sono familiari ti creano fatica. Con la tazza in mano ti siedi a guardare fuori dalla finestra la debole luce del sole che sorge filtrare nello spazio tra un edificio e un altro. E resti ferma, come se la tua immobilità potesse cancellare gli eventi. In sottofondo solo i rumori dei commercianti che aprono i loro esercizi nelle vie sottostanti.

Abbandoni il caffè, ormai freddo, sul tavolo senza quasi averlo toccato e ti ritiri in bagno lasciando che la vita fuori dalla finestra scorra da sola, senza di te.
Fai scivolare la maglietta per terra, senza guardarti allo specchio. Un senso di vergogna ti pervade. Vorresti lavare via anche quello insieme alla sporcizia. Insaponarti lo spirito, purificarti dai pensieri che ti macchiano l’anima. Mentre il getto d’acqua ti massaggia tutto il corpo, prendi il guanto di crine e cominci a sfregare le braccia, ti accanisci con furia sui gomiti e sugli avambracci. Senti la pelle bruciare, ma continui a grattare. Insisti poi sul ventre, sulle cosce, sulle ginocchia fino a far diventare la pelle di fuoco. Quasi sanguina.
La doccia è sempre stata il tuo unico rifugio. Il tuo confessionale, il luogo dove espiare i tuoi peccati. È lì, in solitudine, che elabori grandiosi discorsi che poi inevitabilmente non pronunci mai. Metti punti, aggiungi virgole. Cancelli e poi riscrivi. Inauguri ogni volta una mostra infinita di pensieri, che si affollano in quell’unico momento mentale del senso di colpa.
Ti fai infinite domande, fissando insistentemente quella crepa sulla piastrella di fronte a te in attesa di un suggerimento. Sempre la stessa crepa, sempre le stesse domande. Non le trovi, le risposte a quelle domande.
Ed è proprio nel tuo corpo nudo che vedi una donna stanca e provata. Una donna che somiglia a colei che ripudi come modello, ma di cui ricalchi le orme. Una donna miserabile nella sua solitudine di moglie e di donna, proprio come l’immagine di madre che hai voluto congedare troppo in fretta per non esserne travolta.
Lentamente le lacrime sgorgano dai tuoi occhi, si confondono con l’acqua e rotolano giù per la pelle bagnata, morendo silenziose ai tuoi piedi. Stai piangendo. Le contrasti le lacrime, combatti quella sensazione di debolezza. Tenti di fermarle serrando le palpebre con forza; ma è tutto inutile perché ti senti piangere dentro. Stai singhiozzando, ora. E non sai nemmeno bene perché stai piangendo.
Riapri gli occhi. I pensieri svaniscono proprio come i sogni al risveglio, investita dall’immediatezza della realtà circostante. Ti lasci raggiungere dalla melodia una musica vagamente mediorientale che arriva dalla piccola finestra del bagno che dà sul retro del palazzo e intanto la tensione si allenta, ma ancora non riesci a smettere di piangere.
Allora ti siedi sul fondo della doccia. Abbracci le tue ginocchia e ci abbandoni sopra la testa. Lasci che l’acqua ti avvolga completamente, come un velo. Perdendo la cognizione del tempo. I minuti si allungano su tutte quelle fantasie che non hanno un posto stabile nella tua mente. Vorresti essere in grado afferrarle e metterle da parte. Non ci riesci però, volano via.

lunedì 28 giugno 2010

senza senso (dodicesima puntata)


EMILIE

Uno strattone, una spinta e la tua schiena sbatte violentemente contro il muro. Nell’attimo dell’impatto riecheggia il tonfo sordo del respiro che viene a mancare. Bertrand ti afferra le braccia per non farti scappare, stringe così forte che senti i bicipiti spappolarsi tra le sue dita.
Messa all’angolo come un pugile stanco, senza possibilità di fuga, ti copre d’insulti. Le solite ingiurie, sconvenienti, oscene, senza eguali. Non puoi fare altro che incassare ogni suo colpo nella speranza che il gong di fine ripresa venga in tuo soccorso.
Ma il tempo sembra tendersi come un elastico, non riesci neanche a ricordare il motivo che ha scatenato l’inferno. Netta e precisa, invece, la memoria del suo scatto di rabbia, costante e immutabile nel tempo arriva sempre inaspettato. Una trasformazione improvvisa senza motivo apparente. Il viso che cambia espressione, che si contrae in una smorfia quasi irreale e che esclude, a priori, ogni altra possibile soluzione al conflitto, se non lo scontro.

«Mi fai male», sussurri piangendo. Lui per un attimo molla la presa, pensi che sia finita e fai per allontanarti. Invece, Bertrand decide di riconfermare la sua supremazia agguantando il polso e torcendoti il braccio. «Mi fai schifo», alita a denti stretti nel tuo orecchio.
Il tuo corpo, forzato a seguire la torsione, gira su se stesso e ti ritrovi di schiena con la guancia che affonda contro l’intonaco del muro. Odi l’accavallarsi dei nervi e lo sfrigolio dell’ulna e del radio che tentano di resistere alla rottura. Riesci a divincolarti con un gesto disperato. Non fuggi, però, resti lì ferma, a massaggiarti le braccia dolenti senza voltarti.
Le lacrime sgorgano da sole, senza che tu lo abbia deciso. Dalla tua bocca non esce una sola parola. Non hai nulla da dire perché, in questi casi, parlare non serve. Non è mai servito.
Ti giri lentamente e sei investita dal disprezzo del suo sguardo, freddo come la carrozzeria di un’auto in corsa. Intuisci quali sono le parole che si sforza di trattenere in gola solo guardando il suo viso paonazzo e le vene del collo gonfie al limite dello scoppio.
Alla vista delle tue lacrime lui risponde con uno sputo in faccia, prima di sferrare un colpo a pugno chiuso proprio all’altezza del tuo ombelico. Non ha mai sopportato vederti piangere.
Ti sfugge dalle labbra serrate un sospiro sofferto, un unico monosillabo che riassume tutta la tua umiliazione: «Uh!».
Trattieni il fiato cercando di non accasciarti al suolo, come invece vorresti tanto fare. Preghi che sia il tuo corpo a lasciarsi andare perché la paura non te lo permette.
Resti immobile, come pietrificata mentre lo vedi percorrere il lungo corridoio e uscire di casa sbattendo la porta.

In un attimo torna la calma. In lontananza solo il vociare dei bambini che giocano ignari in camera da letto. Ignari?
Ti appoggi al muro con la schiena e scivoli giù fino al pavimento, resti così, seduta per terra per qualche minuto a riprendere fiato. Con il dorso della mano ripulisci le guance dal suo sputo tenendo lo sguardo fisso alla porta d’ingresso. Chiusa. «Entrato e uscito nel giro di un’ora», pensi.
Ti senti abbandonata, lasciata lì, gettata via come un rifiuto, avvolta da un senso di solitudine che ti copre tutta come un velo.
Lui non rientra fino a sera tardi completamente ubriaco. Si mette a letto senza rivolgerti una parola o uno sguardo, come se non esistessi. Tu attendi il tempo necessario che si addormenti prima di deciderti di andare a dormire.

sabato 19 giugno 2010

senza senso (undicesima puntata)


NATHALIE

L’ansia ti cinge il capo come un’aureola. La testa ti duole così come il ventre, pensi di non potercela fare ad addormentarti stanotte. Gli eventi degli ultimi mesi stanno rivoltando molte delle tue certezze come fossero zolle di un campo da arare, quelle certezze che fino ad ora hai usato come stampelle a supporto del tuo spirito malandato. L’arrivo di tua sorella in città rischia di incrinare il sostegno che così intelligentemente hai adoperato per puntellare il muro divisorio tra il tuo mondo interiore e gli altri, in modo che non cedesse. Già indebolito dalla svolta improvvisa della storia con Bertrand temi che non possa reggere il colpo. Hai paura di ritrovarti scoperta, senza difese.

Te ne eri andata da casa con l’idea di non tornare più, di non rivedere più la tua famiglia. Tuo padre invece, con la sua morte, è riuscito a farti tornare e a ferirti un’ultima volta.
Hai pensato di poter fare la tua apparizione al funerale e poi andartene come eri venuta, ma non hai tenuto conto della reazione a catena che avresti causato. Non hai pensato al desiderio di sapere che avresti scatenato in tua madre e tua sorella, la voglia di conoscere il motivo di quella fuga che ti ha portato lontano. Non una lettera, non una telefonata in venti anni.
Se non fosse stato per l’incontro casuale con Marcel, tuo vecchio compagno di scuola, non avresti nemmeno saputo di tuo padre.

E di colpo quei venti anni ti pesano addosso come non era mai successo prima. Entrano prepotenti nella tua vita come se non li avessi mai vissuti prima. Come se tu avessi passato venti anni in apnea.
Ti ritrovi a boccheggiare senza fiato e questo bisogno improvviso di ossigeno ti fa girare la testa. La sensazione dell’aria che ti riempie i polmoni ti confonde, entra con forza dalla bocca e ti gonfia il petto quasi fino a farti scoppiare. E nel delirio notturno immagini milioni di bollicine di ossigeno che fluiscono nel sangue dai capillari, le senti lasciare gli alveoli e riempire le arterie provocandoti un formicolio in tutto il corpo. Nelle vene una cascata di acqua minerale.

Hai sete, ma non ti vuoi alzare. Ti rigiri nel letto senza essere in grado di prendere sonno. Il caldo rende le lenzuola molli e scivolose. Continui a cambiare posizione per cercare un punto nella superficie intorno a te che sia ancora fresco, ma il sudore ha reso umido perfino il materasso.
Cerchi di scacciare dalla mente l’immagine di tua sorella che ti saluta alla fermata dell’autobus, la mattina che hai deciso di andartene. La sua espressione grave a sottolineare la solennità di quel momento come se dentro di lei già sapesse che sarebbe stato un saluto definitivo.
«Chiama quando arrivi», ti ha detto lei mentre agitava la mano dal finestrino dell’auto per salutarti, convinta che il tuo viaggio si fermasse a Parigi. Senza immaginare che nella tasca esterna della grossa borsa rossa che tieni a tracolla hai un biglietto aereo di sola andata per New York.
E tu, con un debole cenno della testa, le mentisci, le rispondi di sì. Lasci che sia il tuo corpo a mentire per te, perché ti manca il coraggio di dichiarare il falso ad alta voce. Annuisci semplicemente, già sapendo che non avresti mai più chiamato.

Ora a distanza di tempo lotti con una sensazione di asfissia e non sei sicura che sia per il rimorso di essere scappata o per il caldo torrido che non da pace da giorni.

mercoledì 19 maggio 2010

senza senso (decima puntata)


SARAH

Lo hai tenuto nascosto a tua madre per molto tempo, prima di decidere di consegnarle in mano la tua confessione. Forse è il caso di dire la tua “dichiarazione”, che la parola confessione non ti è mai piaciuta. Un riconoscimento di uno stato d’essere, ecco come la vedi, in modo che tu possa accettarti in pieno per come sei. «Non ho proprio nulla da confessare», ti sei ripetuta spesso. La confessione rivela l'ammissione di una colpa, che colpa non è. E tu lo hai ben chiaro.
Non è facile nemmeno per te, ammettere la tua diversità, se di diversità si può parlare. Perché tu non ti senti affatto “diversa”, tu sei tu. Sei perfettamente uguale a te stessa, come eri quando ti sei sforzata di essere come dovevi essere, o meglio come gli altri pensavano che tu dovessi essere. Come persino tu pensavi che dovessi essere, facendo l’amore con quel ragazzo della quinta B alla sua festa di compleanno.

Hai cercato di trovare sensuale il modo in cui lui ti toccava. Hai provato a farti piacere la sensazione della sua lingua che preme contro la tua, trattenendo a stento un conato di vomito. Perché è così che ti avevano insegnato che avresti dovuto vivere la tua vita.
Nascondendo meglio che potevi l’avversione che provavi a contatto con la sua pelle sudata, hai lasciato che lui ti penetrasse, da prima lentamente, poi sempre più veloce, sperando di trovare in quel movimento ritmico una ragione abbastanza valida per restare insieme a lui.
E con lui poi ci sei stata per un anno intero cercando di convincere te stessa che quella repulsione era tutto uno sbaglio, che non era vero quello che si sussurrava tra i banchi, tu non eri così. Per negare anche a te stessa che quel corpo muscoloso non suscitava altro in te che il desiderio di scappare via.

Nell’ombra vivi i tuoi batticuore, che non riesci a vivere con lui. Quelli che ti manca il respiro solo al pensiero di un istante rubato, di una parola che indugia sulle labbra. Quelli dai lunghi capelli biondi disordinatamente arrotolati a crocchia sulla nuca a lasciare scoperto un angolo di collo, dagli occhi grandi che ti sussurrano: «Sarah, guardami».
E la notte di risvegli sola, nel sudore delle tue lenzuola, in preda all’ansia di non riuscire a essere quello che sei. Nel buio ricacci l’immagine di lei che ti sorride, la allontani chiudendo gli occhi e stringendo le palpebre con tutta la tua forza per sbarrare la via d’accesso, ma le immagini la strada del ritorno la trovano sempre.

«Mamma ti devo parlare», provi a prendere la via più lunga per avere tempo a sufficienza per disporre i pensieri in ordine logico. Hai elaborato migliaia di frasi, le hai mandate a memoria e recitate da sola davanti allo specchio. Ma la tua condizione è come una palla di piombo che con il suo peso accelera la caduta, e il tempo di pensare non lo trovi perché le parole sono già lì, dietro la lingua, che premono per uscire. Provi a ricacciarle giù deglutendo, ma invano, sono come appiccicate in gola. Cerchi nel fondo della memoria, rovisti tra le mille frasi fatte che ti sono sempre sembrate appropriate all’occasione, ma non ti ricordi più nulla. Riesci solo a pensarne una di frase, cinque parole messe in fila come soldatini, che non lasciano dubbi di sorta. Te ne devi liberare in fretta, come di un pasto rimasto sullo stomaco. Le devi sputare fuori con forza, quelle parole, per compensare l’impulso che arriva dal ventre. Nemmeno il timore di una sua reazione negativa riesce più a fermarle, perché quando la paura raggiunge l’apice implode silenziosamente, senza provocare alcun dolore.
Infine con gli occhi gonfi di lacrime che non vogliono scendere, ti arrendi allo sguardo interrogativo di tua madre che, seduta sul divano di fronte a te, attende paziente: «Mi sono innamorata di Helena».

martedì 18 maggio 2010

senza senso (nona puntata)


CHRISTINE

Hai rimosso il passato, lo hai sepolto ben bene per paura che potesse riaffiorare, lo hai cacciato in fondo ai tuoi pensieri perché se lo avessi lasciato libero di galleggiare avresti sentito come un solletico ai sentimenti. E questo non te lo potevi permettere allora, come non te lo puoi permettere adesso.
Nella memoria rincorri gli anni nel tentativo di capire, di trovare il tassello mancante, ripercorrendo in un moto perpetuo gli eventi.

Il rumore dei tacchi sul pavimento di legno della camera d’albergo t’infastidisce, il caldo è insopportabile, ma non riesci a rimanere ferma. Sei costretta ad aspettare dieci giorni in una città che non conosci e speri che muovendoti il tempo acceleri. Ti affacci alla finestra a esaminare una vista che non ti appartiene, la luce al neon rossa e blu del negozio Arabo all’angolo invade il tuo campo visivo. Socchiudi gli occhi quel tanto che basta alle tue pupille per adattarsi al cambiamento di luce, poi sposti lo sguardo un po’ più in fondo alla via, verso le tende rosse e gialle dei tanti caffè allineati uno dietro l’altro.
Decidi di scendere in strada, è troppo presto per andare a dormire. Butti la valigia ancora chiusa sul letto, la apri con un gesto lento e cominci a rovistare tra i vestiti. Scegli un vestito rosso, sbracciato di un tessuto morbido, lungo fino alle caviglie e un paio di sandali di cuoio chiaro, lasciando il resto ammucchiato disordinatamente sul letto.

La pelle bianca del tuo corpo, libero dalla costrizione dei vestiti sudati, sembra assumere una nuance quasi perlescente sotto la debole luce della stanza. Una pelle vergine al tatto, mai sfiorata. Così sottile che lascia trasparire le minute ramificazioni delle vene sottostanti, una pelle di cui ti sei sempre vergognata, che hai sempre cercato di coprire.
Entri nel piccolo bagno illuminato a intermittenza dal neon rosso e blu. Allunghi la mano verso l’interruttore accanto alla porta, ma decidi di non accendere la luce, resti nella penombra per non rischiare di vederti nuda allo specchio.
Ti concedi soltanto una doccia veloce e un filo di trucco leggero, come ti aveva insegnato tua mamma. Matita nera sulla palpebra superiore e mascara solo sulle punte delle ciglia, per far risaltare i piccoli occhi neri dal taglio quasi orientale.

Ora sei pronta, ti avvii verso l’uscita e mentre stai aprendo la porta ti cade l’occhio sulla Bibbia che avevi distrattamente lasciato sul comodino. Ti senti in colpa. Esiti un attimo di troppo, afferri l’ingombrante volume di scatto e lo infili furtiva nella borsa.
«Dall’inizio alla fine», ripeti ancora una volta ad alta voce, quasi a voler rassicurare te stessa che stai facendo la cosa giusta. «È lì la risposta che cerco», ti giustifichi.

martedì 6 aprile 2010

senza senso (ottava puntata)


BERTRAND

Cammini apparentemente senza meta. Strascichi i piedi lungo il marciapiede, non sei riuscito ad allacciarti le scarpe perché il mal di testa non ti ha permesso di chinarti. Rumorosamente avanzi senza curarti della gente che ti viene incontro. Ti fai largo a spallate, senza nemmeno rendertene conto, affoghi nella melma che tu stesso ti sei tirato addosso. Palate di fango a ricoprire completamente la tua dignità, e ora non hai il coraggio di presentarti a casa.
Il pensiero di Nathalie che se ne va e non torna più ti tormenta. Non ti fa ragionare, solo l’idea di non poterla più toccare ti offusca la mente.

Ripensi al vostro primo incontro, alla prima volta che l’hai posseduta nella toilette del bar del teatro dove stavi lavorando. Lei ti desiderava, te lo aveva lasciato intendere tornando a vedere il tuo spettacolo più volte. Aspettandoti al bar per complimentarsi con te. Sorridendoti, come solo lei sa fare.
Tu non avevi intenzione di aspettare, di invitarla fuori a cena come hai fatto con le altre donne. Di attendere il giorno che lei fosse pronta. La volevi subito e sei andato a prendertela alla fine dell’ultimo spettacolo in programma.
«Vai in bagno che arrivo», le sussurri all’orecchio sfiorandole i capezzoli. Quei capezzoli scuri che s’intravvedono prepotenti attraverso la maglia e che ti avevano eccitato perfino dal palco.
Lei esita e la cosa ti eccita ancora di più. Tu non hai dubbi, lei cederà, glielo leggi sul viso. La guardi dritta negli occhi tracciando una spirale con il dito indice dall’esterno del seno fino al capezzolo. Esita ancora spostandoti la mano, poi sorride.

All’improvviso, senza dire nulla, si avvia. Tu finisci il tuo drink in un sorso e la raggiungi. Spingi la porta che si apre lentamente. Lei è lì, appoggiata al lavandino che ti aspetta.
Ti guarda. Non te lo sei più dimenticato, quello sguardo. Gli occhi neri fissi su di te mentre dalle labbra socchiuse lasciava uscire un debole: «et voilà».
In un attimo le tue mani alzano la sua gonna a trovare le mutandine. Le dita sfregano contro il tessuto che si bagna all’istante. Le infili subito nella sua fica, senza aspettare. Le infili ben dentro, le dita, insieme alle mutandine che non prendi nemmeno la briga di levare.
Il tuo desiderio ti acceca e non capisci più niente. Con impeto le divarichi le gambe mettendola a sedere sul lavandino. Lei si lascia muovere senza opporre resistenza, questo ti piace. La vuoi possedere, dominare completamente, vuoi esserne padrone assoluto. È questo che hai pensato fin dal primo momento che le hai posato gli occhi addosso.

Lei punta i piedi sul muro dietro di te mentre tu affondi con una forza tale che la fai urlare. Le metti allora una mano sulla bocca, poi le cacci le dita dentro per fartele succhiare e ricominci a spingere. Sempre più in fondo. Con l’altra mano raggiungi da sotto la maglia l’agognato capezzolo che stringi forte, come a rivendicarne la tua proprietà, fino al momento in cui la inondi con il tuo seme caldo. Poi molli la presa. Lei adesso è tua. Il resto non conta.


To be continued ...

(le puntate precedenti qui)

domenica 4 aprile 2010

senza senso (settima puntata)


NATHALIE

Hai la nausea. Non passa. Resti seduta sul letto accanto al telefono, scomposta, come se fossi in bilico su uno strapiombo. Non era così che volevi che fosse. Ora è troppo tardi. Non si torna indietro.
Il passato è venuto a ricordarti da dove vieni, privo d’indicazioni su dove andare. Impantanata in sabbie mobili di frasi inutili, sfrondi a morsi il presente scomodo.
Non senti più nulla. Solo l’eco dei tuoi pensieri, macinati fini dai sensi di colpa, che si propaga in tutta la testa. Hai il voltastomaco. Non passa.
«Sono qui, sono arrivata ieri. Ho trovato una stanzetta carina», ti ha detto Christine tutto di un fiato, come volesse toglierti dall’imbarazzo di dover rispondere.
«Ah, brava», sei solamente riuscita a dire tu, dopo che lei ha pronunciato, senza fermarsi, un’enorme quantità di parole per comunicarti che il viaggio era andato bene, che pensava di restare per un po’ in città e che la mamma ti salutava.
La voce di tua sorella non è mai cambiata. Un tono caldo e accogliente, ma con un accento distante. Lo stesso accento che udivi stridere nelle sue parole quando, bambine, lei cercava consolarti. Tu sorella minore in panico, che avevi paura del buio e che ti svegliavi urlando nel mezzo della notte.
«Sai, il mese scorso, te ne sei andata così in fretta. Quasi avessi avuto paura di restare. Non ci siamo nemmeno parlate». Non le rispondi e lei colma il vuoto con altre parole che tu non vuoi sentire. «La mamma è sicura che non ti vedrà più, che tornerai a casa solo al suo funerale. Come hai fatto per papà».

Vorresti espellere dal tuo ventre i giudizi superficiali di chi pensa di sapere chi sei. Tu, regina di cuori, di un regno anestetizzato. Rabbia sedata per lunghi anni. Non vuoi risvegliarla ora.
Ti alzi di scatto dal letto, ti senti soffocare. La tua mente spazia oltre le mura mentre vaghi per la stanza. Il rollio dell’abbandono ti fa venire il mal di mare. Lei si aspetta che tu le dica qualcosa, ma non sei pronta a dire nulla. Nemmeno a respingere la sua presenza. Tua sorella è venuta fin qui dalla Francia a farti domande, a volere risposte, ma non è il momento delle confessioni. Per te non lo è mai stato.
Ti senti come se non fossero passati dieci anni, ma dieci minuti. Come se Christine avesse colmato d’un tratto lo spazio vuoto tra voi due con un quintale di negazione. Un avvicinamento improvviso a rinnegare quella distanza che tu hai voluto mettere tra te e lei.
Rimandi l’incontro, che lei insistentemente ti propone, fino al sabato della settimana successiva, con la scusa di un lavoro da finire. Non sei riuscita a concederti più tempo. La saluti sperando di poterla cancellare con un gesto.

Ti porti a letto, insieme al tuo corpo stanco, anche un carico di paure che pensavi non dover mai riprendere in spalla. Con tre gocce amare in un bicchier d’acqua il tuo umore sfugge alla morte interiore dell’ansia, scortandoti al sonno. Non ne puoi fare a meno, non potresti sopportare una notte insonne. Non oggi.

martedì 30 marzo 2010

sesto senso (sesta puntata)



CHRISTINE

Sfogli quella vecchia edizione della Bibbia con l’attenzione che potresti avere per un raro reperto archeologico. Le dita quasi ti tremano nel voltare le pagine, sottilissime più della carta velina. Impalpabili come l’aria, hai la tentazione di volerle strappare via, le frasi sul foglio. Ma non lo fai.

Leggi in piedi, in metropolitana. Hai il polso che duole per il peso dell’antico volume con la copertina in pelle, ma nonostante ciò continui a reggerla con una sola mano, mentre con l’altra ti aggrappi con forza al palo per non cadere.
Concentrata sulla lettura lasci che il tuo corpo involontariamente segua l’andamento ondulatorio del treno noncurante delle persone che entrano ed escono ad ogni fermata.
I tuoi occhi, completamente impregnati dalle singole sillabe che si stagliano nitide contro il bianco della carta, si alzano distrattamente di tanto in tanto a controllare il nome della stazione senza che il tuo cervello sia in grado di memorizzare l’azione. Operano in modo autonomo dal resto del corpo, per non perdere la concentrazione, che tu sai instabile da sempre.

La stai leggendo come fosse un romanzo, la Bibbia. «Dall’inizio alla fine», ti sei ripetuta più volte quando svelta l’hai tirata giù dallo scaffale, «con metodo, dall’inizio alla fine».
Ora che hai buttato giù la Genesi tutta d’un fiato, e hai affrontato Mosè e il suo Esodo ti convinci sempre di più che sarà per te un riscatto. E in ogni parola, che si leva alta tra le centinaia altre parole di quel particolare passo, credi di aver trovato la conferma che cercavi. La dimostrazione che è proprio lì che troverai il senso della tua vita. Lì, tra quelle pagine quasi ammuffite, sottratte alla libreria di tuo padre.
«A lui non servono più», ti sei detta mentre infilavi il volume nello zaino, «i morti non leggono».
Non hai nemmeno pensato di chiedere il permesso a tua madre, l’hai presa e basta, la vecchia Bibbia di tuo padre. Avevi paura che lei ti potesse dire di no, che era un ricordo, che non poteva privarsene.
Te ne sei appropriata tu, del ricordo, prima che lo facesse lei. È un po’ anche tuo, però, ti sei giustificata. Differente da quello della mamma, ma altrettanto vivo nella memoria.

Ora in piedi, in una carrozza della metropolitana di una città che non conosci, di un luogo che non ti appartiene, ti aggrappi a un significato più grande di te per poter andare avanti in una scelta che non sai se sia quella giusta, ma sai che è l’unica per te donna ormai disadorna di fede.
Al funerale di tuo padre l’hai incrociata velocemente, tua sorella, due parole di convenienza e un sorriso controllato. Poi lei è scappata con una scusa lasciandoti di nuovo sola, ma questa volta non lo hai potuto sopportare. Non questa volta.


To be continued ...

(le puntate precedenti qui)

venerdì 12 marzo 2010

abbraccio


Valeria con Hector (Milano, febbraio 2010)

Foto di Donatella D'Angelo ©

senza senso (quinta puntata)


Blue Swing Girl Free Images


NATHALIE

È la stessa sensazione che provavi quando andavi in altalena da piccola. Le accelerate e le decisioni improvvise nella tua vita ti provocano gli stessi brividi al basso ventre di quando spingevi con le gambe per andare sempre più in alto, quasi a voler toccare i rami del grande ippocastano del campo sportivo dove ti ritrovavi a giocare con le amiche il pomeriggio dopo la scuola.

A casa, in quell’appartamento di provincia straripante solo d’essenziale, non tornavi mai volentieri. Sin da piccola hai sempre trovato scuse per allungare le ore in modo da ritardare quel ritorno il più a lungo possibile. Fino al mese scorso, quando tuo padre è morto, che in aeroporto hai fatto di tutto per perdere la coincidenza con il treno e arrivare al suo funerale a funzione quasi finita, un modo come un altro per evitarti uno sgradito viaggio nel mezzo del cuore. Il tuo cuore.

Hai passato la mano al momento di assolvere i suoi peccati, hai passato la mano e lasciato che la posta in gioco si alzasse, che diventasse così alta da non poter più restare al tavolo da gioco. Restano ora, sul piatto, soltanto una manciata di ricordi.
Ricordi rigidi e freddi come la salma di tuo padre che ti sei rifiutata di vedere, come quel corpo senza vita che non potrà mai più tormentarti. Una memoria di momenti spenti, tracce di un mondo che tu speri sia morto con lui.

Il profumo di lavanda, dei campi intorno al cimitero, è velato da un odore appena percettibile di Gauloise, aspro aroma di casa che ritorna insistente, e tu non sei sicura che sia quello a procurarti il senso di nausea o la vista della bara calata nella nuda terra.
Erano dieci anni che non tornavi in Francia, ma volevi esserci a sotterrare il tuo dolore, per essere sicura che fosse definitivo, che non potesse più tornare.
Ora che tutto è finito vuoi solo andartene. Rifiuti l’ospitalità di tua madre con una scusa banale, una delle tante che hanno riempito i tuoi vuoti quando dormivate sotto le stesso tetto.
«Ma Nathalie, sei appena arrivata», prova insistere tua madre con la poca forza che le rimane.
«Mamma, ti prego», rispondi evitando di guardarla negli occhi e sapendo che lei non chiede mai perché, non aggiungi altro. La baci, attenta a non stropicciare il bouquet di fiori che tiene tra le mani, e te ne vai.

Mentre ti allontani qualcosa ti distrae, percepisci come un pensiero invadente che ti fa sussultare. Ti fermi e voltandoti vedi tua madre immobile che ti guarda andare via. Le sorridi tranquilla e riprendi il cammino noncurante dello spavento. Forte nella tua consapevolezza e fragile nella tua semplicità, quasi dimentichi il perché di quel viaggio. Osservi i tuoi piedi che camminano con un movimento cadenzato come se avessero una vita propria. Ora tu l’unica cosa che sai è che ti devi allontanare.



To be continued ...

quarta puntata
terza puntata
seconda puntata
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mercoledì 17 febbraio 2010

senza senso (quarta puntata)




BERTRAND

Ti risvegli dopo ore con la testa pesante. Ti senti come un boccone di grasso masticato e sputato a lato del piatto. Sei solo, terribilmente solo. Una bottiglia vuota di Hennessy e il conto della stanza da pagare tutto ciò che ti resta. Alla fine hai perso anche te stesso. Potresti tornare sui tuoi passi, chiamarla e chiederle di tornare, ma sai che non sopporteresti un “no” come risposta.

Tu che hai creduto di volere solo il suo corpo, che l’hai scelta solo dopo aver intuito i suoi capezzoli scuri sotto la maglia. Tu che l’hai posseduta in ogni suo angolo con la prepotenza di chi non ha altri desideri da soddisfare e che hai ossessionato sulle sue curve appena accennate, immaginandola ancora bambina. Che le chiedevi di sussurrare all’orecchio parole in francese mentre la penetravi con forza come se, a ogni colpo, volessi raggiungerle l’anima. Tu, ora, sei devastato dalla sua assenza.

Fai fatica ad alzarti, se fossi un verme strisceresti a terra fino al bagno. Invece costringi le tue gambe a sorreggere quel peso morto che sei, così bevuto che ti sei perfino pisciato addosso.
Affronti quei dieci metri che ti separano dalla doccia come se stessi percorrendo la Parigi Dakar, tra sabbia e sudore. Pianti un piede dopo l’altro nel pavimento appiccicoso che ti sembra fatto di gomma. «Che schifo di posto», riesci solo a pensare, invece dovresti dirti: «Che schifo di persona che sono diventato».

L’acqua fredda della doccia riesce a dare un po’ di sollievo al tuo corpo, quel tanto che basta a scrollarti di dosso il torpore. Perdi la cognizione del tempo, lasci che il getto ti annienti quei pochi pensieri che hanno il coraggio di venire a galla nella tua testa spenta. Niente sapone, niente shampoo. Solo uno scroscio d’acqua gelida e il nulla.
Allunghi la mano oltre la tenda a cercare un asciugamano, ma non lo trovi. Allora esci dal bagno grondante e attraversi la stanza strascicando i piedi nella pozzanghera che si è formata sul pavimento. Una volta ti avrebbe fatto orrore immergere i piedi puliti nell’acqua sporca, ora invece guadi quella palude senza curartene. Con la stessa indifferenza che hai per la tua vita.

Raggiungi il letto, tiri a strattoni il lenzuolo e ti avvolgi restando in piedi davanti al materasso nudo. Raccatti in fretta e furia le tue cose dal pavimento e ti vesti. Devi uscire di lì, al più presto, la puzza di cognac e sigarette che ristagna nella stanza ti sta facendo venire la nausea.
Tua moglie ti crede via per lavoro, a casa non puoi tornare fino a sera. Ora non ti resta che cercare di riempire ore che sai già essere vuote.


To be continued ...


terza puntata
seconda puntata
prima puntata


giovedì 11 febbraio 2010

Lunatica

Antologia di racconti ispirati alla luna da un'idea nata su Facebook tra amici scrittori, lettori e frequentatori, tra un commento e l'altro. Curata da Paolo Melissi e Francesca Mazzucato.

Questi gli autori che hanno partecipatato all'iniziativa:

Francesca Mazzucato
Mangino Brioches [Anna Mallamo]
Anna Costalonga
Eva Carriego [Lina Dettori]
Gaja Cenciarelli
Biljana Petrova
Angela Scarparo
Harry Powell
Andrea Ponso
Jacopo Masini
Paolo Melissi
Sabrina Campolongo
Andrea Bruni
Luciana Viarengo
Mariella Soldo
Laura Costantini
Paola Presciuttini
Carmine Mangone
Cristiana Morroni
Nina Maroccolo
Donatella D'Angelo
Graziano Cernoia
Gianluca Chierici
Isabella Borghese

L'intero ricavato di "Lunatica" verrà devoluto a Fondazione Francesca Rava N.P.H Italia ONLUS a favore dell'ospedale pediatrico SAINT DAMIEN ad HAITI


Io ho partecipato entusiasticamente con un contributo letterario e grafico (racconto e copertina qui sotto)






VARIAZIONI LUNARI

«Come Quando Fuori Piove», esclama Alfio.
«Cosa?» Domanda Olmo. «Passo», aggiunge subito dopo chiudendo di scatto il ventaglio delle cinque carte che ha in mano.
«Co-me Quan-do Fuo-ri Pio-ve», compita lentamente Alfio fissando l’espressione confusa di Olmo, «Cuori Quadri Fiori Picche», dice infine.
«Oh!». Olmo non è sicuro di capire, appoggia le sue carte sul bordo del tavolo e rabbocca di grappa il bicchiere mezzo vuoto. «Come … quando … in cielo … c’è la Terra», dice dopo qualche secondo di pausa.
«Non c’è», ribatte sorpreso Alfio alzando il naso verso il cielo nero.
«No, non c’è», Olmo sorride, «Ma è esattamente come quando c’è».
«Oh!». Ora è Alfio a non capire e decide che forse è meglio riempirsi il bicchiere.
Olmo si alza in piedi. «Insomma, è come allargare le braccia e sentire l’atmosfera intorno, prova!»
Alfio si alza e tira su le braccia all’altezza delle spalle.
«Dai su, muovi ‘ste braccia», lo esorta Olmo.
«Come?»
«Su e giù ».
Alfio ubbidisce. Tira su e giù le braccia per un paio di volte, poi le riporta lungo i fianchi.
Anche Olmo fa lo stesso movimento. Su e giù. Su e giù, più volte.
«Si può fare di più», aggiunge dopo una pausa, allungandosi in punta dei piedi con le braccia distese sopra la testa, quasi a toccar le stelle, «vedi Alfio, è tutto intorno a noi, il nulla!».
«Il cielo», esclama Alfio urlando come fosse stata la risposta giusta a un quiz a premi.
«Lo spazio, Alfio, lo spazio», si sente di puntualizzare Olmo, «lo senti con il corpo, lo spazio intorno?».
«No», risponde un po’ interdetto Alfio guardando Olmo abbracciare il vuoto davanti a sé.
«Sei mai stato sulla Terra?»
«Mai, stato sulla Terra», risponde deciso Alfio.
«mai stato sulla Terra?», ripete stupito Olmo.
«No, mai!».
«Allora non puoi capire».
«Cioè, ne ho sentito parlare», si corregge prontamente Alfio, «posso immaginare!».
«Ecco sì, allora immagina», dice Olmo, «immagina un muro tra me e te».
«Come un muro? Che c’entra con la Terra?»
«Sulla Terra ci sono un sacco di muri», spiega pazientemente Olmo.
«Se ci fosse un muro tra noi due, io non ti vedrei», dice Alfio.
«Non sapresti nemmeno se ci sono, al di là del muro».
«No, infatti. Potrei pensarlo, però».
«Ma non ne avresti la certezza», puntualizza Olmo.
«No, ma se tu mi dici che ci sei, io mi fido». Alfio sorride.
Olmo lo fissa scuro in viso e Alfio smette di sorridere. Restano a guardarsi fissi per qualche secondo, poi scoppiano a ridere. Insieme.
«Ecco, hai fatto cascare il muro»! Dice Olmo senza riuscire a smettere di ridere.
«Infatti, ora ti vedo». Risponde Alfio.
«Anch’io ti vedo. E ti tocco anche», prosegue Olmo dando ad Alfio una pacca sulla spalla, così forte da farlo traballare.
«Piano, che mi fai volare via! l’atmosfera è così rarefatta stasera», grida Alfio. «Dai Olmo, facciamoci un altro bicchiere», aggiunge poi, tornando a sedersi sulla roccia.
«Sicuro, prendo un’altra bottiglia di grappa!»
«Gobba a levante, Terra calante. Gobba a ponente, Terra crescente», annuncia Alfio affacciandosi fuori dal cratere.

mercoledì 3 febbraio 2010

senza senso (terza puntata)




prima puntata

seconda puntata




NATHALIE

Giri per la casa nuda, la pelle bianca a vista, rivestita soltanto da un sottile strato di goccioline d’acqua. Avverti le piante dei piedi appiccicarsi al parquet. Il caldo è insopportabile, le orme umide dietro di te svaniscono in un baleno. Non tira un filo d’aria, ti avvicini alla finestra aperta cercando sollievo e intravvedi il tuo riflesso nel vetro. Di sfuggita, con la coda dell’occhio.
Ti giri di scatto, con una rapida mossa felina colpisci la finestra con il piede, che si chiude ricacciando il tuo doppio da dove era venuto. È stato un attimo, e sei di nuovo sola. Ora la finestra riflette il condominio di fronte.

Disprezzi la tua figura, non tolleri che lei richiami la tua attenzione. Entrando di soppiatto nel tuo campo visivo ti fa violenza e tu non lo puoi accettare. Soprattutto da lei. Non la vuoi incontrare, tu, la tua immagine riflessa. Ti è nemica. Come con una vicina di casa scomoda, ingombrante, invadente, hai con lei un conto in sospeso, una questione irrisolta. Da anni oramai.
Allampanato e informe, ti fa senso. Così lo vedi il tuo corpo, un oblungo ammasso di carne. Non abbastanza formoso, niente curve, niente colline e avvallamenti. Niente di niente, solo un mesto piattume. Un’estensione di epidermide chiara, interrotta solo da un cespuglio di peli neri, unica traccia matura in un corpo dimenticato da Dio.

Non hai mai voluto cedere alle sue insistenti richieste di tosare la tua aiuola ed estendere il deserto a perdita d’occhio. Hai detto no alla riesumazione dell’immagine bambina che tu hai seppellito con tanta cura, ben in profondità. Che hai stipato negli abissi della memoria, ben pigiata in modo da occupare meno spazio possibile. Incastrata ben bene nelle insenature del ricordo così da assicurarti che non venga più a galla. Ora che hai avuto il coraggio di lasciarlo indietro, lui, sai che la tua bambina è salva.

«Mamma, ma che fai a casa?». La voce di Sara arriva inaspettata. Ti giri di colpo e la vedi in tutto il suo splendore di diciottenne affacciata alla porta della sua camera. Sorridi.
«Hai una sigaretta?», le chiedi restandole di fronte nuda come un verme.
«Certo». Tu la osservi mentre ti passa la sigaretta già accesa e una maglia per coprirti, piccoli gesti veloci, e noti che avete lo stesso modo di muovere le mani. Riconosci il tuo nervosismo in quei suoi movimenti a scatti.
«Allora?», incalza Sara con una punta di preoccupazione nella voce.
«Ho chiuso», rispondi semplicemente tu, senza aggiungere altro.
«Un’altra volta?»
«No, stavolta sul serio». Sara sorride, tu sai perché. «Sei sola?», le chiedi indicando la porta della camera da letto.
«No», risponde Sara, «c’è qui Elena».
Tu fai per andartene, per non essere di troppo, ma Sara ti prende per mano. «Mamma resta, te la presento».



(to be continued)

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domenica 31 gennaio 2010

senza senso (seconda puntata)



puntata precedente


NATHALIE

Decidi di scendere per le scale, correndo, vuoi solo andartene in fretta. Sgusciare fuori dalla perversione di quella relazione, che ti ha costretta in una morsa da lasciarti senza fiato. Intrappolata laddove una scelta non sembra permessa. Una relazione al gusto di Cognac e di Gauloise, confezionata su misura, con un tanfo che ti s’incolla addosso e non va più via. Quello stesso tanfo che ti porti dietro da quando eri bambina, che neanche a grattare sotto la doccia con un abrasivo riesci a mandare via.

Le mani di tuo padre, le dita gialle di nicotina. Di campagna, mani così grosse, che accoglievano l’intero tuo viso dentro a un palmo. Le senti ancora ruvide sulle tue guance come se fosse ieri, perché il ricordo si annida negli interstizi della memoria, armato, pronto all’attacco. E tu da sempre provi a fuggirlo quel ricordo. Perché ti fa male. Quel ricordo in particolare, non un altro, ma quello, che penetra dalle mucose del naso e si conficca nell’anima a mo’ di stiletto, ti fa un male cane. «Nathalie, vieni qui», ti diceva lui tornando a casa la sera, «siediti sulle mie ginocchia», e mentre ti avvicinavi sorridendo l’odore acre della sua giacca copriva quello della lavanda dei tuoi vestiti.

Ora, tornando a casa di corsa, intrisa del sudore di una notte di sesso fatto male, ti domandi se vuoi chiudere fuori dalla tua vita lui o il ricordo di tuo padre. Le dita ti tremano mentre cerchi le chiavi nella borsa. Le trovi e le afferri, ma ti cadono a terra. Ti sei dimenticata di mangiare e ora il tuo corpo te lo fa notare. «Sporca, puzzolente e affamata, il modo migliore per ricominciare», pensi e sorridi da sola.


BERTRAND

La guardi andarsene. La continui a guardare anche quando non c’è più, attraverso la porta chiusa. La guardi scendere le scale e vedi il suo culo senza mutande che si muove nei jeans attillati, incuneati nella fessura della sua fica, con la cucitura che sfrega avanti e indietro ad ogni passo. Non riesci a immaginare di non poterla più toccare, la sua fica, di non poter più avere accesso a quella delizia.

Trovi gli slip abbandonati nel letto. Provi ad anestetizzare la sofferenza con il suo profumo, respirando forte, ma la rabbia prende il sopravvento. Ti alzi di scatto e afferri le forbici da dentro il cassetto, ne infili una lama in un’apertura delle mutande e dai un taglio netto. Poi un altro e un altro ancora. Sfoghi tutto il rancore della tua perdita su quel misero pezzo di stoffa bianca, perché tu sai che lei non tornerà più. Urli a pieni polmoni versi senza senso come fossi un uomo delle caverne alle prese con un orso, mentre sei solo un miserabile perdente che lotta contro se stesso.

La testa ti duole quasi quanto il cuore. E ora, dopo tutti quei versi, ti fa male anche la gola. Ti butti di nuovo sul letto, tra le reliquie tagliuzzate di ciò che resta di lei, a crogiolarti nel suo odore. Ti avvicini la fedele bottiglia di Hennessy al petto. La apri con i denti e trangugi un lungo sorso, a canna come solo la tua parte peggiore sa fare. La svuoti tutta in quel tragico gesto, la bottiglia. Poi come se facesse parte dello stesso movimento armonico, con un moto di stizza animale, la lanci con forza contro lo specchio e lasci che il fragore di vetri infranti ti desti dalla tua illusione adolescenziale. Ora stai piangendo.


....

(to be continued)

domenica 24 gennaio 2010

senza senso (prima puntata)

Era nell’aria, l’aria che respiravi tutti i giorni. Inutile trascinare un corpo morto, che puzza di marcio e di tabacco. Troppo pesante per il tuo esile fisico, troppo pesante anche per il tuo molle cuore. Esangue. Perché il tuo cuore, seppure ruvido e sporco, è sempre un cuore.

È in quella distesa di rabbia, che cerchi le risposte. In silenzio resti a osservare la sua pelle che attraversa la vastità della tua, a perdita d’occhio, come il Deserto della Namibia. Lo vedi smarrito in una solitudine piena, a morire di sete tra le dune della tua carne, con la voglia trattenuta tra i denti e la lingua, in un gioco perverso di parole sussurrate all’orecchio. Conficcate nella schiena come pugnali che alternano sensi e controsensi in un’altalena fallica.
Il sudore riempie i vostri corpi, il tuo e il suo. Nudi nel caldo di luglio, in un amplesso senza fretta. Senza voglia. La morte dei sensi nel caldo di luglio. E nella morte lo osservi e pensi. Pensi che non vuoi più stare alle sue sporche regole. Lo pensi così forte che temi ti possa sentire.
Ti alzi. Ti allontani da lui. Ti allontani dalla distesa di rabbia lasciando una striscia di sabbia gialla sul pavimento.
«Torni a letto?»
«No!»
Raccogli dal portacenere un mozzicone di sigaretta lasciata morire la sera prima. L’accendi con l’ultimo cerino della scatola. Non te ne frega niente che lui poi non possa più fumare. Che si fotta.
«Mi chiami domani?»
«Nemmeno!»
Rispondi, senza voltarti, proprio perché devi. Sbatti con forza la porta del bagno sul sogno infranto. Ti siedi a cavalcioni del bidet con il sapore di cenere tra le labbra e ci sputi dentro.
«Che schifo», riesci solo a dire spegnendo la cicca sotto il getto d’acqua.

Lui resta nel letto, solo, con un attacco di bile. Sedotto dal gioco, non si può più tirare indietro. Così come non può nemmeno andare avanti. Assediato dal piacere di piacere, a tutti i costi. Costi quel che costi. Soggiorna nelle fantasie mortali, aspirando all’Olimpo e, incapace di dare un significato al suo rancore può solo cospargere veleno sul tuo corpo con il palmo della mano. Quella stessa mano che caccia prepotentemente dentro al tuo sesso convinto di farti godere. Che ti strizza capezzoli fino a farli dolere, in un’orgia di colpi d’anca modulati esclusivamente sul proprio piacere. Perché è così che lui misura la tua lealtà, ormai vuota di lacrime e di tempo andato, sul suo piacere. Una lealtà che pensava immortale, ma che alla fine lo ha tradito.
«Vaffanculo!»

Ti concedi solo il tempo di infilarti jeans e maglietta, le mutande sono rimaste sotto il lenzuolo. Non hai voglia di andarle a cercare in quel che resta dei vostri umori. Nessuna voglia. Non hai più alcuna intenzione di avvicinarti di nuovo a quel cadavere ambulante, strabordante di sé. Un sé così abbondante che è riuscito a fagocitare la sua stessa esistenza, barattando l’effettiva realtà con la sua visione della realtà, in una continua negoziazione con quel mondo che non lo vuole più ascoltare. Che lo ha isolato. A ragione lo ha isolato, perché lo prendeva per il culo, il suo pubblico. Perché pagava, il suo pubblico, per andare ad ascoltare una carogna che lo prendeva per il culo.

Te ne vai per sempre dalla sua vita. Te ne vai e basta, senza nemmeno specificare che è per sempre. Lo capirà da solo, il giorno che non ritornerai più le sue telefonate. Nel preciso momento in cui si accorgerà che la poltrona in prima fila è vuota, e resterà vuota, serata dopo serata. Spettacolo dopo spettacolo. Se gli daranno ancora la possibilità di fare spettacoli, dopo che ha vomitato tutta la sua rabbia, il suo rancore di uomo frustrato, sul pubblico pagante. Dopo che i critici, tutti i critici all’unanimità, hanno definito il suo spettacolo: il peggiore dell’anno. Peggiore perfino del precedente spettacolo, che era già peggiore. Ecco, sarà allora, in quel momento di assenza che capirà che non c’è più ritorno.

….


(to be continued)