lunedì 28 giugno 2010

senza senso (dodicesima puntata)


EMILIE

Uno strattone, una spinta e la tua schiena sbatte violentemente contro il muro. Nell’attimo dell’impatto riecheggia il tonfo sordo del respiro che viene a mancare. Bertrand ti afferra le braccia per non farti scappare, stringe così forte che senti i bicipiti spappolarsi tra le sue dita.
Messa all’angolo come un pugile stanco, senza possibilità di fuga, ti copre d’insulti. Le solite ingiurie, sconvenienti, oscene, senza eguali. Non puoi fare altro che incassare ogni suo colpo nella speranza che il gong di fine ripresa venga in tuo soccorso.
Ma il tempo sembra tendersi come un elastico, non riesci neanche a ricordare il motivo che ha scatenato l’inferno. Netta e precisa, invece, la memoria del suo scatto di rabbia, costante e immutabile nel tempo arriva sempre inaspettato. Una trasformazione improvvisa senza motivo apparente. Il viso che cambia espressione, che si contrae in una smorfia quasi irreale e che esclude, a priori, ogni altra possibile soluzione al conflitto, se non lo scontro.

«Mi fai male», sussurri piangendo. Lui per un attimo molla la presa, pensi che sia finita e fai per allontanarti. Invece, Bertrand decide di riconfermare la sua supremazia agguantando il polso e torcendoti il braccio. «Mi fai schifo», alita a denti stretti nel tuo orecchio.
Il tuo corpo, forzato a seguire la torsione, gira su se stesso e ti ritrovi di schiena con la guancia che affonda contro l’intonaco del muro. Odi l’accavallarsi dei nervi e lo sfrigolio dell’ulna e del radio che tentano di resistere alla rottura. Riesci a divincolarti con un gesto disperato. Non fuggi, però, resti lì ferma, a massaggiarti le braccia dolenti senza voltarti.
Le lacrime sgorgano da sole, senza che tu lo abbia deciso. Dalla tua bocca non esce una sola parola. Non hai nulla da dire perché, in questi casi, parlare non serve. Non è mai servito.
Ti giri lentamente e sei investita dal disprezzo del suo sguardo, freddo come la carrozzeria di un’auto in corsa. Intuisci quali sono le parole che si sforza di trattenere in gola solo guardando il suo viso paonazzo e le vene del collo gonfie al limite dello scoppio.
Alla vista delle tue lacrime lui risponde con uno sputo in faccia, prima di sferrare un colpo a pugno chiuso proprio all’altezza del tuo ombelico. Non ha mai sopportato vederti piangere.
Ti sfugge dalle labbra serrate un sospiro sofferto, un unico monosillabo che riassume tutta la tua umiliazione: «Uh!».
Trattieni il fiato cercando di non accasciarti al suolo, come invece vorresti tanto fare. Preghi che sia il tuo corpo a lasciarsi andare perché la paura non te lo permette.
Resti immobile, come pietrificata mentre lo vedi percorrere il lungo corridoio e uscire di casa sbattendo la porta.

In un attimo torna la calma. In lontananza solo il vociare dei bambini che giocano ignari in camera da letto. Ignari?
Ti appoggi al muro con la schiena e scivoli giù fino al pavimento, resti così, seduta per terra per qualche minuto a riprendere fiato. Con il dorso della mano ripulisci le guance dal suo sputo tenendo lo sguardo fisso alla porta d’ingresso. Chiusa. «Entrato e uscito nel giro di un’ora», pensi.
Ti senti abbandonata, lasciata lì, gettata via come un rifiuto, avvolta da un senso di solitudine che ti copre tutta come un velo.
Lui non rientra fino a sera tardi completamente ubriaco. Si mette a letto senza rivolgerti una parola o uno sguardo, come se non esistessi. Tu attendi il tempo necessario che si addormenti prima di deciderti di andare a dormire.

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