lunedì 22 giugno 2009

Breve è la notte

(pubblicato sul settimanale Vera n° 5 del 21 luglio 2009)

Francesca lo osservava attraverso la folla che si era radunata nella saletta. Aveva la netta sensazione di averlo già incontrato. Neri capelli ricci, ondeggianti, leggermente brizzolati sulle tempie, di quella lunghezza che gli dava un aspetto più giovanile della realtà.
Francesca non poteva sentire le sue parole, a lei arrivava soltanto l’eco delle sue risate. Era affascinata dal suo modo di muoversi e di reclinare la testa leggermente di lato quando ascoltava gli amici.
Non riusciva a distogliere lo sguardo. Provava un po’ di disagio, non era più abituata a sentire un’attrazione così forte per un uomo.
Trovò una sedia libera non troppo distante dal palco. Si sedette, prese il programma della serata dalla borsa e gli diede un’occhiata distratta.
“La poesia e la speranza” lesse in cima al foglio.
“Titolo perfetto per me” pensò. Si senti di colpo molto sola.
Prese un fermaglio dalla borsa e si legò i lunghi capelli rossi in una coda di cavallo.
Quando alzò lo sguardo in direzione dello sconosciuto, era sparito.
Il presentatore si avvicinò al microfono e il rumore in sala cessò subito. Francesca diede un’ultima occhiata veloce intorno a sé, con la speranza di rivederlo. Ma niente, sparito nel nulla. Provò un senso di smarrimento, non era mai uscita senza suo marito, ma sapeva che si sarebbe dovuta abituare.
Il silenzio la metteva in imbarazzo. Quasi si pentì di essere lì, si sentiva sciocca.
I poeti si alternarono sul piccolo palco, uno dopo l’altro. Tra il brusio di sottofondo e gli applausi incerti Francesca ascoltava attenta il susseguirsi di versi anche se le creavano un certo disagio.
Declamavano la speranza di ritrovare l’amore perduto. La speranza di un futuro migliore. La speranza di non dover più soffrire per amore. Tutte speranze che la toccavano in prima persona, da quando la storia con suo marito aveva preso una brutta piega. Lui la tradiva da tempo e lei stava male, anche se si era rassegnata all'idea di perderlo.
Aveva sempre amato la poesia, una gran risorsa nei momenti più bui. Ora che soffriva però, la percepiva in maniera diversa e si commuoveva.
La serata poetica stava per volgere al termine, quando sul palco apparve l’uomo misterioso. Sorrideva sicuro verso il pubblico. Francesca si sentì di colpo più serena, quasi rassicurata, come se riconoscesse in quella figura qualcosa di familiare.
Buttò l’occhio sul programma che teneva ancora tra le mani. Scorse i nomi dei partecipanti e si soffermò sull’ultimo. Il nome non le diceva nulla anche se non riusciva a mandare via quella sensazione di averlo già visto. Ora, però, non ci voleva pensare, non le importava più capire chi fosse. Lo aveva davanti e voleva solo ascoltarlo.
Dopo qualche parola di introduzione lui inforcò gli occhiali e cominciò a leggere qualche pagina dal libro che teneva tra le mani. Francesca ne fu subito rapita. La voce calda e leggermente baritonale. Sentiva le sue parole recitate, arrivare direttamente in fondo all’anima.
Alla fine della quarta poesia, il poeta ringraziò il pubblico del caloroso applauso e scese dal palco velocemente.
Francesca fece per alzarsi, ma non sapendo bene cosa fare decise di restare ferma dov’era. Tornò a sedersi fissando il palco vuoto. Un tecnico che stava smontando i microfoni le sorrise incuriosito. Francesca ricambiò il sorriso e poi si voltò a cercare il suo poeta. Lo intravide in fondo alla sala, seduto a firmare autografi.
Pensò di mettersi in coda anche lei per la firma. Almeno avrebbe avuto un ricordo della serata.
Si sentiva un po’ fuori posto, ma prese coraggio e si alzò. Acquistò il libro alla cassa e timidamente si mise in fondo alla coda. Il cuore le batteva forte, non sapeva bene neanche lei perché.
Arrivò il suo turno. Lei posò il libro aperto sul tavolo tenendo ferme le pagine con le lunghe dita.
“Di chi sono queste belle mani?” Disse il poeta con un largo sorriso. Fece scorrere poi lo sguardo dalle dita su per il braccio, fino al viso intimidito di lei.
Quando i suoi profondi occhi azzurri incontrarono i grandi occhi verdi di Francesca esitò un breve attimo e poi aggiunse corrucciando la fronte: “Ma ci conosciamo?”
Lei dovette riaversi dallo stupore prima di socchiudere leggermente le labbra e sussurrare timidamente: “No, non credo!”.
“Eppure, un viso come il suo non lo si scorda facilmente. Come si chiama?” le chiese.
“Francesca”. Rispose con un fil di voce.
Il poeta distolse lo sguardo per l’attimo che bastava a scrivere la dedica. Lei osservò la sua mano forte impugnare la penna e firmare il foglio con larghi gesti senza avere più il coraggio di cercare i suoi occhi.
Fece per riprendersi il libro e lui le afferrò la mano delicatamente.
“Non se ne vada, mi aspetti”
“Sarò al bar” Disse Francesca, meravigliandosi lei stessa per la prontezza con cui aveva reagito. Non era da lei. L’imbarazzo l’avvolse completamente, ma ormai era troppo tardi. L’avrebbe aspettato al bar anche tutta la notte.
Non fu necessario, il poeta arrivò nel giro di qualche minuto. Da dietro. Le appoggiò la mano sulla spalla e le sussurrò all’orecchio. “Francesca”.
Il suono del suo nome la percorse tutta fino alla punta dei piedi. Non si era mai sentita così. Si scostò dal bancone per lasciare il posto al poeta che si sedette di fianco.
“Una birra” ordinò al ragazzo del bar che con un sorriso sornione si rivolse a Francesca
“Occhio signora, quest’uomo ha una brutta fama”, strizzò l’occhio e si girò per prendere la bottiglia di birra dal frigo.
“È vero?” Chiese Francesca al poeta con un sorriso.
“Così dicono” Rispose lui senza scomporsi.
“Starò attenta, allora”.
“Già” bisbigliò lui soddisfatto.
Risero.
Il poeta vide che Francesca teneva ancora il suo libro tra le mani.
“È la mia vita in versi.” le disse.
“La tratterò bene, non si preoccupi” Rispose lei con un caldo sorriso ora che l’imbarazzo si andava dissipando.
“Ne sono certo, ma dammi del tu”.

Il poeta amava sedurre le donne. Ma aveva anche paura dell’amore. Francesca lo stava leggendo nel suo libro seduta sul dondolo in terrazza. Non era riuscita a staccarsi da quelle poesie, aveva passato tutto il pomeriggio a leggere e sottolineare le frasi più belle. Ne aveva imparato brani a memoria tanto era il desiderio di stare con lui.
Il ricordo dei momenti passati al bar era stato con lei tutta la giornata.
Le mani del poeta che la sfioravano nel prendere i bicchieri, i suoi sguardi, le sue labbra così vicine. Potevano solo voler dire voglia d’intimità.
Quando lui aveva notato la fede al dito di Francesca, non si era scomposto.
“Non lo amo più, mio marito”. Aveva sottolineato lei con il timore che lui si tirasse indietro.
“Non possiamo separarci per ora, ma è come se lo fossimo”. Aggiunse poi Francesca. Sapeva che le sue parole suonavano sciocche. Ma le lasciò galleggiare nell’aria, sperando che a lui non importasse. Il poeta sembrava interessato alla sua storia e le fece mille domande, a cui Francesca rispondeva sinceramente. Il marito con l’amante, la sua disperazione, non aveva tralasciato nulla.
Lui aveva un grosso ascendente sulle donne, non ne faceva mistero.
Francesca, nonostante fosse incuriosita dalla sua personalità, era consapevole che non si sarebbe potuta innamorare, che l’amore non era previsto. Era un accordo implicito, chiaro fin dalle prime battute.

La telefonata arrivò come previsto dopo qualche giorno. S’incontrarono in un bar per un aperitivo. I loro corpi esprimevano il desiderio con piccole mosse. Seduti uno accanto all’altra nel cono di luce arancione assaggiavano brevi momenti di confidenza, racconti di vita passata. Un tenero bacio sul dorso della mano, un dito che sfiora di sfuggita le labbra, risate dolci e imbarazzate. Preludio di una maggiore intimità che sarebbe presto arrivata.
Come in un copione con la trama già definita, nel giro di un’ora si ritrovarono davanti alla porta della stanza numero 25, al secondo piano di un albergo del centro. Francesca non era in grado di pensare a nient’altro se non a quelle mani forti che l’accarezzavano già dall’ascensore. Era stata travolta da un desiderio irrefrenabile che non provava più da tempo.
Non fecero a tempo a chiudere l’uscio che lei si ritrovò le labbra del poeta sulla pelle nuda. In un turbinio di sensazioni non riuscirono nemmeno a raggiungere il letto, fecero l’amore per terra, sopra i vestiti ammucchiati sul pavimento.
E lo fecero ancora e ancora, per tutta la notte. Addormentandosi abbracciati senza dire nulla, esausti.
Francesca fu svegliata dalla cameriera che portava la colazione.
“Il signore le ha ordinato questo” Disse appoggiando il vassoio sul tavolo.
“Grazie” rispose Francesca rendendosi conto solo allora che il poeta se n’era andato.

Francesca lo ascoltava fingendosi distratta. Persino la luce non osava illuminare il suo viso. Dopo settimane di silenzio finalmente si erano dati appuntamento allo stesso bar dell’aperitivo. Lei ostentava sicurezza, ma non era il suo ruolo e si vedeva. Ordinarono due cappuccini e scelsero di sedersi in un tavolino sul retro. Restarono in silenzio per qualche minuto. L’unico rumore era quello dei due cucchiaini che giravano lo zucchero. Gli sguardi bassi.
Era un incontro dovuto, ma forse poteva anche essere evitato.
“Mi sento in colpa”. Disse il poeta nella penombra, evitando il contatto con i suoi occhi verdi.
“Per cosa?” Chiese lei, sapendo già la risposta.
“Per la tua situazione”.
Lei aveva già intuito cosa volesse dirle, ma voleva sentirselo dire da lui. Con le sue parole. Con la sua voce.
“In colpa?”. Evidenziò lei
Dopo un attimo di esitazione lui sorrise come se avesse trovato la parola magica.
“Disagio”. E tornando serio ripeté “Disagio, dovrei forse dire disagio”.
Lo disse guardandola dritto negli occhi, poi dopo una pausa continuò “La tua situazione coniugale mi mette a disagio, ecco”.
“Ah sì, capisco”. Sussurrò Francesca per riempire il silenzio.
L’imbarazzo aveva imbottito tutta la saletta sul retro del bar.
“Non vuoi ferirmi”. Aggiunse lei per offrirgli una facile uscita.
“Sì, non voglio ferirti. E non voglio ferire me.”
“Ferire se stesso? E come?” Si chiese lei tra sé e sé. Ma preferì restare in silenzio.
“Io non voglio una relazione”. Disse invece lei dopo una lunga pausa. “Non potrei ora”.
Francesca non diceva tutta la verità, ma era quello che pensava fosse giusto dire ad un uomo che amava le donne in quel modo.
“Non con te, almeno”. Stavolta mentiva.
Il poeta aveva timore della sua fragilità. L’avrebbe portato a confrontarsi con la propria. Non se la sentiva. Avrebbe anche potuto imparare a conoscerla, ma percepiva in lei un pericolo.
Non avrebbe voluto, ma la baciò ugualmente. Fece scivolare la sua mano nella scollatura. Così, quasi per abitudine.
Per un attimo lei fece finta che lui la volesse sul serio, ma se ne pentì subito. Quando lo guardò negli occhi lei lesse che era il poeta quello che voleva piacere, in fondo.
Piacere per non dispiacere mai a nessuno.
“Le donne sono un modo come un altro per affrontare la solitudine”. Disse Francesca allontanandogli la mano dal petto. Conosceva la sua tristezza. L’aveva letta nel suo libro.
“Le donne sono un modo come un altro per affrontare la morte”. Corresse lui.
Aveva ragione. Anche l’amore, però, lo era.
Ma lui lo sfuggiva. Esattamente come lo desiderava lo allontanava, l’amore.
Francesca guardò nel profondo dei suoi occhi blu e sentì che lo avrebbe anche potuto amare sul serio. In un altro tempo e in un altro luogo. Ma non lì. Non in quel bar, non in quella piazza, non in quella città.
Lui non era per lei e lei lo sapeva bene. Ma lui non lo diceva. Anzi. L’accarezzava.
“Non ci sentiremo più?” Chiese lei, per essere sicura che il dolore fosse sempre lì, al suo posto. Il rifiuto era quello che bruciava.
“No lo so … no. Per ora non me la sento”.
“Ho bisogno di leggerezza”. Era la sua motivazione.
L’arrivo del cameriere le bloccò un brivido a mezza schiena. Francesca ne fu contenta.
Non poteva permettersi quel brivido. Ritrasse la mano.
“Poi un giorno ci vediamo e facciamo l’amore” disse all’improvviso lui.
Ma non lo diceva a lei, non più. Voleva sedurre ancora, innamorato dell'amore voleva sedurre se stesso.
Un gioco impari. Una frase che a Francesca pesava più di un addio.

cuore femmina

agile grazia divina
nutrice di vita
nella sua essenza
segretamente carnale

occhi dei sensi
incatenati con cura
al ventricolo destro
del mio cuore pulsante

col braccio alzato
a dir giuramento
per una fertile lotta
semplicemente vivo

venerdì 19 giugno 2009

tulipano giallo

Insonne rifletto.
Dopo vent’anni è finito un amore.
Come per altri, che restano o che vanno, era amore.
I motivi della rottura non sono importanti, c’è stata perché doveva esserci.
C’è stata e si riparte da lì. In avanti.
Ora è tempo di elaborare la perdita.
Non della persona fisica, ma di tutto un coagulo di aspettative che si erano incuneate nella quotidianità della vita di coppia.
Lì, negli anfratti di due vite, incapaci di germogliare.
Una perdita dovuta a una scelta consapevole, quindi senza alcun rimpianto.
Senza colpe. O almeno, colpe senza più importanza. Ora.

Reset.

Ho piantato bulbi di tulipano giallo.
Fioriranno.

giovedì 18 giugno 2009

speranza lattea

Morbidi inferni accompagnano
il risveglio dell’animale
seduto sul tetto dell’universo,
candidamente appollaiato
in attesa del proprio pensiero.

Speranza come attesa sublimata
che nasconde umori senza eroismo,
volubili immagini sorde
taciute tra il giallo del grano.
Nulla ho lasciato, nemmeno una scia.

mamma (14/06/09)

Non sopraggiunge
la morte.
C'è.
La non vita
senza gesto.
Mondo pallido
denutrito
senza un saluto.

Nessuna colpa
per quel respiro
mancato.
Dolore assopito,
rimandato.

giovedì 11 giugno 2009

harvest moon

Io sono nuda,
spoglia senza pudore,
esposta al tuo alito pieno.
Son come sono,
arancio di luna piena
spiga di un raccolto estivo.
Ubriaca di senno
e insonne di sole.
Umorale e femmina,
singola goccia
nel tuo vasto mare.

martedì 9 giugno 2009

sottobosco

Infante di nuova vita
respira il demone dentro,
dipinge di blu evanescente
l’amore mai confessato.

Aroma di terra umida
sottobosco dell’anima sua,
con impercettibile gesto
asciuga lacrime buie.



domenica 7 giugno 2009

Infanzia assimetrica

Io bambina la rivedo in cucina, la mamma. Barcolla avanti e indietro dall’armadio al lavandino. Scorgo un movimento, come se nascondesse qualcosa. La scruto dal corridoio.
Che fare? Scoprire il suo gioco, metterla davanti al fatto compiuto? A undici anni agisci per quello che hai visto. Disperazione.
Aspetto che vada verso l’armadio e mi avvicino. È così presa da quello che fa che non si accorge di me. Resto a ridosso della porta per qualche secondo. Mi gira le spalle. All’improvviso la sorprendo da dietro.
“Dammela” le urlo.
La voce mi esce stridula, un po’ isterica.
Immobilizzata dalla sorpresa le strappo di mano una lattina di birra già aperta. È stato più facile di quel pensavo.
Una volta che il bottino è nelle mie mani, non so bene che fare. Cerco d’immaginare quello che farebbe mio padre, se fosse lì. Io non ho mai sottratto una lattina dalle mani di mia madre prima d’ora.
Mi avvicino al lavandino, veloce, prima che lei si possa riavere dallo stupore. Svuoto quel poco che resta direttamente nello scarico con quello stesso gesto che ho visto fare centinaia di volte.
Con un pizzico di orgoglio getto la reliquia nella spazzatura.
“Ce l’ho fatta, l’ho salvata” penso mentre mi volto a guardarla. Da cosa non lo so bene.
Lei non ha neppure reagito, è rimasta in piedi accanto all’armadio. Impassibile. Con uno sguardo vitreo, assente. Forse non è in grado di provare stupore.
Ferma ad osservare i suoi occhi vuoti, mi occorre un attimo per notare che ha le braccia nascoste dietro la schiena. Tiene in mano qualcosa.
Non mi sento a mio agio in questi ruoli scambiati, lei la bambina dispettosa e io la madre accudente.
Mi avvicino a lei con un passo deciso. L’odore acre del suo alito m’investe. Sarà un odore che non mi lascerà più per tutta la vita. Lo sentirò, forte anche nei sogni.
Non si regge in piedi e non oppone resistenza. L’altra lattina di birra è già nelle mie mani, quando mi vedo puntare addosso un paio di forbici, ad un centimetro dalla guancia. I miei occhi percorrono le forbici fin su in cima al braccio e al suo viso. Non la riconosco in quel muso gonfio e rosso.
La sua mano sinistra trema mentre mi minaccia. Non è mancina. Impugna le forbici in modo strano.
Non dice nulla, allunga solo l’altra mano, aperta. Verso la lattina. Muove le dita minacciosamente, facendo segno di dargliela.
Non mi ricordo assolutamente cosa ho pensato allora. Nessuna figlia ne vorrebbe memoria. Cancellato.
“No!” Ho esclamato facendo un passo indietro, forte di una forza non mia.
Lei alza la mano. Pensavo mi volesse colpire e, d’istinto, ho girato il viso di lato. Di scatto.
In un rapido movimento del polso ha invece puntato le forbici contro se stessa.. Verso il cuore.
“Se non me la ridai, mi ammazzo!”.
Le parole scivolano fuori umide e appiccicose.
Non rispondo. Sento un colpo nel mio petto, è il mio cuore che batte. Forte. Sembra scoppiare fuori dalla cassa toracica.
Apre le forbici e appoggia la lama sul polso.
“Giuro che lo faccio”
Esito. Stringo la lattina tra le dita senza riuscire ad emettere alcun suono.
Nel momento in cui vedo il movimento secco della sua mano sul polso, un terrore smisurato si appropria del mio stomaco. Mi sento debole, di colpo. Dovrei correre in bagno. Ma non riesco a muovermi. La paura è così tanta che mi si annebbia la vista.
Qualcosa poi mi spinge a balzare in avanti e spingerla violentemente contro l’armadio.
“Smettila, smettila, smettila” Ripeto strillando. “Smettila”. Mi accorgo di avere chiuso gli occhi nel momento dell’impatto tra i miei pugni chiusi e il suo ventre.
Lei cade per terra con un rumore sordo, accompagnato dal rintocco metallico delle forbici che colpiscono il pavimento.
Quando apro gli occhi vedo sangue che gocciola sulle piastrelle chiare. Macchie rosse che si stemperano in una pozza di birra. Guardo lei, guardo me.
È la mia mano che sanguina stretta alla lattina stritolata.
Le lame delle forbici, vecchie, non molto affilate, sul suo polso hanno lasciato poco più che un graffio. Lei non sanguina.
Mia mamma è terra, e lì resta. In quella posa sgraziata di chi si è arresa per sempre.
Io mi allontano per riprendere in mano la mia infanzia.

Non è una poesia

Non reggo il rifiuto.
Temo l’abbandono.
Aggredisco per paura.

Non sono scuse, è la verità.

Parto in quarta, non capisco più nulla.
Mi fermo solo quando sbatto la faccia.
Quando mi faccio male.
Ma devo essere fermata. Lo so.
Tu lo hai fatto. Sei stato bravo.
Tu hai capito prima di me.

Adesso lo so perché.
Il prossimo passo sarà educarmi.
Senza frusta e senza domatore.

Ti voglio bene sul serio, tanto.
Vorrei abbracciarti.
Vorrei baciarti. Toccarti.
Vorrei intimità tra le nostre anime.

Sbaglio.

No, non sbaglio ad amarti,
ma so che non si può.

Tu non sei per me,
io non sono per te.
Non era, non è e non sarà.

È bello pensarlo, però.
Ogni tanto, immaginarlo.
E ricordare il tuo sorriso
sul mio cuscino.

Non è una poesia.
Sono solo parole.