lunedì 9 novembre 2009

la ragazza che alza le spalle

pubblicato sul settimamale Vera n. 21 del 10/11/09

Canta in inglese con un leggero accento tedesco. Caterina è seduta in prima fila e lo fissa per tutto il concerto. «Il posto è piccolo e non può che notarmi», pensa. Sorride, lui ricambia. È alto, capelli neri di media lunghezza, con un look un po’ anni sessanta. Magrissimo nei suoi pantaloni attillati, si muove come una tigre sul piccolo palco del locale. Caterina passa molte delle sue serate in questo minuscolo scantinato, non lontano da casa sua, dove ogni sera suona una band diversa. Caterina, bella ventenne con biondi capelli spettinati, orfana problematica e ribelle, lavora come cassiera al supermercato sotto casa. Da qualche mese vive sola, ha affittato un monolocale per allontanarsi dalla famiglia adottiva con cui non va assolutamente d’accordo. Adora la musica dal vivo, ma ancora di più adora i musicisti. Una vera passione, che la porta nel backstage di tutti i concerti.

È lei la prima ad alzarsi, alla fine del concerto, e ad avvicinarsi al palco. Tiene in mano un diario e un pennarello. «Posso avere un autografo?», chiede Caterina sorridente, in un inglese perfetto. Il cantante sembrava quasi la stesse aspettando e le prende di mano il pennarello. «Come ti chiami?», le chiede. Lei nota che, ora che non sta cantando, il suo accento tedesco è piuttosto accentuato. «Ca-te-ri-na», compita lei lentamente. Lui firma in una pagina bianca e poi si gira allungandole la mano. «Piacere, Libor». «Piacere mio», risponde lei stringendogli la mano con forza. La serata continua piacevolmente al bar del locale. I tre ragazzi del gruppo e Caterina ridono e scherzano allegramente fino all’ora di chiusura. Chiacchierando, lei scopre che loro sono tre fratelli di origine cecoslovacca, ma vivono insieme a Vienna. Hanno appena inciso il loro primo disco e stanno facendo concerti in giro per l’Europa per promuoverlo.

Il gestore del locale, al momento di uscire dice ai ragazzi di prepararsi che li deve accompagnare in albergo». Caterina, dopo aver scambiato un eloquente sguardo con Libor risponde: «Li porto io». E si alza dal tavolo per pagare la consumazione. «Offre la casa», la ringrazia il gestore. Escono tutti insieme nella notte cittadina. Arrivati sotto l’albergo scendono dalla macchina e Libor prende da parte Caterina, «vuoi salire?», le domanda accarezzandole una guancia. Lei non se lo fa ripetere due volte, è quello che desidera. Salgono in camera e passano la notte insieme. L’indomani i tre fratelli ripartono. Nel giro di un paio di giorni Caterina sta già organizzando il suo viaggio a Vienna. Il Castello di Schönbrunn, il Palazzo Imperiale, il Duomo di Santo Stefano. Una settimana dopo parte, in treno dalla Stazione Centrale. Libor l’aspetta. «Sono stato fortunato», le dice lui andandola a prendere al treno. Lei risponde ridendo, ma senza troppa passione. Lei trova difficile entusiasmarsi, lo ha sempre trovato difficile. Passano quattro giorni insieme, poi Caterina torna a Milano con la promessa che lui sarebbe venuto a trovarla in un paio di settimane. Ed è così, per qualche mese si vedono ogni due settimane, una volta a Milano e una volta a Vienna. Sembra quasi una bella storia d’amore, ma Caterina è irrequieta, non sembra mai soddisfatta della sua vita. Non riesce a stare ferma. È alla continua ricerca di qualcosa, ma non sa bene nemmeno lei che cosa. Mentre si vede con Libor, lei continua la sua vita milanese di concerti e di incontri, come se niente fosse successo tra loro. Poi succede l’imprevisto, Caterina rimane incinta ed è costretta ad arrestare la sua corsa. L’immobilità la obbliga a riflettere su ciò che vuole, ed è proprio quello che lei non vuole fare. Non ha mai voluto pensare, ha sempre agito d’impulso. Andare sempre avanti, come un bulldozer.
«Cosa ci faccio io, con un test di gravidanza positivo in mano?», si domanda. Seduta sul bordo della vasca da bagno non sa rispondersi. Decide di chiamare Libor, per metterlo al corrente della situazione. Ma mentre sta parlando, si accorge di non voler avere nulla a che fare con lui, si chiede chi sia veramente quella persona dall’altra parte del telefono. Cosa vuole lei da lui? Nulla. Allora di colpo tace, lo lascia parlare, si sente fredda e distante come se lui fosse uno sconosciuto. «Addio, è finita», gli dice Caterina a un tratto e, senza nemmeno dargli il tempo di rispondere, attacca giù. Lui, allarmato, è già sul primo treno per Milano. Caterina, più allarmata di lui, lo blocca in stazione per impedirgli di rientrare nella sua vita e lo rispedisce a casa sul primo treno in partenza per Vienna. «A vent’anni non posso fare altro», gli dice. Non vuole fare altro in realtà, non se la sente di stravolgere la sua vita. Come darle torto.

Abortisce dopo poco, in modo leggero, un po’ come un’alzata di spalle. Lei è così. Alza le spalle e prosegue. Vive un susseguirsi di eventi per colmare un vuoto che ha dentro e che si porta dietro da sempre. Senza prendere fiato. Non la blocca nulla, nemmeno la vita. Riprende esattamente da dove si è fermata, quasi non fosse successo nulla. Feste con amici, concerti, vita notturna. Il suo monolocale è un porto di mare, gente che arriva, gente che va, a tutte le ore del giorno e della notte, ma in fondo Caterina si sente sola. È sempre a causa di quel vuoto che non riesce a colmare. Quel qualcosa che cerca, ma non trova.
Qualche mese dopo, tornando in treno da uno dei suoi concerti, conosce due ragazze di Crema. Parlano del più e del meno, poi le ragazze gli raccontano che sono in partenza per Londra. Hanno trovato lavoro come cameriere in una residenza per studenti. Pulire le stanze, rifare i letti, cose così. «Partiamo fra due settimane. Vuoi venire?», le domanda una delle due. Detto fatto. Molla tutto di colpo, casa, lavoro. Caterina parte. «All’avventura», ripete a sé stessa quasi in modo ossessivo. Lei ci crede fino in fondo alle sue avventure. Poca roba nella valigia, niente e necessario.

Il suo arrivo a Victoria Station è qualcosa di memorabile. Sfoggia un chiodo nuovo e una folta chioma di capelli blu, colorati durante la traversata della manica. I piedi le sudano mentre fa i primi passi sul suolo londinese. Indossa due paia di calzettoni perchè gli anfibi sono troppo grandi. «Sto vivendo un sogno», pensa. Ma non sarà per molto. Lei lo sa già. Le sue passioni sono intense, ma di breve durata. Si ritrova a rifare letti sudati, a pulire gabinetti incrostati, l’odore della candeggina le dà la nausea. Si deve svegliare molto presto la mattina e la sera non ha più la forza per andare a vedere i concerti dal vivo che sono la sua vita. Comincia a essere scostante e nervosa, tende a isolarsi dagli altri. Litiga anche con le due ragazze di Crema che lavorano con lei. Nel giro di un mese decide che la sua pazienza è già durata abbastanza. Vuole andarsene.

«Puoi stare a casa nostra», le dice Massimo. «Grazie, sì. Sarebbe fantastico», risponde Caterina voltandosi verso Simone. «Nessun problema per me», conferma l’amico.«Allora, se non vi dispiace, verrei da voi domani mattina presto», aggiunge lei prima di salutarli. Li ha conosciuti durante una festa, qualche giorno prima. Due studenti romani che dividono un appartamento nella mitica Abbey Road, la strada resa famosa da un album dei Beatles, la cui celeberrima coprtina mostra i Fab Four mentre attraversano la strada sulle strisce pedonali. «Non vedo l’ora di attraversare la strada nello stesso punto», pensa Caterina mentre si corica per l’ultima volta come cameriera. Domani sarà di nuovo libera. La mattina seguente si alza, raccoglie in fretta le sue poche cose, ritira la sua paga settimanale, 60 sterline, e se ne va senza salutare nessuno. Con una nuova alzata di spalle riprende il suo vagabondaggio per la vita senza sapere bene dove andrà a finire.

«Questa è di casa, questa è del portone …», le illustra Massimo dandole in mano il mazzo di chiavi. «Solo una cosa, non rispondere mai al telefono», continua lui, «mia madre non deve sapere che ospitiamo qualcuno senza chiedere affitto». «Nessun problema, grazie!», risponde Caterina con un falso sorriso, pensando che i due ragazzi le stanno già antipatici. Giovani ragazzi borghesi, ricchi e viziati.
«La convivenza, però, sembra facile, loro hanno orari diversi», pensa lei. Difatti i ragazzi escono la mattina presto per andare in università, mentre lei dorme ancora. Lei esce la notte, mentre loro dormono. Nel suo intimo, però, sa già che quello non è il suo posto, non si sente a suo agio, non è casa sua.

Girovaga tra un concerto e l’altro. Si mescola tra la folla del mercato a Camden il sabato. È affascinata dagli artisti di strada di Covent Garden. Londra le piace molto, le sembra di scoprire un mondo nuovo, ma tutto questo gironzolare lei lo fa da sola e dopo qualche settimana comincia a sentirlo come un peso. Non riesce a incontrare nessuno che la interessi. Nessuno con cui condividere la sua esperienza.
Magiare da sola, andare ai musei da sola, comincia a essere troppo, anche per uno spirito libero come il suo. Caterina, la ragazza che alza le spalle, non regge più la situazione. Decide che deve muoversi, andare avanti, ma non sa bene dove e quando.

Quella sera non rientra a casa, sceglie invece di continuare il suo vagabondaggio solitario tra bar e locali fino a non poterne più. Londra pian piano si svuota, restano lei e la notte in Piccadilly Circus. Accende l’ultima sigaretta rimasta, getta via il pacchetto vuoto e si siede sui gradini della fontana. Stanca. La tristezza che ha sempre cercato di sfuggire, correndo lontano senza mai fermarsi, è lì a tormentarla. Sola nel silenzio si sdraia sui gradini a contemplare le luci al neon colorate delle pubblicità sull’altro lato della strada. «Devo trovare una soluzione», pensa tra sé e sé, «i soldi stanno per finire e in Italia non ci voglio tornare». Aspira una bella boccata dalla sua sigaretta ammirando il suo luminoso consumarsi.

Ad un tratto un rumore di passi la spaventa. Si alza in piedi di colpo e nel buio intuisce una sagoma di un uomo alto che si avvicina. Cerca di nascondere la paura restando calma. Getta il mozzicone di sigaretta sull’asfalto freddo e la schiaccia con il piede. Intanto osserva. Torna a sedersi sui gradini. Lui ciondola un po’, ha una bottiglia di birra in mano. Cammina lentamente verso di lei, ma non sembra avere un atteggiamento minaccioso. Caterina attende senza scomporsi. Lui le si siede di fianco. «Ciao, sono Brian», le dice sorseggiando la birra. «Caterina», risponde lei mentre lo osserva attentamente. «Ti ho visto al Lion’s pub stasera», dice con un forte accento Londinese. «Vuoi?», domanda poi allungandole la bottiglia di birra. «No, grazie!», risponde lei, mentre lo scruta nel buio, ha la testa pelata con due enormi pantere nere tatuate che gli ricoprono tutto il cranio. Si scambiano poche parole quasi senza guardarsi, «Italiana?». «Sì». «Oh». «Ho amato una ragazza italiana», aggiunge lui dopo qualche minuto di silenzio. «Cinzia», fa un’altra lunga pausa. «Se n’è andata il mese scorso, è tornata a casa, in Italia. Mi ha lasciato». Caterina è stupita dalla dolcezza della sua voce che non ha nulla a che vedere con il suo aspetto da rude skinhead e lo ascolta attentamente. «Non tornerà più». Lei vorrebbe che lui continuasse a parlarle, le piace il timbro della sua voce, ma lui resta in silenzio. Poi Brian abbandona la birra sul gradino e si alza voltandosi verso Caterina, «Vado a casa, vuoi venire con me? Ce l’hai una casa?». «No, non più!». «Non puoi dormire qui». «Vengo con te allora, grazie», risponde lei senza pensarci su nemmeno un secondo.

Brian si mette a correre verso un autobus che sta arrivando e Caterina lo rincorre. Lo prendono al volo. Salgono al piano di sopra e si siedono nei sedili in fondo. «Dove abiti?», chiede lei. «Lontano», dice lui semplicemente. Il viaggio per arrivare è lungo e i due lo passano quasi tutto senza parlare. Brian la guarda spesso in viso e sorride senza dire nulla. Caterina si sente tranquilla, anche se non sa dove sta andando. Il sorriso di Brian è rassicurante, nonostante il suo abbigliamento strappato e il suo corpo ricoperto di tatuaggi. «Ci siamo!», Brian indica fuori dal finestrino una fila di case in mattoni e si alza per scendere. Caterina lo segue giù dall’autobus. È una zona di Londra periferica, che lei non ha mai visto. «Abbiamo occupato questa casa da qualche mese, siamo in tre, si sta bene», dice lui mentre apre la porta d’ingresso. Entrando Caterina si guarda intorno, una vecchia casa piuttosto grigia, ma tenuta dignitosamente. Brian sale al secondo piano e, sempre con Caterina al seguito, entra in una camera.
«Ecco, tu puoi dormire qui», dice lui indicando un letto dove dormono acciambellati due enormi gattoni neri, «io dormo per terra». Lei si siede sul letto mentre i gatti si stiracchiano, «Sei molto gentile, grazie», sussurra. «Puoi restare quanto vuoi», le risponde lui semplicemente.
Prima di addormentarsi Caterina ripensa a come si sentiva male solo qualche ora prima. «C’è qualcosa in lui che mi piace molto», si dice mentre ascolta il respiro ritmato di Brian nella stanza silenziosa. Si volta verso il muro e sente i due gatti che saltano sul letto a riconquistare la parte di coperta che era di loro proprietà. Caterina si addormenta con il sorriso sulle labbra.

L’indomani si sveglia ed è sola, si guarda intorno e nota nella stanza degli strumenti musicali appoggiati alle pareti spoglie. Non li aveva notati la sera prima probabilmente per la stanchezza. «Musicista, può essere solo un musicista!», esclama. La cosa non può che renderla felice, non poteva fare un incontro migliore. Raccoglie i vestiti da terra, dove li aveva gettati la sera prima al buio, si veste in fretta e si affaccia timidamente sulle scale. Sente un vociare allegro arrivare dal piano di sotto. Arriva in punta dei piedi fino alla cucina guidata dal profumo di caffé e sbircia dentro. Brian è seduto al tavolo, la vede e l’accoglie con un enorme sorriso. «Buongiorno!», esclama attirando l’attenzione dei presenti. Caterina un po’ imbarazzata entra nella stanza e si siede anche lei al tavolo.
La ragazza rossa e il ragazzo con i capelli a spazzola che stavano chiacchierando con Brian si presentano: Lilly e Robert. Bastano pochi minuti perché Caterina rompa il ghiaccio davanti ad una bella tazza di caffé bollente.
Brian si offre di aiutarla ad andare a prendere le sue cose a casa dei due ragazzi romani. Caterina è contenta, sbadiglia, si scompiglia i capelli con le mani e si versa una seconda tazza di caffè. Ha quasi la sensazione di conoscerlo da sempre. Non le era mai successo prima d’ora, sedotta da un sorriso notturno, si ritrova in una situazione di tranquillità che non pensava di poter vivere.

«Stasera, dopo il concerto, passiamo a prendere le tue cose», dice Brian alzandosi dalla sedia. Le passa accanto e le sfiora delicatamente una guancia. Poi la prende per mano e l’invita a seguirlo.
Salgono lentamente le scale mano nella mano e arrivati in cima, lui le prende il viso tra i palmi, la fissa dritto negli occhi e, senza timidezza, si avvicina alle sue labbra. Caterina si lascia baciare. Un lungo e tenero bacio, per lei un nuovo inizio.

giovedì 5 novembre 2009

immense cicatrici e fiori di campo


Mia mamma aveva le mani bellissime anche nella morte. Parevano sottili steli di cera bianca adagiati composti sul ventre, candidi e morbidi nella rigidità della quiete perenne; quasi estranei al resto del corpo, sconfitto infine. Carne lattea, priva ormai del senso del giorno.

Mi sono sempre chiesta come mi sarebbe stata recapitata la notizia. Me lo chiedo da quando, bambina, ho capito che la morte sarebbe stata una presenza costante. Ubriaca, annegava la sua esistenza solitaria vagando per la città, esposta a ogni male, offrendoci in cambio infinite attese piene d’ansia. Un’ansia durata quasi quarant’anni, un pensiero ricorrente che mi ha tallonato da vicino, a ogni squillo del telefono. La morte infine è arrivata e se l’è portata con sé, la mamma, nel sonno. Ora ho la mia risposta.

«È morta», sussurra la voce di mio papà al telefono, tre sillabe senza un soggetto ad annunciare la sua fine, attesa, ma inevitabilmente inaspettata. Non poteva aggiungere altro, perché non c’era altro da aggiungere, tutto era già stato detto nella scelta di quella parola. Non deceduta o scomparsa, nemmeno andata: morta. Pronunciata in fretta a rimarcare l’ineluttabilità del destino, con il timore che a trattenerla tra le labbra potesse prolungare la sofferenza.

3.30 del 4 novembre 2009. Avrei voluto strappare ancora un minuto della sua vita con la consapevolezza che sarebbe stato l’ultimo, invece lei ha voluto sorprenderci e se n’è andata silenziosa e discreta in una notte di luna piena. Per anni l’ho pensata già morta, ma ora la sento più viva che mai. Di lei porto nel cuore immense cicatrici e fiori di campo.