martedì 29 giugno 2010

senza senso (tredicesima puntata)


NATHALIE

Speri che non si sia sentita al telefono, la delusione. Hai sempre fatto fatica a fingere. Solo al pensiero di un confronto con tua sorella la nausea aumenta. Guardi l’ora: le cinque. Decidi di alzarti, e nel silenzio di un’alba dolorosa ti trascini fino alla cucina.
Prepari il caffè con la speranza che scuota la tua anima indolenzita, ma anche i gesti che ti sono familiari ti creano fatica. Con la tazza in mano ti siedi a guardare fuori dalla finestra la debole luce del sole che sorge filtrare nello spazio tra un edificio e un altro. E resti ferma, come se la tua immobilità potesse cancellare gli eventi. In sottofondo solo i rumori dei commercianti che aprono i loro esercizi nelle vie sottostanti.

Abbandoni il caffè, ormai freddo, sul tavolo senza quasi averlo toccato e ti ritiri in bagno lasciando che la vita fuori dalla finestra scorra da sola, senza di te.
Fai scivolare la maglietta per terra, senza guardarti allo specchio. Un senso di vergogna ti pervade. Vorresti lavare via anche quello insieme alla sporcizia. Insaponarti lo spirito, purificarti dai pensieri che ti macchiano l’anima. Mentre il getto d’acqua ti massaggia tutto il corpo, prendi il guanto di crine e cominci a sfregare le braccia, ti accanisci con furia sui gomiti e sugli avambracci. Senti la pelle bruciare, ma continui a grattare. Insisti poi sul ventre, sulle cosce, sulle ginocchia fino a far diventare la pelle di fuoco. Quasi sanguina.
La doccia è sempre stata il tuo unico rifugio. Il tuo confessionale, il luogo dove espiare i tuoi peccati. È lì, in solitudine, che elabori grandiosi discorsi che poi inevitabilmente non pronunci mai. Metti punti, aggiungi virgole. Cancelli e poi riscrivi. Inauguri ogni volta una mostra infinita di pensieri, che si affollano in quell’unico momento mentale del senso di colpa.
Ti fai infinite domande, fissando insistentemente quella crepa sulla piastrella di fronte a te in attesa di un suggerimento. Sempre la stessa crepa, sempre le stesse domande. Non le trovi, le risposte a quelle domande.
Ed è proprio nel tuo corpo nudo che vedi una donna stanca e provata. Una donna che somiglia a colei che ripudi come modello, ma di cui ricalchi le orme. Una donna miserabile nella sua solitudine di moglie e di donna, proprio come l’immagine di madre che hai voluto congedare troppo in fretta per non esserne travolta.
Lentamente le lacrime sgorgano dai tuoi occhi, si confondono con l’acqua e rotolano giù per la pelle bagnata, morendo silenziose ai tuoi piedi. Stai piangendo. Le contrasti le lacrime, combatti quella sensazione di debolezza. Tenti di fermarle serrando le palpebre con forza; ma è tutto inutile perché ti senti piangere dentro. Stai singhiozzando, ora. E non sai nemmeno bene perché stai piangendo.
Riapri gli occhi. I pensieri svaniscono proprio come i sogni al risveglio, investita dall’immediatezza della realtà circostante. Ti lasci raggiungere dalla melodia una musica vagamente mediorientale che arriva dalla piccola finestra del bagno che dà sul retro del palazzo e intanto la tensione si allenta, ma ancora non riesci a smettere di piangere.
Allora ti siedi sul fondo della doccia. Abbracci le tue ginocchia e ci abbandoni sopra la testa. Lasci che l’acqua ti avvolga completamente, come un velo. Perdendo la cognizione del tempo. I minuti si allungano su tutte quelle fantasie che non hanno un posto stabile nella tua mente. Vorresti essere in grado afferrarle e metterle da parte. Non ci riesci però, volano via.

lunedì 28 giugno 2010

senza senso (dodicesima puntata)


EMILIE

Uno strattone, una spinta e la tua schiena sbatte violentemente contro il muro. Nell’attimo dell’impatto riecheggia il tonfo sordo del respiro che viene a mancare. Bertrand ti afferra le braccia per non farti scappare, stringe così forte che senti i bicipiti spappolarsi tra le sue dita.
Messa all’angolo come un pugile stanco, senza possibilità di fuga, ti copre d’insulti. Le solite ingiurie, sconvenienti, oscene, senza eguali. Non puoi fare altro che incassare ogni suo colpo nella speranza che il gong di fine ripresa venga in tuo soccorso.
Ma il tempo sembra tendersi come un elastico, non riesci neanche a ricordare il motivo che ha scatenato l’inferno. Netta e precisa, invece, la memoria del suo scatto di rabbia, costante e immutabile nel tempo arriva sempre inaspettato. Una trasformazione improvvisa senza motivo apparente. Il viso che cambia espressione, che si contrae in una smorfia quasi irreale e che esclude, a priori, ogni altra possibile soluzione al conflitto, se non lo scontro.

«Mi fai male», sussurri piangendo. Lui per un attimo molla la presa, pensi che sia finita e fai per allontanarti. Invece, Bertrand decide di riconfermare la sua supremazia agguantando il polso e torcendoti il braccio. «Mi fai schifo», alita a denti stretti nel tuo orecchio.
Il tuo corpo, forzato a seguire la torsione, gira su se stesso e ti ritrovi di schiena con la guancia che affonda contro l’intonaco del muro. Odi l’accavallarsi dei nervi e lo sfrigolio dell’ulna e del radio che tentano di resistere alla rottura. Riesci a divincolarti con un gesto disperato. Non fuggi, però, resti lì ferma, a massaggiarti le braccia dolenti senza voltarti.
Le lacrime sgorgano da sole, senza che tu lo abbia deciso. Dalla tua bocca non esce una sola parola. Non hai nulla da dire perché, in questi casi, parlare non serve. Non è mai servito.
Ti giri lentamente e sei investita dal disprezzo del suo sguardo, freddo come la carrozzeria di un’auto in corsa. Intuisci quali sono le parole che si sforza di trattenere in gola solo guardando il suo viso paonazzo e le vene del collo gonfie al limite dello scoppio.
Alla vista delle tue lacrime lui risponde con uno sputo in faccia, prima di sferrare un colpo a pugno chiuso proprio all’altezza del tuo ombelico. Non ha mai sopportato vederti piangere.
Ti sfugge dalle labbra serrate un sospiro sofferto, un unico monosillabo che riassume tutta la tua umiliazione: «Uh!».
Trattieni il fiato cercando di non accasciarti al suolo, come invece vorresti tanto fare. Preghi che sia il tuo corpo a lasciarsi andare perché la paura non te lo permette.
Resti immobile, come pietrificata mentre lo vedi percorrere il lungo corridoio e uscire di casa sbattendo la porta.

In un attimo torna la calma. In lontananza solo il vociare dei bambini che giocano ignari in camera da letto. Ignari?
Ti appoggi al muro con la schiena e scivoli giù fino al pavimento, resti così, seduta per terra per qualche minuto a riprendere fiato. Con il dorso della mano ripulisci le guance dal suo sputo tenendo lo sguardo fisso alla porta d’ingresso. Chiusa. «Entrato e uscito nel giro di un’ora», pensi.
Ti senti abbandonata, lasciata lì, gettata via come un rifiuto, avvolta da un senso di solitudine che ti copre tutta come un velo.
Lui non rientra fino a sera tardi completamente ubriaco. Si mette a letto senza rivolgerti una parola o uno sguardo, come se non esistessi. Tu attendi il tempo necessario che si addormenti prima di deciderti di andare a dormire.

sabato 19 giugno 2010

senza senso (undicesima puntata)


NATHALIE

L’ansia ti cinge il capo come un’aureola. La testa ti duole così come il ventre, pensi di non potercela fare ad addormentarti stanotte. Gli eventi degli ultimi mesi stanno rivoltando molte delle tue certezze come fossero zolle di un campo da arare, quelle certezze che fino ad ora hai usato come stampelle a supporto del tuo spirito malandato. L’arrivo di tua sorella in città rischia di incrinare il sostegno che così intelligentemente hai adoperato per puntellare il muro divisorio tra il tuo mondo interiore e gli altri, in modo che non cedesse. Già indebolito dalla svolta improvvisa della storia con Bertrand temi che non possa reggere il colpo. Hai paura di ritrovarti scoperta, senza difese.

Te ne eri andata da casa con l’idea di non tornare più, di non rivedere più la tua famiglia. Tuo padre invece, con la sua morte, è riuscito a farti tornare e a ferirti un’ultima volta.
Hai pensato di poter fare la tua apparizione al funerale e poi andartene come eri venuta, ma non hai tenuto conto della reazione a catena che avresti causato. Non hai pensato al desiderio di sapere che avresti scatenato in tua madre e tua sorella, la voglia di conoscere il motivo di quella fuga che ti ha portato lontano. Non una lettera, non una telefonata in venti anni.
Se non fosse stato per l’incontro casuale con Marcel, tuo vecchio compagno di scuola, non avresti nemmeno saputo di tuo padre.

E di colpo quei venti anni ti pesano addosso come non era mai successo prima. Entrano prepotenti nella tua vita come se non li avessi mai vissuti prima. Come se tu avessi passato venti anni in apnea.
Ti ritrovi a boccheggiare senza fiato e questo bisogno improvviso di ossigeno ti fa girare la testa. La sensazione dell’aria che ti riempie i polmoni ti confonde, entra con forza dalla bocca e ti gonfia il petto quasi fino a farti scoppiare. E nel delirio notturno immagini milioni di bollicine di ossigeno che fluiscono nel sangue dai capillari, le senti lasciare gli alveoli e riempire le arterie provocandoti un formicolio in tutto il corpo. Nelle vene una cascata di acqua minerale.

Hai sete, ma non ti vuoi alzare. Ti rigiri nel letto senza essere in grado di prendere sonno. Il caldo rende le lenzuola molli e scivolose. Continui a cambiare posizione per cercare un punto nella superficie intorno a te che sia ancora fresco, ma il sudore ha reso umido perfino il materasso.
Cerchi di scacciare dalla mente l’immagine di tua sorella che ti saluta alla fermata dell’autobus, la mattina che hai deciso di andartene. La sua espressione grave a sottolineare la solennità di quel momento come se dentro di lei già sapesse che sarebbe stato un saluto definitivo.
«Chiama quando arrivi», ti ha detto lei mentre agitava la mano dal finestrino dell’auto per salutarti, convinta che il tuo viaggio si fermasse a Parigi. Senza immaginare che nella tasca esterna della grossa borsa rossa che tieni a tracolla hai un biglietto aereo di sola andata per New York.
E tu, con un debole cenno della testa, le mentisci, le rispondi di sì. Lasci che sia il tuo corpo a mentire per te, perché ti manca il coraggio di dichiarare il falso ad alta voce. Annuisci semplicemente, già sapendo che non avresti mai più chiamato.

Ora a distanza di tempo lotti con una sensazione di asfissia e non sei sicura che sia per il rimorso di essere scappata o per il caldo torrido che non da pace da giorni.