giovedì 15 maggio 2008

New York

Atterrando a Newark il panorama dal finestrino è sicuramente più bello, mentre l’aereo lentamente si abbassa appare Manhattan in tutto il suo splendore. Ma l’emozione che si prova al JFK è diversa. È lì che senti la potenza di New York una volta che atterri. Costeggiare il Queens e vedere dall’autostrada in lontananza il ponte di Verrazzano con lo “skyline” sullo sfondo che si leva nel tramonto sullo scintillio del fiume Hudson. Osservare gli aquiloni volteggiare sopra uno spaccato di verde e blu. Con questa romantica immagine ho stampato nella memoria il ricordo dell’arrivo. Non è però così romantica l’immagine che ho conservato del ritorno. Una decisione sofferta, uno schiaffo ricevuto dal futuro che non decollava. Un “per sempre” che c’è stato mai. Forse il bagliore della “carta verde” mi ha fatto vedere qualcosa che non c’era. Oppure era lì, ma non lo vedevo. Non lo capivo. Non ha funzionato come si pensava.

La voglia imprudente ci fa fare passi affrettati, senza prima avere controllato la compattezza del terreno rischi di trovarti con la faccia a terra. Promesse fatte e non mantenute, in un giardino materno che non ha regalato niente. Neanche un semplice sorriso.
Una frase mi riecheggiava nella mente mentre salivo sull’aereo che ci riportava in Italia: “Non vi preoccupate, siamo tutti qui per aiutarvi”. E noi ci abbiamo creduto. Sbagliando. Un boccone amaro che fa fatica ad andare giù, perché ci ha reso difficile apprezzare anche il lato bello, che era lì di fronte ai nostri occhi.

Nuova nell’essere genitrice, nuova nell’essere americana, nuova in una terra nuova. Ho avuto paura. Identificata con un’Italianità che non esiste più, ho perso la bussola e l’identità. Non mi ritrovavo più e l’entusiasmo si è spento. Vedere lui faticare a chiamarla ancora casa sua, sentirsi sempre ai margini, ci ha reso spettatori della luce che si spegne sulla strada che avremmo. Una lezione di vita che è costata cara, arduo da prendere anche solo come un consiglio prezioso.

Non accetterò mai il termine “fallimento” come spiegazione, forse “sopravvivenza” è più adatto. È stato come lasciare l’uomo della tua vita perché l’amore che senti è troppo travolgente e ti toglie il respiro. Sai che è la scelta giusta, ma ti torturi e trovi tutte le ragioni per non scacciare mai totalmente il senso di colpa, perché sai che nella solitudine della tua scelta è solo lui che ti tiene compagnia.

Ho riempito il cuore di immagini e le vedo e le rivedo come un film. Tanti pensieri da occupare tutta la vita, da tenere stretti e da passare a chi, troppo piccolo per capire, ha seguito ogni nostro passo. Il piccolo Leo ha spento la sua prima candelina, in quel “basement apartment” di Brooklyn sudando per il caldo. Ha rincorso i gabbiani sulle rive dell’oceano ed è salito sull’Empire State Building. Ha giocato con le decine di cuginetti, che la numerosa famiglia offriva, sui prati di Snug Harbour. Noi abbiamo deciso per lui, noi abbiamo cambiato il suo destino. È inutile, ma inevitabile, chiederci adesso cosa sarebbe successo se non fossimo tornati.


BOLLE DI SAPONE

Mille bolle di sapone si trastullano
leggere nell’aria,
trasportate da un alito di vento.
Sono libere di volare più degli uccelli,
mostrano i propri riflessi
più di un pavone.
Ora vagano senza alcuna meta
e poi svaniscono tra gli alberi
come le ultime note di una canzone.
Tu le osservi sospirando:
nascono e muoiono come un’illusione.

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