martedì 23 settembre 2008

Morte

La morte. Quella degli altri m’imbarazza, la mia mi turba.
I sentimenti che la riguardano mi mettono a disagio e sono disturbata da quella sensazione di vuoto. Non ho imparato ad elaborarla, per quel che può voler dire il verbo stesso elaborare in questo caso. Mi chiedo se poi è giusto che un’esperienza unica come la propria morte debba essere effettivamente “elaborata”. Si parla di razionalizzare l'angoscia della consapevolezza di dover morire. Chi ha detto che l'angoscia stessa sia un male? La paura è un’emozione di difesa, ci consiglia di essere prudenti. Perché mai l’annullamento totale e definitivo che coincide con la morte deve essere per forza razionalizzato?
Dice Epicuro: "Quando ci siamo noi, la morte non c'è, e quando c'è la morte, non ci siamo noi". È vero che è un'esperienza che si fa sempre per la prima e l'ultima volta, dal momento che la prima è anche, insieme, l'ultima. Ma proprio perché dall’esperienza ultima della propria morte non c’è ritorno, non ci trovo in essa nulla che debba essere razionalizzato. È solo una questione di accettarla come dato di fatto.

Prima della nostra, viviamo emotivamente la morte degli altri e tutto ciò che la riguarda m’intimidisce. In queste occasioni ho sempre mostrato tutta la mia incapacità a pormi come un’adulta di fronte ad una codificazione di comportamenti sociali richiesti dalla situazione. Io taccio. Non agisco. Il profondo dolore altrui m’intimidisce.
La morte è una circostanza che è sempre stata così presente nella mia vita familiare che, alla fine, l’abitudine a temerla mi ha congelato le emozioni. La continua attesa che potesse accadere l’ha resa soltanto un’indesiderata realtà quotidiana. E io sto lì immobile.

1 commento:

tiptop ha detto...

Io non ci penso mai... come dice Epicuro. Quando sarà sarà. Certo non mi espongo al rischio, per natura, ma vivo senza pensarci. Mi fa più paura il dolore e la sofferenza prima. Miei, e degli altri. E poi quelli degli altri che restano, mi impressiona tantissimo.