mercoledì 8 aprile 2009

Esercizio di calligrafia #2

È una sensazione familiare. Lo sconforto. Me la porto dietro da quando ero bambina. Perché il danno arriva da lontano.
Lei ciondola. Mia mamma. Si nasconde dietro occhiali scuri. Non fa amicizia con le altre mamme. All’uscita dell’asilo. Non la vedo mai chiacchierare.
Mi prende per mano. Mi strattona un po’. E mi porta a casa. È un’immagine chiara che ho. Distinta. Permanente.
Non so cosa mi ha impedito di percepire la mia vita in tutta la sua drammaticità. Difesa? Spirito di conservazione?
Immagini crude nella loro violenza. Sono lì nella mia memoria. Rielaborate dalla freddezza della ragione. Spogliate brutalmente della loro forza emotiva come per convincermi di non averle mai vissute. O vissute un po’ meno.
È la mia stessa vita che me le ripresenta, le immagini. Periodicamente. Occasioni infelici per soffermarmi su quella miseria.
La “normalità”, rappresentazione imposta. Esterna. Non era per me. Non era mia.
Non ho coscienza di quando sia stato il momento esatto. L’attimo in cui me ne sono resa conto. L’episodio.
Quel momento, però, c’è stato. E le cose hanno cominciato ad avere un aspetto differente. Una distorsione della percezione delle cose stesse. Un’immersione totale in un mondo sofferente e delirante. Lo stesso mondo che mi a seguito fino ad oggi.
Le ho relegate in una parte remota della memoria. Sensazioni inopportune. Ho provato a cancellarle.
Tornano sempre, quelle immagini. Invece. In modo forte e brutale.

I miei sensi all’erta. Al ritorno da scuola. Bambina. Sento ancora forte quel terrore che sale alle tempie. L’attesa.
Non sapere cosa mi aspetta dietro la porta. È casa, ma può anche non esserlo oggi.
Salutata l’ultima amica all’angolo. Spento l’ultimo sorriso. Guardo in su, verso il nostro balcone. La vedo la sua testa che mi cerca, agita il braccio. Mi saluta. La mamma.
È sempre lì, aspetta me, per riempire la sua solitudine casalinga. Ma quando non c’è. È peggio.
Passo il portone, salgo le scale. Mi giro verso il gabbiotto del portinaio. Non so se sorridere. Prima osservo cosa fa lui. So calcolare il peso del suo saluto.
È seduto e legge il giornale. Alza la testa, mi vede e sorride. Ma il sorriso è in ritardo, di un attimo solo. China leggermente la testa di lato. Ecco il segno. Capito.
Saluto alzando appena la mano. Non sorrido. Sento il suo sguardo che mi segue per il lungo corridoio. Compassione forse.
Sono costretta ad andare avanti. A tredici anni non si ha molta scelta. La cartella sulle spalle, ad un tratto, mi sembra troppo pesante. Mi trascino verso l’ascensore.
È già lì. Il tempo si allunga. Infinito fino al quarto piano.
Un piede sul pianerottolo e un odore acre m’investe. Un odore familiare. Che non si dimentica.
So già che la porta sarà chiusa a chiave. In questi casi lo è sempre.
Provo lo stesso. Una speranza vana, che non mi abbandona mai. Abbasso la maniglia e spingo. La porta non si apre e sono obbligata a suonare.
Lunghi momenti poi la chiave nella toppa gira. Uno scatto, due scatti, lentamente. Abbastanza per intuire come avrei passato i momenti futuri. La porta si apre. Esito. Entro.
E poi, quella sberla nell’anima. Quella sensazione infinita di non potercela fare.
Lei è lì in piedi. Davanti a me con la pretesa di nascondere il fatto di essere ubriaca fradicia. Ancora.
Giorno dopo giorno, anno dopo anno, lei è lì. Immobile e tragica. Tumefatta. Sempre lì come un copione sgualcito, senza un minimo d’improvvisazione.
Ed è sempre lì anche quando non c’è. La sua esistenza opaca e triste ha invaso la mia. Si è presa un spazio non suo. Una presenza pesante che mi porto dietro nel mio ruolo di figlia, di madre, di moglie. Di donna.
La mia esistenza sconvolta. Troppo presto. Il dramma di essere figlia di un’alcolista senza capire. Ho subito inconsapevole. Immagini che non potevo non vedere. Non ho potuto scegliere. E ho visto.
Bombardamento emotivo. Ho cercato poi la salvezza. Mi sono convinta di non aver visto.
Ma il male sedimenta. Si putrefà nel fondo dell’inconscio. Vorrei tirarlo fuori così com’era il male. Per avere qualcosa da maledire.
Vorrei avere ricordi da poter odiare. Ma li ho sostituiti strada facendo con quelli degli altri. Una negazione perpetua.

Adesso la vedo davanti a me. Nel letto di casa. Magra, logora da sembrare venti anni più vecchia. Sono torturata da emozioni contrastanti. Amore e odio.
La cannula dell’ossigeno, ormai parte integrante del suo ritratto. Quasi ne addolcisce i lineamenti. Scavati. Segnati dalla sofferenza.
Non è stata in grado di opporsi al proprio destino. Mancanza di forza. Di coraggio. Demotivata dalla vita. Ora ne paga le conseguenze. Vuole morire, dice. Non ce la fa più. Non posso biasimarla.


(post precedentemente pubblicato rivisto e corretto)

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