venerdì 21 gennaio 2011

Il mio amore è la luce dei tuoi occhi

(Photo - via Vitruvio ©Donatella D'Angelo)

Francesco la vedeva tutti i giorni sul tram, la mattina mentre andava a lavorare. Lei saliva la fermata dopo la sua; lo prendeva quasi al volo come fosse costantemente in ritardo. Saliva a testa bassa e senza nemmeno guardarsi intorno si dirigeva verso il fondo. Non si sedeva mai, nemmeno se c’era un posto libero; stava in piedi a guardare fuori dal finestrino. Scendeva solo qualche fermata dopo, a quella dell’Ospedale, di solito dall’uscita sul retro. Erano almeno due mesi che Francesco percorreva la stessa strada e lei c’era sempre, aveva immaginato che potesse lavorare in qualche reparto come infermiera o fosse addirittura una dottoressa, anche se sembrava troppo giovane. Avrebbe potuto essere studentessa in medicina, pensò.

Lei aveva un non so che di fragile nell’aspetto e Francesco talvolta fantasticava di poterla proteggere da qualche pericolo. I capelli biondi fini, portati il più delle volte pinzati sulla nuca, lasciavano libero il suo collo lungo e sottile. Indossava spesso degli abitini a fiori che le evidenziavano il seno piccolo e la vita stretta; e quando Francesco la immaginava, la pensava proprio vestita con uno di questi abitini estivi leggeri che la facevano sembrare una ragazzina spensierata.

Era in qualche modo attratto da lei, ma la sua timidezza lo inibiva nel fare una qualsiasi mossa che non fosse solo osservarla da lontano. Aveva pensato molte volte di avvicinarla, ma temeva di sembrare inopportuno e di fare la figura dell’invadente. Qualche volta ci aveva anche provato, ad avvicinarsi; si era alzato dal suo posto e si era messo in piedi di fianco a lei sperando di essere in qualche modo notato. Fino ad ora non sembrava che la ragazza si fosse mai accorta della sua costante presenza; anzi, a volte era così distratta che, forse, non si accorgeva della presenza di nessuno.

Una mattina il caso volle che, appena salita la ragazza, il tram frenò bruscamente per evitare un cane che stava attraversando la strada. Lei, che non aveva ancora raggiunto il suo solito posto sul retro, perse l’equilibrio e finì dritta nelle braccia di Francesco che si era appena alzato.

«Oh, mi scusi tanto» disse lei senza guardarlo direttamente negli occhi. «L’ho presa al volo, non è caduta», disse lui con un sorriso. Le stava ancora tenendo strette le braccia. Lei riprese la sua postura eretta ringraziando, «Sì, è stato bravo, ma ora mi può lasciare. Sono in piedi», aggiunse ricambiando il sorriso.
«Oh mamma, ha ragione. Mi scusi lei ora», rispose imbarazzato. E mentre Francesco le rispondeva, notò qualcosa di strano nel suo sguardo, come se davanti ai suoi occhi ci fosse un velo.
Arrivò la sua solita fermata, ma questa volta la ragazza, prima di scendere, si voltò e sorrise di nuovo a Francesco «Grazie ancora» gli disse con dolcezza.
Quel singolo attimo di vicinanza riuscì a infondere a Francesco una serenità infinita così che passò tutta la giornata trasognante.

Il giorno seguente lui l’aspettava; salito sul tram come al solito, non vedeva l’ora che salisse anche lei, ora aveva la scusa per salutarla, per parlarle; e si mise al finestrino per poterla vedere il prima possibile. Pioveva e il vetro del finestrino era appannato, così pensò di aprirlo e mettere fuori la testa. Passata la prima fermata, il tram faceva una larga curva prima di raggiungere quella successiva – la fermata dove la ragazza solitamente saliva – e Francesco, impaziente, si sporgeva in punta dei piedi per cercare riconoscerla tra la folla di persone accalcate sotto la pensilina e quelle con gli ombrelli aperti. Salirono tutte, una per una. Ma lei non c’era.

La delusione di Francesco fu enorme. Lei non aveva mai perso il tram in due mesi. Lui guardò l’orologio domandandosi se fosse troppo tardi, o magari troppo presto, ma constatò che era esattamente la stessa ora di sempre. Si domandò cosa poteva essere successo e decise di continuare a piedi per smaltire un po’ della tristezza che gli si stava accumulando dentro. Scese dal tram alla fermata seguente e cominciò a camminare verso il suo studio senza curarsi della pioggia che lo stava inzuppando dalla testa ai piedi.

Francesco era un pittore. Aveva conseguito la laurea in architettura per fare contenti i suoi genitori; nonostante ciò, finito l’università, non aveva mai cercato un lavoro da architetto, aveva preferito continuare a fare ciò che più amava: dipingere. Era bravo e anche molto apprezzato nell’ambiente; aveva già esposto i propri lavori a molte mostre collettive e anche tenuto con successo delle mostre personali. Aveva cominciato così per caso, facendo un laboratorio di acquarello alle scuole medie, e poi si era appassionato. Ora divideva un open space in centro città con, un suo amico scultore, e stava preparando una nuova serie di quadri per una mostra che si sarebbe tenuta di lì a breve.

Arrivò in studio completamente fradicio, il suo amico non c’era ancora e lui entrò lasciando pozzanghere d’acqua in terra ad ogni passo. Si sedette su una sedia e rimase lì seduto immobile a pensare alla ragazza del tram. Gli venne un attacco di malinconia al pensiero di non vederla mai più.
Non aveva nemmeno uno straccio per asciugarsi e nessun vestito per cambiarsi. Quando cominciò a sentire i brividi di freddo per l’aria che gli penetrava attraverso i vestiti bagnati, decise di tornare verso casa. Non era in vena di lavorare oggi.
Lasciò un messaggio scritto su un pezzo di giornale all’amico dicendo che lo avrebbe trovato a casa e si chiuse la porta alle spalle.
Stava smettendo di piovere e quindi pensò di ritornare a casa a piedi; camminare gli avrebbe fatto bene. Arrivato all’altezza dell’ospedale intravide una figura familiare che stava entrando in un bar. Era lei, ne era sicuro. Decise di seguirla e si avviò verso lo stesso bar. Entrando la vide seduta a un tavolino in fondo alla stanza che stava sorseggiando un cappuccino. Era proprio lei.

Chiuse gli occhi, tirò un grosso respiro e si disse «Ora o mai più». Cercando di raccogliere tutto coraggio che aveva si avvicinò al tavolo. Lei aveva la testa bassa e non lo vide arrivare.
«Sbaglio o ci siamo già visti?», disse Francesco, pensando che una frase più stupida di quella non la poteva dire. Lei alzò lo sguardo e sorrise, lo riconobbe subito: «Sei il ragazzo del tram!», gli rispose.
«Posso sedermi?», chiese lui contento che lo avesse riconosciuto subito. «Ma certo, accomodati.», disse lei. Francesco ordinò un bicchiere d’acqua senza toglierle gli occhi di dosso.
«Io sono Chiara, piacere. E tu?» aggiunse poi lei. «Francesco», replicò lui.
Non poteva credere che stesse succedendo. Era lì, seduto con lei a chiacchierare del più e del meno come se si conoscessero da sempre.
Parlarono per quasi due ore, Francesco le raccontò del suo lavoro e dei suoi progetti futuri; poi a un certo punto le chiese se, per caso, lei lavorasse in ospedale. A quella domanda Chiara s’incupì e restò in silenzio.
«Chiedo perdono, sono troppo invadente» si scusò lui.
«No, no. Non sei tu. È che è difficile spiegare».
«Non devi, non ti preoccupare» la rassicurò lui sentendosi in imbarazzo e pensando a come cambiare argomento.
«No, ma … forse è meglio che te lo dica subito», considerò Chiara, «sai, nel caso ci incontrassimo di nuovo» disse poi accennando a un lieve sorriso.

Francesco capì che la cosa era seria e in attesa che lei esternasse il suo problema si tirò indietro sulla sedia sedendosi con la schiena ben appoggiata allo schienale e prendendo una posizione d’ascolto composta.
Dopo ancora qualche secondo di esitazione Chiara disse: «Ho una patologia degenerativa della retina», buttò la frase fuori dalla bocca tutta di un fiato e poi continuò. «Sto progressivamente perdendo la vista».
Francesco restò in silenzio, sapeva che qualsiasi parola in quel momento sarebbe stata inutile. Le sorrise dolcemente poi, esitando un poco, allungò la mano verso la sua; anche se non sapeva come Chiara avrebbe potuto reagire a un gesto così intimo fatto da un estraneo.
Lei si lasciò prendere la mano e sorrise. Francesco ne fu felice. In quel momento si sentiva l’uomo più fortunato del mondo. Lui e la sua “ragazza del tram”, mano nella mano.
«Se ti chiedessi di uscire con me una sera, verresti?», le chiese d’un tratto.
«Sì», rispose Chiara.

Uscirono spesso insieme nelle settimane seguenti e Francesco venne a sapere che Chiara era una pianista, che aveva girato il mondo per fare concerti e che ora si era dovuta fermare a causa della sua malattia. Aveva perso l’uso dell’occhio destro quasi completamente e in questo periodo si stava sottoponendo a cure per cercare di rallentare il processo degenerativo per l’altro occhio. Le restava l’insegnamento che amava moltissimo e che le dava un senso di utilità.
Francesco si rese conto in fretta dei disagi che la perdita della vista le procurava. Faticava a fare le piccole cose, ma cercava sempre in ogni caso di sbrigarsela da sola senza chiedere aiuto. Lui scoprì che era una donna tutt’altro che fragile, al contrario di quello che aveva immaginato prima di conoscerla.

Chiara amava l’opera e quell’estate, per festeggiare il loro primo anno insieme, lui acquistò i biglietti per andare a vedere Il Rigoletto all’Arena di Verona. Era una serata bellissima, nel cielo terso brillavano milioni di stelle. Francesco pensò che fosse il momento giusto e all’uscita dello spettacolo prese a braccetto Chiara: «Andiamo a fare una passeggiata, ti mostro il balcone di Romeo e Giulietta».
Arrivati nella piccola piazza, sotto il balcone Francesco l’abbracciò: «In realtà ti ho portato qui per dirti una cosa», le sussurrò lui nell’orecchio.
Lei sorrise in modo leggermente canzonatorio: «Non vorrai mica chiedermi di sposarti proprio sotto il Balcone di Giulietta?», replicò.
Francesco scoppiò a ridere: «Invece sì, e ho persino comprato un anello», rispose mentre infilava la mano in tasca. Tirò fuori un piccolo scatolino rosso e glielo mostrò cercando di restare serio.
«Vuoi tu, Chiara Fasano, diventare mia moglie nel bene e nel male, per i secoli dei secoli?»
«Ma sei serio?», gli chiese lei un po’ sorpresa.
«Certo che sono serio!», affermò Francesco senza smettere di sorridere. Chiara si adombrò e restò in silenzio, dopo qualche secondo gli chiese: «in salute e in malattia?»
Lui capì cosa stava pensando, e la strinse a sé. «Certo sciocchina, mi prenderò cura di te!».
Chiara era commossa e le stava venendo da piangere, appoggiò il viso sul suo petto per cercare di nascondere le lacrime che le stavano sgorgando per la gioia. Francesco se ne accorse lo stesso, ma fece finta di niente.

Chiara, qualche settimana dopo la proposta di matrimonio, lasciò il suo monolocale si trasferì a casa di Francesco, la vista era peggiorata ulteriormente e cominciava a fare veramente molta fatica nello svolgere semplici azioni quotidiane come, ad esempio, prepararsi la colazione alla mattina. Francesco non la voleva lasciare sola. Nonostante lei avesse un sostegno psicologico, la progressiva perdita d’indipendenza, la buttava tremendamente giù. L’idea di diventare un peso per gli altri la faceva stare molto male, la rendeva nervosa. Negli ultimi tempi era diventata intrattabile.

Francesco, che l’amava teneramente, portava pazienza. Capiva quanto potesse essere difficile per lei e cercava di aiutarla in modo discreto, senza essere troppo invadente. Aveva la fortuna di essere un artista, di lavorare per conto proprio, e questo gli dava la possibilità di trovare il tempo libero necessario per potersi prendere cura di lei.
Chiara continuò ad avere studenti di pianoforte, Francesco le aveva predisposto una stanza per la musica senza ostacoli: solo il pianoforte nel centro, che dava verso le grandi vetrate sul retro. Lui sapeva che, nonostante la sua cecità che avanzava velocemente, Chiara sarebbe stata ancora in grado di percepire le luci e le ombre; per questo ci teneva che la sua stanza fosse la più luminosa della casa.
Lui le faceva trovare sempre tutto pronto, l’aiutava a scegliere i vestiti alla mattina, a organizzarsi la giornata e solo quando sapeva che lei era tranquilla andava nel suo studio a lavorare per qualche ora.

Una mattina Chiara si svegliò con un umore peggiore del solito, sì alzò dal letto e si avviò a tastoni verso il bagno.
Francesco le aveva appena disposto i suoi abiti ai piedi del letto, quando gli parve di sentire dei singhiozzi provenire da dietro la porta. Allora bussò, ma non ottenne risposta, sentì solo tirare su con il naso.
«Chiara?», chiese «Stai bene?».
«No che non sto bene», rispose lei con un filo di voce.
«Posso entrare?», domandò Francesco, ma di fatto aveva già aperto la porta. Lei era seduta sul bordo della vasca da bagno, con la faccia tra le mani. «Stamattina ho aperto gli occhi», cominciò a dire poi si fermò.
«Sì?», incalzò lui che non sopportava di vederla soffrire.
«Non ho notato alcuna differenza tra il buio e la luce». Chiara sapeva che sarebbe arrivato questo momento, lo sapeva anche lui e la prese tra le braccia. «Amore, ci sono qui io per te».
«Ecco, anche di quello ti volevo parlare», aggiunse Chiara, «vorrei smettere di essere un peso per te».
«Ma tu non sei un peso», replicò prontamente Francesco, ed era proprio quello che pensava. Non aveva mai sentito il prendersi cura di Chiara come un peso, e ora non capiva esattamente cosa lei gli volesse dire.
«Vorrei non dipendere più da qualcuno», spiegò lei, dopo essersi asciugata le lacrime.
«Non capisco cosa vuoi fare» le disse Francesco infine, un po’ preoccupato perché non l’aveva mai vista in quello stato, «Vuoi andartene?»
«Ma no, Francesco. Non potrei vivere senza di te, lo sai anche tu», chiarì lei. «Non lo so cosa vorrei. Vorrei non sentirmi così, ecco».
Francesco la prese per la mano e la portò sul letto dove cominciò ad accarezzarla per rassicurarla: «ti amo da morire», le sussurrò in un orecchio.

I giorni passavano velocemente e Francesco osservava la sua amata rassegnarsi alla sua condizione. A un certo punto, come avesse avuto un’illuminazione, si rese conto di ciò che Chiara desiderava e che non sapeva come esprimere. Decise che da quel momento, invece di fare le cose al suo posto, avrebbe provato a insegnarle come farle da sola.
Iniziò prendendole le mani e guidandogliele nell’armadio accarezzando i vestiti, in modo che lei potesse imparare a usare il tatto per riconoscere i vestiti. «Questo è quello rosso lungo, senti la seta?», le diceva tenendo anche lui gli occhi chiusi, in modo da provare le sue stesse sensazioni.
Lo stesso lo fece con il frigorifero, indicando cosa ci fosse ripiano per ripiano. E tutto il resto della casa. «Ti prometto di essere sempre molto ordinato e di rimettere ogni cosa al suo posto», disse Francesco ridendo. «Già, non fare il solito dispettoso», rise lei tirandolo a sé per la manica.
Erano riusciti a trasformarlo in un gioco e il più delle volte finivano la “lezione” facendo l’amore e ridendo come ragazzini.
A Chiara finalmente tornò il buon umore e Francesco decise che era arrivato il momento per lei di affrontare il mondo esterno e porgendole il cappotto le sussurrò: «Il mio amore è la luce dei tuoi occhi».


Racconto in pubblicazione sul settimanale Vera (n° 4 di gennaio, anno 2011)