martedì 28 luglio 2009

UN TRAM CHE SI CHIAMA MALINCONIA (Il titolo non è mio, che questo sia chiaro)


Pubblicato sul settimanale Vera n° 6 del 28/07/09

Trovarono solo un posto a sedere. La zingara più giovane prese il bambino dalle mani della zingara più anziana e si sedette lei. Con un gesto disinvolto si scoprì un seno e lo porse al piccolo che si attaccò con gusto.
«Non può avere più di quattordici anni», pensò Eugenio.
La zingara anziana proseguì tra la gente e si appoggiò ad un finestrino. Guardava fuori.
Il piccolo intanto poppava di gusto guardando il viso della mamma. Anche Eugenio lo guardava. Anzi lo osservava attentamente.
I capelli lunghi e lisci, raccolti con due pettinini sulla nuca, lasciavano scoperto un bel collo lungo. La pelle scura aveva delle macchie più chiare in prossimità dello sterno che proseguivano anche sul seno che lei sorreggeva con una mano come se non fosse stata su un tram pieno di gente.
Con la mano libera lei afferrò la manina del bambino e la baciò facendogli un sorriso che le illuminò il volto.
La zingara più anziana fece un secco cenno con il capo, la ragazza si alzò di scatto staccando il bimbo, ormai addormentato, dal seno e tutte due scesero in fretta e furia.
Eugenio rimase lì, disorientato, a fissare il posto vuoto come se la zingara non si fosse mai alzata, fino a quando una corpulenta signora non prese il posto della sua visione risvegliandolo di botto.
Dopo due fermate arrivò a destinazione. Scese e nel giro della breve passeggiata per raggiungere il suo studio il pensiero della zingara si assopì.
La sua giornata proseguì lenta, scattò la foto che l’assistente aveva preparato sul set prima del suo arrivo. Fece le solite telefonate, le solite fatture che sarebbero state pagate dopo mesi. Infine, si assicurò che l’assistente fosse libero anche l’indomani per preparare il set prima dl suo arrivo e uscì tranquillo dallo studio per tornare a casa.
Si avviò alla fermata del tram. Una volta seduto cominciò a fissare le persone davanti a sé, una signora borghese che litigava con la figlia, adolescente ribelle, un uomo anziano che leggeva il giornale del giorno prima, degli studenti che urlavano e ridevano. Continuò per un po’ ad osservare i visi di chi di saliva e di chi scendeva. Li osservava uno per uno. Si rese conto solo dopo alcune fermate che ne stava cercando uno in particolare.

Una volta scese dal tram, la zingara anziana si voltò per vedere se la ragazza l’avesse seguita. La vide qualche passo indietro con il bambino addormentato in braccio. Tornò indietro e la strattonò per il gomito. La ragazza fece un gesto con la mano per dire alla vecchia di camminare. Quindi la zingara riprese la strada a passo lungo. Una volta arrivata all’ingresso del metrò si voltò e si mise ad aspettare.
La ragazza arrivò dopo qualche momento con un certo affanno, il bambino nel frattempo si era svegliato e si guardava in giro curioso.
La donna anziana pronunciò qualche concitata parola nella loro lingua, poi quella più giovane, rispondendo solo con un cenno del capo, scese la scale. La vecchia l’osservò scendere, poi sparì velocemente tra la folla del mercato.
La ragazza s’intrufolò tra la gente e passò veloce i tornelli senza pagare il biglietto. Trovò un angolo di passaggio, tra le scale mobili e una colonna, e si sedette per terra con il bimbo in braccio. Tirò fuori dalla tasca dell’ampia gonna un bicchiere di carta tutto spiegazzato e se lo mise davanti tra gli sguardi distratti dei passanti.
Non alzava lo sguardo e da quella posizione poteva solo vedere passare i piedi della gente, le scarpe da uomo, le caviglie nude delle donne, i sandali dei bambini. Nessuno che si fermasse per più dell’attimo necessario a dare un’occhiata di disprezzo.
Passati solo alcuni minuti la ragazza ripeté lo stesso naturale gesto che fece sul tram offrendo al bambino l’altro seno. La mano lo sosteneva mentre il piccolo afferrava con le labbra il capezzolo.

Eugenio infilò la chiave nella toppa, la girò lentamente. La porta si aprì in un ambiente grande e luminoso, arredato con gusto. Da quando la moglie lo aveva lasciato provava un senso di vuoto ogni volta che entrava in casa. Quel pomeriggio il disagio era più forte del solito.
Prese una bottiglia birra dal frigorifero, la stappò e andò a sedersi sul divano. Provò a leggere, ma era troppo irrequieto, non riusciva a concentrasi sulle parole. La terza volta che rilesse lo stesso paragrafo si disse ad alta voce che era meglio lasciar perdere. Abbandonò il libro sul tavolino senza nemmeno preoccuparsi del segno.
C’era qualcosa che lo turbava. Pensò che una doccia forse lo avrebbe calmato e si diresse verso la camera da letto. Si spogliò e nello specchio vide un uomo invecchiato e stanco, deluso dalla vita.
Aveva festeggiato da poco il suo cinquantesimo compleanno da solo, una birra e una pizza quattro stagioni alla pizzeria sottocasa. Non era così che se l’era immaginato anni prima, quando si sentiva un uomo arrivato.
Ora riflesso davanti a lui c’era un uomo che avevo perso qualcosa per strada, qualcosa impossibile da ritrovare.
L’incidente in moto lo aveva lasciato con grosse cicatrici sul corpo nel cuore. Dopo mesi trascorsi tra la vita e la morte lui ce l’aveva fatta. Sua figlia Chiara, che viaggiava con lui, invece non era sopravvissuta all’impatto. «Non ha sofferto», gli avevano assicurato i dottori.
Non riusciva a perdonarsi di essere ancora vivo senza di lei, sua amatissima figlia.
Nemmeno sua moglie era riuscito a perdonarlo. Il loro rapporto non aveva retto alla tragedia. I sensi di colpa e le accuse, anche se inconsapevoli, avevano minato la loro relazione fino al punto di allontanarli completamente l’uno dall’altra.
Dopo quasi un anno lei lo aveva lasciato, non si sono più sentiti da allora.

La giovane zingara restava pazientemente seduta nello stesso angolo, senza muoversi, con il bambino sempre in braccio. Ora lui dormiva tranquillo, rassicurato dalle carezze che la mamma gli dava di tanto in tanto.
Occasionalmente qualche moneta centrava il bicchiere, ma per lo più i passanti la ignoravano. Lei non sembrava preoccuparsene. Non alzava lo sguardo, non supplicava, non chiedeva nulla. Restava seduta composta con il suo piccolo fagotto in braccio e un leggero sorriso sulle labbra. Passò così più di un’ora.
Ad un certo punto, con la coda dell’occhio, la ragazza vide la zingara anziana tra la folla venire verso di lei. Sistemò il piccolo nel largo tessuto che aveva al collo a mo’ di marsupio e si alzò in piedi. Era ora.
La vecchia raccolse il bicchiere di carta e prese le poche monete che c’erano dentro, mentre la ragazza ne tirava fuori altre dalle tasche della gonna fiorata e gliele consegnava senza parlare. Ripiegò il bicchiere di carta, se lo infilò in tasca e seguì la vecchia sulla carrozza del metrò.
La gente sembrava fare un vuoto intorno alle due zingare, che restarono in piedi vicino alle porte senza scambiarsi nemmeno una parola. La ragazza ammirava la testa del suo piccolo addormentato sbucare dai tessuti vivaci, mentre la zingara più anziana si guardava intorno senza soffermarsi su nulla di preciso.
Uno strattone al braccio della ragazza, scesero di corsa dalla carrozza e sparirono tra la folla.

Eugenio decise di coricarsi nonostante fosse ancora chiaro fuori. S’infilò nudo tra le lenzuola di un letto che sembrava troppo grande per lui. Chiuse gli occhi e lì tra le palpebre serrate ricomparve il viso della giovane zingara. Lei lo guardava e gli sorrideva. Fu l’ultimo pensiero della notte.
Il mattino dopo sì vestì in fretta e uscì di casa senza prendere nemmeno un caffé. Si avviò verso la fermata del tram. Attese in piedi guardandosi intorno. Non sapeva bene che fare.
Il tram frenò davanti a lui con un forte stridio e aprì le porte. Eugenio ci guardò dentro, ma non salì. Aspettò quello dopo e quello dopo ancora ed infine montò sul quarto. Trovò un posto a sedere da cui potesse vedere bene le porte e si sistemò. Il tram ripartì.
Con qualche scossone percorse tutto il viale alberato e ad ogni fermata Eugenio fissava la gente salire. Osservava i visi di tutte le ragazze cercando di sovrapporre i lineamenti della giovane zingara.
Arrivò la sua fermata, ma decise di non scendere. Il tram chiuse le porte e ripartì. Dopo una decina di minuti arrivarono al capolinea, tutta la gente scese e lui restò seduto, da solo. Il conducente uscì dalla sua cabina gli lanciò uno sguardo indicando con una mano l’uscita.
Eugenio gli rispose con un cenno per dire che aveva capito, ma non si mosse. Il conducente allora si accese la sigaretta che aveva tra le mani e scese anche lui.
Dopo qualche minuto il tram ripartì e con esso anche la ricerca di Eugenio.

Le due zingare erano in giro già dal mattino presto. La vecchia portava in braccio il bambino e la ragazza chiedeva l’elemosina. Tendeva la mano ai passanti con gesti un po’ insistenti, senza sorridere. Le due donne andavano su e giù per le vie del centro, senza meta.

Eugenio si ritrovò di nuovo alla fermata di casa sua. Scese di scatto, attraversò la strada e si mise ad aspettare l’altro in direzione opposta. Il conducente lo notò e gli sorrise. Eugenio ricambiò il sorriso senza aver capito il perché. «La devo trovare», si disse mentre arrivava l’altro tram e salì.

Finito il giro in centro le due zingare presero il tram. Eugenio era lì seduto e le vide salire. Il suo cuore sembrò fermarsi. Il bambino era in braccio alla donna più anziana che si sistemò su un sedile vicino alle porte. La giovane zingara, invece restò in piedi accanto a lei a guardare fuori dal finestrino. Semi nascosta dalla folla, lui l’intravedeva di schiena, con i capelli neri raccolti. La gonna colorata lunga fino ai piedi che nascondeva un corpo esile.
La vecchia, ad un tratto passò il bambino alla mamma e si alzò. Eugenio capì che intendevano scendere e si alzò anche lui. Decise di seguirle. Quando le porte si aprirono scesero tutti e tre dal tram.
La zingara anziana camminava veloce, la ragazza giovane seguiva con suo figlio in braccio. Dopo qualche minuto arrivarono alla fermata della metropolitana, la stessa del giorno prima. Senza dirsi nulla si separarono e la vecchia sparì allontanandosi velocemente.
Eugenio seguì la ragazza giù dalle scale, la vide saltare i tornelli e scendere verso la banchina. Lui timbrò il suo biglietto e scese a sua volta. La trovò già seduta per terra con il bicchiere dell’elemosina davanti. La superò e andò a sedersi sulla panchina poco più avanti.
Lei stava offrendo il seno al suo piccolo e lui notò la grazia nel suo gesto, la stessa grazia che lo aveva tanto colpito il giorno prima sul tram.
Quando la vide smettere di allattare, Eugenio prese coraggio e si alzò. Arrivò davanti a lei e le si accovacciò di fianco.
«puoi venire con me, per favore?», le chiese.
Lei alzò la testa e nel suo sguardo c’era paura. Strinse a sé il piccolo.
«Scusa, non volevo spaventarti», continuò lui «Voglio solo parlarti».
Eugenio sorridendo le allungò una mano per aiutarla ad alzarsi. La ragazza si guardò in giro, come per capire se la vecchia sarebbe tornata. Poi, dopo un attimo di esitazione, afferrò la sua mano e si tirò in piedi.
Lei lo seguì in silenzio, salirono le scale ed entrarono nel primo bar che trovarono. Lui la fece accomodare ad un tavolino e le ordinò un cappuccio. La ragazza gli sorrise e non disse nulla.
Sorrise anche Eugenio e la osservò sorseggiare piano dalla tazza mentre teneva teneramente in braccio il suo piccolo.
«Ho perso mia figlia due anni fa, è morta in un incidente in moto. Guidavo io», disse lui ad un tratto. «Aveva più o meno la tua età». Lei alzò lo sguardo verso di lui con fare interrogativo senza rispondere.
«Capisci quello che dico?», le chiese Eugenio.
Lei rispose di sì con la testa. Poi dopo qualche secondo si toccò le labbra con il dito indice, alzò le spalle e scosse il capo.
Lui la guardò sorpreso per un attimo. «Non parli?», le domandò.
Lei scosse il capo di nuovo, era muta. Eugenio non se lo aspettava, dovette prendere fiato per poter proseguire.
«Ti ho visto ieri sul tram», continuò Eugenio «Non sono riuscito a smettere di pensarti».
Si fermò mentre lei lo scrutava accuratamente in attesa che continuasse.
«La tua grazia, il tuo modo di muoverti», continuò a bassa voce, come se si vergognasse. «Ho voluto cercarti per dirtelo».
La zingara non staccava gli occhi da lui, dal suo sguardo non si capiva veramente cosa stesse pensando, però sorrideva. E attendeva.
«Mi manca molto, mia figlia», sospirò Eugenio mentre scriveva il suo indirizzo sul retro dello scontrino. «Vorrei che tu venissi a trovarmi ogni tanto». Le mise il foglietto nella mano che lei teneva sul tavolo.
Lei abbassò lo sguardo, prese il foglietto, se lo infilò nella tasca della gonna e si alzò.
Avvolta nella sua innocenza bambina gli sorrise di nuovo prima di uscire dal bar con il figlio sempre stretto a sé. Eugenio non la vide mai più.

IO NON TI AMO (liberamente ispirato ad una conversazione mai avvenuta)

Allora a letto con me non ci vieni più?
No, direi di no.
No?
Te lo avevo già detto.
Sì, lo so, ma sai …
Sai, cosa?
Sai, che delusione.
Delusione?
Sì, delusione. Non ti fidi di me.
Che c’entra la fiducia. Non me la sento, tutto qui.
Non ti piaccio?
Ma no, non è quello. Lo sai.
No, che non lo so.
E che poi diventa un’altra cosa.
Un’altra cosa, cosa? Ti ho detto che non m’innamoro.
Eh!
Ti ho promesso niente problemi.
Continuare per me è già un problema.
Appunto, è perché non ti fidi. Tu non t’innamori.
Ma guarda questa, che fantasia. Certo che m’innamoro!
Non t’innamori di me.
No, infatti. Di te, no! Quindi è inutile continuare.
Ma continuare cosa, che non c’è nulla? Io parlavo di sesso.
Ci siamo già stati a letto insieme. Quello volevi e quello hai avuto.
Certo, poi tu hai voluto venirci una seconda volta a letto con me.
Ho fatto male?
No, no. Non hai fatto male.
Ecco, ora basta.
Pensavo fossi più frivolo.
Frivolo?
Sì, leggero.
E perché dovrei essere leggero?
Per come ami le donne.
E secondo te come le amo, io, le donne?
Le prendi e le lasci, tu, le donne.
Ah! Le prendo e le lascio, bella idea ti sei fatta di me.
Perché, non è così?
No, non è così. Ma lasciamo perdere, và!
Sì, sì. Lasciamo perdere. È più semplice, no?
Ma insomma basta, non so nemmeno perché son qui a giustificarmi con te!
Infatti, sei tu quello che si fa un sacco di problemi.
Ah, io? Non dovrei?
No! Se io sparissi all'improvviso, tu non ti ricorderesti nemmeno chi sono.
E con questo che cosa vuoi dire? Che sono uno stronzo?
Ah no. Non mi permetterei mai!
E allora?
E allora?
Eh! Allora! Non capisco dove vuoi arrivare?
Non pensare me come a una donna.
La fai facile, tu. Tu sei donna!
Sì, ma se mi pensi donna hai paura.
Sai, non capisco cosa vuoi da me?
Nulla. L’amore esiste a vari livelli. Per me l’amore è il piacere di passare un po’ tempo insieme, così semplicemente. Niente di più.
Che poi io vorrei innamorarmi.
Ne sono sicura, sei pieno d’amore. Se imparassi a lasciarti andare faresti anche grandi conquiste.
Dici?
Sì! Allora a letto con me non ci vieni più?
















A man and a woman - Momix

venerdì 17 luglio 2009

è come allargare le braccia

«È come allargare le braccia e sentire lo spazio intorno, prova!»
Alfio tirò su le braccia all’altezza delle spalle e sorrise.
«Dai su, muovile», gli disse Olmo.
«Come?»
«Su e giù, come le ali di un uccello».
Alfio ubbidì. Tirò su e giù le braccia per un paio di volte, poi le riportò lungo i fianchi.
Anche Olmo fece lo stesso movimento.
«Si può fare di più» aggiunse dopo una pausa allungandosi in punta dei piedi con le braccia distese sopra la testa, come per raggiungere il cielo.
«vedi Alfio, è tutto intorno!», ripeté stirandosi.
«Aria», esclamò Alfio urlando come fosse stata la risposta giusta a un quiz a premi.
«Spazio», si sentì di puntualizzare Olmo. «Lo senti con il corpo, lo spazio intorno”.
«Capisco», rispose un po’ interdetto Alfio guardando Olmo abbracciare il vuoto davanti a sé.
«Sei mai stato in prigione?»
«No, mai».
«Allora non puoi capire».
«Nel senso, che posso immaginare», si corresse prontamente Alfio
«Ecco sì, allora immagina. Immagina un muro tra me e te».
«Se ci fosse un muro, non ti vedrei». Suggerì Alfio
«Non sapresti nemmeno se ci sono, al di là del muro», disse Olmo sorridendo.
«No, infatti. Potrei immaginarlo, però».
«Ma non ne avresti la certezza», puntualizzò Olmo
«No, ma se tu mi dici che ci sei, io mi fido». Sorrise.
Olmo lo fissò serio e Alfio smise di sorridere.
Restarono a guardarsi fissi per qualche secondo, poi scoppiarono ambedue in una fragorosa risata.
«Ecco, hai fatto cascare il muro»! Disse Olmo senza smettere di ridere.
«Infatti, ora ti vedo». Rispose Alfio.
«Anch’io ti vedo. E ti tocco anche», continuò Olmo dando una pacca sulla spalla di Alfio, così forte da farlo traballare.
«Su, Olmo. Facciamoci una birra».
«Alfio dai, allarga le braccia …»















Foto: Barboni – di Pippo Delbono