sabato 19 dicembre 2009

L'ultima corsa


Ti asciughi le gocce di sudore sulla fronte con la manica della felpa. In realtà vorresti cancellare i pensieri che si affollano nella tua testa, un groviglio di frasi e immagini che ti provocano un dolore insopportabile. Le tempie ti pulsano, a ogni passo un colpo di scalpello scava in profondità. Hai l'impressione che il cervello possa esplodere fuori dalle orbite degli occhi, ma non ti vuoi fermare. Ti piace spingere oltre i tuoi limiti e sentire il fiato corto. È già quasi un’ora che corri e non ce la fai più. Fa freddo e il tuo sudore caldo si congela sulla schiena facendoti venire i brividi. I tuoi seni, costretti nel reggiseno a corsetto, sono doloranti. Vorresti poterli liberare e non sentire più lo sfregamento del tessuto sui capezzoli indolenziti.

Ti torna in mente la telefonata che ti ha svegliato. Risenti quella voce mai sentita prima che ti annuncia in un soffio che la tua vita sarebbe cambiata drasticamente.

Cerchi di allontanare il ricordo di quel momento, cacciando indietro le lacrime che si scontrano con la tua necessità di negare il dolore. Una lotta impari, fatta di singhiozzi sordi ributtati in gola al ritmo cadenzato delle tue gambe. Un passo dopo l'altro, correndo senti i muscoli della coscia indurirsi, li guardi lavorare. Li vedi contrarsi e distendersi al tempo del tuo passo in allungo. Hai paura di rallentare, non vuoi che la disperazione ti raggiunga, ora che ti sembra di averla lasciata indietro.

«Ero a conoscenza di lei e mio padre, mi è sembrato giusto avvisarla», dice la voce con il suono nasale di chi ha pianto troppo. Basta quella frase e tu già capisci. «Ero», dice. Uno spintone nel passato. Perché in quel preciso momento il presente è diventato passato. Lasci scivolare via tutte le parole successive, non le ascolti più. Tutto ciò che esce dal telefono è solo acqua sporca di sangue. L’incidente, la corsa in ospedale, la sua morte.

«Mi dispiace», aggiunge la voce un attimo prima che tu interrompa la comunicazione. Le braccia ti sembrano di marmo mentre riponi il cellulare nella tasca dell’ampio pigiama. Rimani paralizzata nel tuo dolore, con la voglia di urlare impossibile da soddisfare. Tuo marito e i tuoi figli dormono, inconsapevoli della sventura che ti ha colpito. Ignari della crepa nel tuo cuore, che sarà per sempre invisibile ai loro occhi.

Guardi l’orologio a muro, sono le cinque e mezza. Impossibile tornare a dormire, il panico ti costringe all'immobilità. Devi reagire e decidi di uscire. Non sai dove andare, sai solo che non puoi restare in casa, ti manca l’aria. Levi il pigiama e indossi la tuta. Infili per ultime le tue vecchie scarpe da “running” senza slacciarle. Ti calzano alla perfezione, sono ormai modellate sul tuo piede. Ti concedono un breve attimo di leggerezza prima che lo sconforto faccia la sua comparsa. Chiudi delicatamente la porta alle tue spalle, facendo attenzione a non destare la tua angoscia. Scegli di evitare l’ascensore e prendi le scale come se fosse un giorno qualsiasi. Così, mentre scendi, puoi immaginare che non sia veramente successo.

Un gradino alla volta ti ritrovi all'aperto, è ancora buio. Appena il piede prende contatto con il terreno cominci a correre, sfiori l’asfalto con la parte esterna del tallone e poi sposti il peso in avanti. Un primo passo, poi un altro, poi un altro ancora e sei fuori dal cortile. È così che lo hai incontrato. Correndo al parco tutte le mattine.

Senti l’aria fredda in faccia, ma non ti basta per soffocare la voglia di piangere. Scuoti la testa come per sbarazzarti di quella sensazione scomoda. Le lacrime affollano i tuoi occhi e tu le respingi.Corri più veloce, vuoi che il vento le porti con sé, le tue lacrime. Segui la solita strada verso il parco, ma ti trovi davanti i cancelli chiusi, è ancora troppo presto. Per non fermarti sei costretta a deviare e a restare sul marciapiedi, deserto come il tuo cuore in questo momento. Un’assenza enorme, che non riesci ancora a definire, ma che già ti pare incolmabile.

Il cielo si tinge di rosa in uno squarcio di debole luce. Svuotata di tutti i pensieri stai ancora correndo. Non dai ascolto al tuo corpo che ti supplica di smettere. Ad ogni passo senti i tuoi polpacci indurirsi, spingi con forza e avverti il muscolo che si gonfia. Dovresti fermarti, invece forzi l’andatura. Calchi sulle punte dei piedi e ti butti in avanti. Ti concentri sul tuo respiro, sul battito del tuo cuore per annullare quello che provi. Il fisico contro il sentimento. Uno sforzo immenso che va oltre le tue possibilità.

Poi una fitta, nel mezzo del tuo cuore aperto, ti lascia senza respiro. Cadi a terra portando le mani al petto. Resti immobile sul marciapiedi, così come sei caduta. Sotto la tuta strappata s’intravvede la carne viva e i lembi del tessuto squarciato si colorano di rosso. Abbracci con forza le tue ginocchia dolenti e ti raggomitoli in posizione fetale per contenere il male. Finalmente le lacrime trovano la strada e scaturiscono furiose, non sei più in gado di fermarle. Ti ritrovi a rotolare sull’asfalto freddo, finalmente libera di urlare la tua disperazione di donna che ha perduto l’amore: «Nooooo!».


Pubblicato sul Blog di Stefano Medici


lunedì 9 novembre 2009

la ragazza che alza le spalle

pubblicato sul settimamale Vera n. 21 del 10/11/09

Canta in inglese con un leggero accento tedesco. Caterina è seduta in prima fila e lo fissa per tutto il concerto. «Il posto è piccolo e non può che notarmi», pensa. Sorride, lui ricambia. È alto, capelli neri di media lunghezza, con un look un po’ anni sessanta. Magrissimo nei suoi pantaloni attillati, si muove come una tigre sul piccolo palco del locale. Caterina passa molte delle sue serate in questo minuscolo scantinato, non lontano da casa sua, dove ogni sera suona una band diversa. Caterina, bella ventenne con biondi capelli spettinati, orfana problematica e ribelle, lavora come cassiera al supermercato sotto casa. Da qualche mese vive sola, ha affittato un monolocale per allontanarsi dalla famiglia adottiva con cui non va assolutamente d’accordo. Adora la musica dal vivo, ma ancora di più adora i musicisti. Una vera passione, che la porta nel backstage di tutti i concerti.

È lei la prima ad alzarsi, alla fine del concerto, e ad avvicinarsi al palco. Tiene in mano un diario e un pennarello. «Posso avere un autografo?», chiede Caterina sorridente, in un inglese perfetto. Il cantante sembrava quasi la stesse aspettando e le prende di mano il pennarello. «Come ti chiami?», le chiede. Lei nota che, ora che non sta cantando, il suo accento tedesco è piuttosto accentuato. «Ca-te-ri-na», compita lei lentamente. Lui firma in una pagina bianca e poi si gira allungandole la mano. «Piacere, Libor». «Piacere mio», risponde lei stringendogli la mano con forza. La serata continua piacevolmente al bar del locale. I tre ragazzi del gruppo e Caterina ridono e scherzano allegramente fino all’ora di chiusura. Chiacchierando, lei scopre che loro sono tre fratelli di origine cecoslovacca, ma vivono insieme a Vienna. Hanno appena inciso il loro primo disco e stanno facendo concerti in giro per l’Europa per promuoverlo.

Il gestore del locale, al momento di uscire dice ai ragazzi di prepararsi che li deve accompagnare in albergo». Caterina, dopo aver scambiato un eloquente sguardo con Libor risponde: «Li porto io». E si alza dal tavolo per pagare la consumazione. «Offre la casa», la ringrazia il gestore. Escono tutti insieme nella notte cittadina. Arrivati sotto l’albergo scendono dalla macchina e Libor prende da parte Caterina, «vuoi salire?», le domanda accarezzandole una guancia. Lei non se lo fa ripetere due volte, è quello che desidera. Salgono in camera e passano la notte insieme. L’indomani i tre fratelli ripartono. Nel giro di un paio di giorni Caterina sta già organizzando il suo viaggio a Vienna. Il Castello di Schönbrunn, il Palazzo Imperiale, il Duomo di Santo Stefano. Una settimana dopo parte, in treno dalla Stazione Centrale. Libor l’aspetta. «Sono stato fortunato», le dice lui andandola a prendere al treno. Lei risponde ridendo, ma senza troppa passione. Lei trova difficile entusiasmarsi, lo ha sempre trovato difficile. Passano quattro giorni insieme, poi Caterina torna a Milano con la promessa che lui sarebbe venuto a trovarla in un paio di settimane. Ed è così, per qualche mese si vedono ogni due settimane, una volta a Milano e una volta a Vienna. Sembra quasi una bella storia d’amore, ma Caterina è irrequieta, non sembra mai soddisfatta della sua vita. Non riesce a stare ferma. È alla continua ricerca di qualcosa, ma non sa bene nemmeno lei che cosa. Mentre si vede con Libor, lei continua la sua vita milanese di concerti e di incontri, come se niente fosse successo tra loro. Poi succede l’imprevisto, Caterina rimane incinta ed è costretta ad arrestare la sua corsa. L’immobilità la obbliga a riflettere su ciò che vuole, ed è proprio quello che lei non vuole fare. Non ha mai voluto pensare, ha sempre agito d’impulso. Andare sempre avanti, come un bulldozer.
«Cosa ci faccio io, con un test di gravidanza positivo in mano?», si domanda. Seduta sul bordo della vasca da bagno non sa rispondersi. Decide di chiamare Libor, per metterlo al corrente della situazione. Ma mentre sta parlando, si accorge di non voler avere nulla a che fare con lui, si chiede chi sia veramente quella persona dall’altra parte del telefono. Cosa vuole lei da lui? Nulla. Allora di colpo tace, lo lascia parlare, si sente fredda e distante come se lui fosse uno sconosciuto. «Addio, è finita», gli dice Caterina a un tratto e, senza nemmeno dargli il tempo di rispondere, attacca giù. Lui, allarmato, è già sul primo treno per Milano. Caterina, più allarmata di lui, lo blocca in stazione per impedirgli di rientrare nella sua vita e lo rispedisce a casa sul primo treno in partenza per Vienna. «A vent’anni non posso fare altro», gli dice. Non vuole fare altro in realtà, non se la sente di stravolgere la sua vita. Come darle torto.

Abortisce dopo poco, in modo leggero, un po’ come un’alzata di spalle. Lei è così. Alza le spalle e prosegue. Vive un susseguirsi di eventi per colmare un vuoto che ha dentro e che si porta dietro da sempre. Senza prendere fiato. Non la blocca nulla, nemmeno la vita. Riprende esattamente da dove si è fermata, quasi non fosse successo nulla. Feste con amici, concerti, vita notturna. Il suo monolocale è un porto di mare, gente che arriva, gente che va, a tutte le ore del giorno e della notte, ma in fondo Caterina si sente sola. È sempre a causa di quel vuoto che non riesce a colmare. Quel qualcosa che cerca, ma non trova.
Qualche mese dopo, tornando in treno da uno dei suoi concerti, conosce due ragazze di Crema. Parlano del più e del meno, poi le ragazze gli raccontano che sono in partenza per Londra. Hanno trovato lavoro come cameriere in una residenza per studenti. Pulire le stanze, rifare i letti, cose così. «Partiamo fra due settimane. Vuoi venire?», le domanda una delle due. Detto fatto. Molla tutto di colpo, casa, lavoro. Caterina parte. «All’avventura», ripete a sé stessa quasi in modo ossessivo. Lei ci crede fino in fondo alle sue avventure. Poca roba nella valigia, niente e necessario.

Il suo arrivo a Victoria Station è qualcosa di memorabile. Sfoggia un chiodo nuovo e una folta chioma di capelli blu, colorati durante la traversata della manica. I piedi le sudano mentre fa i primi passi sul suolo londinese. Indossa due paia di calzettoni perchè gli anfibi sono troppo grandi. «Sto vivendo un sogno», pensa. Ma non sarà per molto. Lei lo sa già. Le sue passioni sono intense, ma di breve durata. Si ritrova a rifare letti sudati, a pulire gabinetti incrostati, l’odore della candeggina le dà la nausea. Si deve svegliare molto presto la mattina e la sera non ha più la forza per andare a vedere i concerti dal vivo che sono la sua vita. Comincia a essere scostante e nervosa, tende a isolarsi dagli altri. Litiga anche con le due ragazze di Crema che lavorano con lei. Nel giro di un mese decide che la sua pazienza è già durata abbastanza. Vuole andarsene.

«Puoi stare a casa nostra», le dice Massimo. «Grazie, sì. Sarebbe fantastico», risponde Caterina voltandosi verso Simone. «Nessun problema per me», conferma l’amico.«Allora, se non vi dispiace, verrei da voi domani mattina presto», aggiunge lei prima di salutarli. Li ha conosciuti durante una festa, qualche giorno prima. Due studenti romani che dividono un appartamento nella mitica Abbey Road, la strada resa famosa da un album dei Beatles, la cui celeberrima coprtina mostra i Fab Four mentre attraversano la strada sulle strisce pedonali. «Non vedo l’ora di attraversare la strada nello stesso punto», pensa Caterina mentre si corica per l’ultima volta come cameriera. Domani sarà di nuovo libera. La mattina seguente si alza, raccoglie in fretta le sue poche cose, ritira la sua paga settimanale, 60 sterline, e se ne va senza salutare nessuno. Con una nuova alzata di spalle riprende il suo vagabondaggio per la vita senza sapere bene dove andrà a finire.

«Questa è di casa, questa è del portone …», le illustra Massimo dandole in mano il mazzo di chiavi. «Solo una cosa, non rispondere mai al telefono», continua lui, «mia madre non deve sapere che ospitiamo qualcuno senza chiedere affitto». «Nessun problema, grazie!», risponde Caterina con un falso sorriso, pensando che i due ragazzi le stanno già antipatici. Giovani ragazzi borghesi, ricchi e viziati.
«La convivenza, però, sembra facile, loro hanno orari diversi», pensa lei. Difatti i ragazzi escono la mattina presto per andare in università, mentre lei dorme ancora. Lei esce la notte, mentre loro dormono. Nel suo intimo, però, sa già che quello non è il suo posto, non si sente a suo agio, non è casa sua.

Girovaga tra un concerto e l’altro. Si mescola tra la folla del mercato a Camden il sabato. È affascinata dagli artisti di strada di Covent Garden. Londra le piace molto, le sembra di scoprire un mondo nuovo, ma tutto questo gironzolare lei lo fa da sola e dopo qualche settimana comincia a sentirlo come un peso. Non riesce a incontrare nessuno che la interessi. Nessuno con cui condividere la sua esperienza.
Magiare da sola, andare ai musei da sola, comincia a essere troppo, anche per uno spirito libero come il suo. Caterina, la ragazza che alza le spalle, non regge più la situazione. Decide che deve muoversi, andare avanti, ma non sa bene dove e quando.

Quella sera non rientra a casa, sceglie invece di continuare il suo vagabondaggio solitario tra bar e locali fino a non poterne più. Londra pian piano si svuota, restano lei e la notte in Piccadilly Circus. Accende l’ultima sigaretta rimasta, getta via il pacchetto vuoto e si siede sui gradini della fontana. Stanca. La tristezza che ha sempre cercato di sfuggire, correndo lontano senza mai fermarsi, è lì a tormentarla. Sola nel silenzio si sdraia sui gradini a contemplare le luci al neon colorate delle pubblicità sull’altro lato della strada. «Devo trovare una soluzione», pensa tra sé e sé, «i soldi stanno per finire e in Italia non ci voglio tornare». Aspira una bella boccata dalla sua sigaretta ammirando il suo luminoso consumarsi.

Ad un tratto un rumore di passi la spaventa. Si alza in piedi di colpo e nel buio intuisce una sagoma di un uomo alto che si avvicina. Cerca di nascondere la paura restando calma. Getta il mozzicone di sigaretta sull’asfalto freddo e la schiaccia con il piede. Intanto osserva. Torna a sedersi sui gradini. Lui ciondola un po’, ha una bottiglia di birra in mano. Cammina lentamente verso di lei, ma non sembra avere un atteggiamento minaccioso. Caterina attende senza scomporsi. Lui le si siede di fianco. «Ciao, sono Brian», le dice sorseggiando la birra. «Caterina», risponde lei mentre lo osserva attentamente. «Ti ho visto al Lion’s pub stasera», dice con un forte accento Londinese. «Vuoi?», domanda poi allungandole la bottiglia di birra. «No, grazie!», risponde lei, mentre lo scruta nel buio, ha la testa pelata con due enormi pantere nere tatuate che gli ricoprono tutto il cranio. Si scambiano poche parole quasi senza guardarsi, «Italiana?». «Sì». «Oh». «Ho amato una ragazza italiana», aggiunge lui dopo qualche minuto di silenzio. «Cinzia», fa un’altra lunga pausa. «Se n’è andata il mese scorso, è tornata a casa, in Italia. Mi ha lasciato». Caterina è stupita dalla dolcezza della sua voce che non ha nulla a che vedere con il suo aspetto da rude skinhead e lo ascolta attentamente. «Non tornerà più». Lei vorrebbe che lui continuasse a parlarle, le piace il timbro della sua voce, ma lui resta in silenzio. Poi Brian abbandona la birra sul gradino e si alza voltandosi verso Caterina, «Vado a casa, vuoi venire con me? Ce l’hai una casa?». «No, non più!». «Non puoi dormire qui». «Vengo con te allora, grazie», risponde lei senza pensarci su nemmeno un secondo.

Brian si mette a correre verso un autobus che sta arrivando e Caterina lo rincorre. Lo prendono al volo. Salgono al piano di sopra e si siedono nei sedili in fondo. «Dove abiti?», chiede lei. «Lontano», dice lui semplicemente. Il viaggio per arrivare è lungo e i due lo passano quasi tutto senza parlare. Brian la guarda spesso in viso e sorride senza dire nulla. Caterina si sente tranquilla, anche se non sa dove sta andando. Il sorriso di Brian è rassicurante, nonostante il suo abbigliamento strappato e il suo corpo ricoperto di tatuaggi. «Ci siamo!», Brian indica fuori dal finestrino una fila di case in mattoni e si alza per scendere. Caterina lo segue giù dall’autobus. È una zona di Londra periferica, che lei non ha mai visto. «Abbiamo occupato questa casa da qualche mese, siamo in tre, si sta bene», dice lui mentre apre la porta d’ingresso. Entrando Caterina si guarda intorno, una vecchia casa piuttosto grigia, ma tenuta dignitosamente. Brian sale al secondo piano e, sempre con Caterina al seguito, entra in una camera.
«Ecco, tu puoi dormire qui», dice lui indicando un letto dove dormono acciambellati due enormi gattoni neri, «io dormo per terra». Lei si siede sul letto mentre i gatti si stiracchiano, «Sei molto gentile, grazie», sussurra. «Puoi restare quanto vuoi», le risponde lui semplicemente.
Prima di addormentarsi Caterina ripensa a come si sentiva male solo qualche ora prima. «C’è qualcosa in lui che mi piace molto», si dice mentre ascolta il respiro ritmato di Brian nella stanza silenziosa. Si volta verso il muro e sente i due gatti che saltano sul letto a riconquistare la parte di coperta che era di loro proprietà. Caterina si addormenta con il sorriso sulle labbra.

L’indomani si sveglia ed è sola, si guarda intorno e nota nella stanza degli strumenti musicali appoggiati alle pareti spoglie. Non li aveva notati la sera prima probabilmente per la stanchezza. «Musicista, può essere solo un musicista!», esclama. La cosa non può che renderla felice, non poteva fare un incontro migliore. Raccoglie i vestiti da terra, dove li aveva gettati la sera prima al buio, si veste in fretta e si affaccia timidamente sulle scale. Sente un vociare allegro arrivare dal piano di sotto. Arriva in punta dei piedi fino alla cucina guidata dal profumo di caffé e sbircia dentro. Brian è seduto al tavolo, la vede e l’accoglie con un enorme sorriso. «Buongiorno!», esclama attirando l’attenzione dei presenti. Caterina un po’ imbarazzata entra nella stanza e si siede anche lei al tavolo.
La ragazza rossa e il ragazzo con i capelli a spazzola che stavano chiacchierando con Brian si presentano: Lilly e Robert. Bastano pochi minuti perché Caterina rompa il ghiaccio davanti ad una bella tazza di caffé bollente.
Brian si offre di aiutarla ad andare a prendere le sue cose a casa dei due ragazzi romani. Caterina è contenta, sbadiglia, si scompiglia i capelli con le mani e si versa una seconda tazza di caffè. Ha quasi la sensazione di conoscerlo da sempre. Non le era mai successo prima d’ora, sedotta da un sorriso notturno, si ritrova in una situazione di tranquillità che non pensava di poter vivere.

«Stasera, dopo il concerto, passiamo a prendere le tue cose», dice Brian alzandosi dalla sedia. Le passa accanto e le sfiora delicatamente una guancia. Poi la prende per mano e l’invita a seguirlo.
Salgono lentamente le scale mano nella mano e arrivati in cima, lui le prende il viso tra i palmi, la fissa dritto negli occhi e, senza timidezza, si avvicina alle sue labbra. Caterina si lascia baciare. Un lungo e tenero bacio, per lei un nuovo inizio.

giovedì 5 novembre 2009

immense cicatrici e fiori di campo


Mia mamma aveva le mani bellissime anche nella morte. Parevano sottili steli di cera bianca adagiati composti sul ventre, candidi e morbidi nella rigidità della quiete perenne; quasi estranei al resto del corpo, sconfitto infine. Carne lattea, priva ormai del senso del giorno.

Mi sono sempre chiesta come mi sarebbe stata recapitata la notizia. Me lo chiedo da quando, bambina, ho capito che la morte sarebbe stata una presenza costante. Ubriaca, annegava la sua esistenza solitaria vagando per la città, esposta a ogni male, offrendoci in cambio infinite attese piene d’ansia. Un’ansia durata quasi quarant’anni, un pensiero ricorrente che mi ha tallonato da vicino, a ogni squillo del telefono. La morte infine è arrivata e se l’è portata con sé, la mamma, nel sonno. Ora ho la mia risposta.

«È morta», sussurra la voce di mio papà al telefono, tre sillabe senza un soggetto ad annunciare la sua fine, attesa, ma inevitabilmente inaspettata. Non poteva aggiungere altro, perché non c’era altro da aggiungere, tutto era già stato detto nella scelta di quella parola. Non deceduta o scomparsa, nemmeno andata: morta. Pronunciata in fretta a rimarcare l’ineluttabilità del destino, con il timore che a trattenerla tra le labbra potesse prolungare la sofferenza.

3.30 del 4 novembre 2009. Avrei voluto strappare ancora un minuto della sua vita con la consapevolezza che sarebbe stato l’ultimo, invece lei ha voluto sorprenderci e se n’è andata silenziosa e discreta in una notte di luna piena. Per anni l’ho pensata già morta, ma ora la sento più viva che mai. Di lei porto nel cuore immense cicatrici e fiori di campo.

martedì 27 ottobre 2009

Complice un'isola

Pubblicato sul settimanale "Vera" n.20 del 3 novembre 2009

La piccola imbarcazione avanzava lentamente, bordeggiando con cautela per risalire lo stretto canale. Era un soleggiato pomeriggio d’estate, con una fresca brezza che tirava da nordovest, la foresta scendeva ripida per il pendio roccioso a picco sulla costa, dove incontrava all’improvviso le onde del mare. Piccina, ma resistente, la barca oscillava sospinta dalle onde che si creavano nello stretto corso d’acqua al suo passaggio. La mano solitaria strinse la presa sulla barra del timone virando verso una piccola nicchia nella parte occidentale della costa. Lei era in ginocchio all’interno della cabina attenta a osservare ogni minimo segno che indicasse il pericolo di rocce poco visibili a pelo della superficie dell’acqua. Continuò a dritta fino a che non superò la punta rocciosa a strapiombo sul mare. Con una rapida manovra controvento fermò la barca, le sue braccia esperte si mossero veloci per gettare l’ancora, e mollò la cima. L’ancora si tuffò in acqua e scese in fretta fino a toccare il fondo, lei si occupò della fune in modo che l’imbarcazione fosse ormeggiata in modo sicuro nel caso cambiasse il vento o si alzasse la marea. Occupata com’era con le manovre, non si accorse che durante tutte le sue esperte operazioni aveva avuto un pubblico. Un ragazzo in blue jeans, maglia bianca e giubbotto di pelle nera era seduto sulla roccia a strapiombo e aveva osservato l’avvicinamento della donna skipper con ammirazione. Lei non se ne accorse, perché nel momento in cui si alzò e tirò su la testa, dopo aver assicurato l’ancora, lui si era già allontanato dirigendosi velocemente verso gli alberi della foresta.

Una volta che Irene fu sicura del suo ormeggio, scese sotto coperta e mise sul fornello un bollitore per il tè. Mentre aspettava che l’acqua bollisse, prese dallo scaffale un grosso quaderno con una copertina rigida in cartone arancione, era il diario di bordo che lei aggiornava meticolosamente, sia con note riguardanti la navigazione sia con appunti personali. Lo aprì all’ultima pagina scritta la mattina prima di partire e annotò l’ora di arrivo, la posizione precisa del punto protetto dove aveva ancorato la barca, il tempo atmosferico e, come nota personale, aggiunse che aveva l’impressione di aver trovato il posto perfetto per scrivere in solitudine.

Irene, aveva da poco compiuto quarant’anni, non particolarmente alta, robusta quanto basta per farle pensare spesso al fatto di dover fare più ginnastica; una chioma bionda con un taglio piuttosto corto, alla maschietto, fa da cornice ai suoi enormi occhi verdi. Quando non è impegnata a lavorare come redattrice di una rivista di moda, tutti sanno che la si può trovare sulla sua barca, oppure chinata sulla tastiera del suo computer a comporre poesie o scrivere favole per ragazzi, che è la sua vera passione. Questa volta era riuscita a unire questi suoi due grandi amori, il mare e la letteratura partendo in solitaria. Dopo un anno piuttosto difficile, ne aveva particolarmente bisogno.

Una volta preparato il tè, prese la tazza, il suo portatile e si recò nuovamente sul ponte, dove aveva diligentemente preparato un accogliente angolo per lavorare appoggiando la sua sacca contro l’albero da usare come schienale. Si sedette e, prima di immergersi nel mondo delle sue fantasie, si gustò la vista di quello che sarebbe stato il suo nido per i giorni a venire, sorseggiando il suo tè e guardandosi intorno. Un panorama fantastico a trecentosessanta gradi. Notò le piccole lingue di sabbia che entravano in acqua, le sottili spiagge sabbiose protette dalla foresta, che saliva poi ripida per la montagna. A prima vista il paesaggio appariva privo d’insediamenti umani, ma osservando meglio si potevano intravedere, nascoste dagli alberi, almeno tre o quattro strutture. Una di queste sicuramente una casa privata. Irene pensò a quante volte aveva sognato di poter comprare una casa in un’isola, tra mare e foresta, come quella. Un sogno mai realizzato. Finì il suo tè, appoggiò la tazza vuota a terra, accese il computer e lasciò spazio alla sua immaginazione.

Frank si era arrampicato per un sentiero poco battuto che saliva ripido su per il pendio e s’inoltrava nella foresta fino a raggiungere una grande casa in pietra completamente circondata dagli alberi. Saliva veloce con le mani in tasca mostrando quella sicurezza di chi conosce la strada a memoria. I capelli corvini, scuri come il giubbotto di pelle, facevano risaltare la carnagione chiara. Mentre saliva verso la casa si ritrovò a pensare alla donna skipper che aveva appena visto essere così esperta di mare e si chiedeva come mai avesse ormeggiato proprio lì, di fronte a casa sua. Pensò che fosse strano per una donna ritrovarsi sola in mezzo al nulla, ma poi pensò anche che questo paradiso, anche se piuttosto isolato, non si trovava esattamente in mezzo al nulla; sull’altro versante dell’isola c’era il paese, e a pochi chilometri in linea d’aria le altre tre isolette dell’arcipelago frequentate, soprattutto d’estate, da una folla di giovani artisti. «Forse non lo saprò mai», disse tra sé e sé mentre saliva la scalinata di pietra che portava all’ingresso della casa. Entrò dalla porta che aveva lasciato aperta, salutò affettuosamente Samo, il suo grosso labrador nero, che gli venne incontro facendogli un sacco di feste e poi si diresse come d’abitudine verso la segreteria telefonica. Pigiò il tasto che stava lampeggiando e si mise in ascolto seduto sul bracciolo del divano. «Bip. Ciao sono Marco, la data d’inaugurazione è confermata. Ci vediamo tra un mese qui da me». Un attimo di silenzio poi: «Bip. Non ci sono altri messaggi». Non c’era bisogno di richiamare, cancellò il messaggio e si diresse verso la cucina, un ampio locale con una grande vetrata che si apriva su una terrazza che dominava, da sopra le cime degli alberi, la baia sottostante. Al centro della baia poteva chiaramente distinguere la barca della donna skipper. Si girò verso la credenza e cercò il barattolo del caffè, lo appoggiò sul ripiano e si allungò a prendere la caffettiera. Si accorse in quel momento che stava tenendo d’occhio l’imbarcazione ormeggiata nella baia. Sorrise e pensò che, da quella parte dell’isola, non arrivavano spesso visitatori, al massimo qualche turista in cerca di una spiaggia tranquilla, ma mai nessuno che si fermasse oltre al pomeriggio. Il fatto che quella donna solitaria avesse scelto proprio la sua piccola e appartata baia lo incuriosiva.
Una volta pronto il caffè si riempì una bella tazza e si avviò, come d’abitudine, verso il suo studio al piano di sotto per passare la serata dipingendo. In quel momento ripensò al messaggio del gallerista e il pensiero della donna skipper passò in secondo piano. Mancava solo un mese all’inaugurazione della sua prima personale e aveva ancora parecchi quadri da finire.

Irene, immersa nella scrittura, non si accorse che il sole stava calando. Si rese conto di un tratto che faceva fatica a vedere le lettere sulla tastiera, smise di digitare e appoggiò la schiena sulla sacca dietro di sé. Era soddisfatta, aveva scritto per ore senza sosta. «Credo di aver trovato il posto perfetto per concentrarmi», pensò. Si sentiva un po’ come la principessa della sua favola, che lasciava la sua terra devastata dalla guerra per andare alla ricerca di un regno di pace. Lei aveva fatto la stessa cosa. Aveva lasciato dietro di sé un matrimonio arrivato ormai alle battute finali e i problemi quotidiani sul lavoro per cercare uno spazio tutto suo, il suo regno di pace. Se n’era andata senza dire niente. Nessuno sapeva dove lei avrebbe trascorso le vacanze, solo sua figlia era al corrente della sua fuga e la sosteneva, come aveva sempre fatto durante le brutte litigate con il padre. Aveva accettato la proposta di scrivere una favola per un importante editore con il quale era in contatto da anni e con il quale ci teneva particolarmente a collaborare, era molto contenta di questo nuovo progetto che avrebbe potuto portarle molte gratificazioni.
Respirò profondamente e l’aria fresca della sera le riempì i polmoni. Ebbe un leggero brivido e decise di scendere sottocoperta a mettersi indosso qualcosa di più pesante. Una volta di sotto si ricordò di non aver cenato, e decise di approfittare del bel chilo di cozze che le aveva regalato il suo amico pescatore alla partenza. Si rimboccò le maniche e si mise a pulirle nel piccolo lavandino assaporando già la gustosa cena. Una volta pronte le cozze, Irene stappò una bottiglia di vino bianco che aveva in fresco e brindò a se stessa e alla sua nuova favola. Stava proprio bene.
Salì sul ponte dopo cena con la tazza del caffè fumante in una mano e una sigaretta nell’altra ad ammirare il cielo stellato. Era una notte buia e senza luna, si potevano vedere perfettamente milioni di stelle, tutta la Via Lattea. Si guardò in torno e notò che l’isola era tutta buia, tranne una debole luce da dietro gli alberi in cima alla collina proprio di fronte a lei. Si stupì che ci fosse qualcuno. «Chissà chi ci abita, in un posto così isolato», si chiese. Cominciò a sentire la stanchezza della lunga giornata, ma la bellezza del paesaggio che la circondava le impediva di andare a dormire, non voleva privarsene. Decise allora di fumare un’ultima sigaretta prima di coricarsi. Si ritrovò a fissare la luce della casa oltre gli alberi, che a un tratto si spense. Restò ancora qualche attimo nel buio più completo, poi scese a coricarsi sotto coperta.

Frank spense le luci dello studio al pian terreno, come sempre aveva lavorato ininterrottamente tutta la serata e si era dimenticato di mangiare. Il suo stomaco stava proprio ricordandoglielo in quel preciso momento emettendo curiosi suoni. Salì nella cucina al primo piano e la prima cosa che fece fu di sbirciare fuori dalla grande vetrata per controllare se la barca fosse ancora ormeggiata al suo posto. C’era. Sentì come una sensazione di sollievo. «Curioso», pensò, «è come avere un vicino di casa». E rise da solo della sua battuta. Aprì il frigorifero e dopo avere osservato attentamente il suo contenuto, decise che un piatto di pollo con le verdure e riso Basmati era perfetto per festeggiare la sua prima mostra personale. Si mise ai fornelli con lo stesso impegno con cui di solito si mette davanti a una tela. Aveva sempre amato cucinare, e nei momenti di tensione o di molto lavoro, diventava un modo per rilassarsi. Tirò fuori dal cassetto il suo prezioso coltello da chef giapponese, compagno di tante cene quando ancora abitava in città, e con gesti sicuri cominciò ad affettare le verdure. Frittura veloce e leggera nel wok, all’orientale, un po’ di salsa di soia e la cena fu in tavola. Apparecchiò fuori in terrazza, lui amava mangiare lì con l’orizzonte a fargli compagnia. Si prese una birra gelata, la stappò e la versò nel bicchiere: «Salute», disse ad alta voce allungando il braccio verso la barca nella baia sottostante.

Irene aveva dormito di sasso per tutta la notte. Si svegliò con i primi raggi del sole, si stirò pigramente e si voltò a guardare l’orologio. Le 7.05. Pensò bene di restare a letto ancora un po’, prese il libro che stava leggendo dallo scaffale e lo aprì cercando la pagina dove aveva interrotto la lettura la sera prima. «Imparare a mettere il segno è troppo difficile per me», disse tra sé e sé, ridendo. Si mise a sedere sistemando per bene il cuscino dietro la schiena e s’immerse nella lettura per una buona mezz’ora. Cominciò a sentire la necessità di una gustosa colazione, aveva portato con sé la macchina per il caffè, un suo irrinunciabile vizio: una bella tazza di caffè americano, con latte e zucchero, prima di affrontare la giornata. «Senza dimenticare le fette biscottate», pensò mentre le tirava giù dallo scaffale. Si sentiva di ottimo umore, lo notava dalla quantità di burro e miele che si ritrovava a spalmare sulle fette biscottate, l’aria di mare le stava facendo un gran bene. Colazione sul piatto, caffè in mano, si trasferì nel suo angolo sul ponte a gustarsi la brezza mattutina.

Frank aveva l’abitudine di svegliarsi presto e di portare Samo a correre sulla spiaggia. Anche quella mattina, si alzò alle 6.30 si mise la tuta e s’incamminò per il bosco per raggiungere la spiaggia. La barca era sempre ancorata, ben salda, nel mezzo della sua baia. Dalla spiaggia riusciva intravvedere la sagoma della donna skipper sul ponte sorseggiare dalla sua tazza. Decise impulsivamente che era arrivato il momento delle presentazioni. Slegò la cima del suo canotto, lo spinse in acqua e cominciò ad avvicinarsi alla barca. Samo, tutto felice per il cambio di programma, lo seguì a nuoto.

Irene non si accorse dell’abbordaggio di Frank, era rapita dalla bellezza di quel paradiso, dove il suo istinto l’aveva fatta approdare. «Hey lassù, è profumo di caffè quello che sento?», urlo Frank, una volta che era a portata di voce. Irene si spaventò, e si alzò di scatto voltandosi verso il lato della barca da dove proveniva la voce. Non poteva vedere nessuno, perché il canotto era più in basso. Si avvicinò all’estremità della barca e guardò giù. Rimase a bocca aperta quando il suo sguardo si posò su Frank che stava tirando a bordo del canotto il cane. Non si aspettava certo di veder apparire un ragazzo così bello, dal nulla. Allora scoppiò a ridere. «Mi hai spaventata a morte!», urlò a sua volta.
Frank si voltò e i suoi occhi incontrarono il viso divertito di Irene che non riusciva a smettere di ridere. «È caffè, dicevi?», le richiese lui con un enorme sorriso. «Non avevo risposto ancora, sì è caffè», replicò lei, «Ne ho appena preparato una brocca piena, sali», aggiunse poi, allungandogli una cima dove poter legare il canotto. Lui afferrò la corda, in quel momento i loro sguardi s’incontrarono e Irene sentì un brivido scorrerle per tutta la schiena. Pensò, divertita, che lui fosse l’incarnazione del Principe Azzurro delle sue favole, tanto forte era il suo desiderio d’incontrarlo un giorno, che si era materializzato di fronte. Imbarazzata, distolse lo sguardo dagli occhi neri di Frank, e si voltò per cercare la scaletta corta per farlo salire a bordo.
Una volta salito, lui le allungo molto educatamente la mano: «Piacere, Frank», si presentò, «Irene», rispose semplicemente lei. Poi ci fu un attimo di silenzio, rotto da Frank che sorridendo chiese: «e … quella tazza di caffè?». Colta da un momento di timidezza Irene rise. «Ma certo, vieni», gli disse indicando la strada. E i due scesero sotto coperta. «È ancora caldo», aggiunse precedendolo nel cucinotto.
Irene versò il caffè nella tazza e gliela porse, in quel preciso momento le due mani si sfiorarono e Irene sentì gli stessi brividi, provati poco prima, salire per tutta la schiena. «Ben arrivata nel mio quartiere!», disse lui. Aveva un sorriso caldo e rassicurante e l’imbarazzo di Irene passò velocemente. Si sedettero al tavolo e cominciarono una piacevole conversazione. «Allora quella luce che vedevo ieri notte è casa tua?», chiese lei. «Sì», rispose lui, «ormai sono un paio d’anni che abito qui. Vado in città solo quando mi serve». «Ma non ti senti solo?». «A dire la verità, no. Sto bene. Ho bisogno di concentrazione quando lavoro», rispose sorseggiando il suo caffè, «e poi il paese non è molto distante, l’isola è piccola, casa mia sembra più isolata di quanto non lo sia in realtà». «È veramente un posto fantastico qui», disse semplicemente lei. Irene gli raccontò brevemente del suo lavoro e della sua passione per la scrittura, lui invece gli spiegò che era figlio di un’americana e un italiano, che era Cresciuto ad Atene e che prima di dedicarsi solamente alla pittura aveva lavorato in un’agenzia di pubblicità, ma dopo qualche anno quel mondo lo aveva stufato. Una grossa delusione d’amore, lo aveva poi spinto ad allontanarsi definitivamente dalla città. Non si era mai pentito della sua decisione, pensava di aver fatto la cosa giusta. Mentre parlavano, Samo gli scodinzolava intorno lanciando dolci occhiate e Frank spesso allungava la mano per accarezzarlo. Irene osservava con curiosità quel gesto affettuoso e le sembrava così pieno di dolcezza.
«Posso invitarti a cena stasera? Così ti mostro la casa», chiese a un certo punto Frank. «Certo», rispose subito lei, che in cuor suo non aspettava altro. Passarono ancora un po’ di tempo a parlare del più e del meno poi Frank decise di tornare sulla spiaggia con Samo. Si salutarono con un’educata stretta di mano e mentre lui saliva sul canotto Irene gli chiese: «Vuoi che cucini qualcosa io?». «Assolutamente no!», fu la sua risposta e agitando le braccia, prima di essere troppo lontano gridò «Alle sette, allora!».
Irene era confusa, mezz’ora prima si sentiva una Robinson Crusoe alla scoperta di un’isola deserta, ora aveva un appuntamento per cenare con uno degli uomini più belli che avesse mai incontrato. Era convinta di sognare; eppure il cuore le batteva forte al ricordo delle sue mani che la sfioravano mentre gli serviva il caffè, doveva essere tutto vero. «Sì, va bene Irene, adesso calmati, però!», disse ad alta voce come se stesse dando a se stessa un ordine da eseguire.
La giornata passò lentamente e per un po’ Irene riuscì a dimenticare l’appuntamento e si dedicò al suo libro. Lei, il suo computer e il rollio della barca.

Frank era ritornato a casa passando dal bosco; il cane gli trotterellava sempre intorno. Era contento del suo incontro. La donna skipper era diversa da come l’aveva immaginata, più semplice e più dolce. Non gli dispiaceva l’idea di averla invitata a casa sua, nella sua isola non aveva molte occasioni per organizzare una cena. Lui che era sempre un po’ impacciato con le donne, di fronte a Irene si era sentito a suo agio, non se lo aspettava. Decise di fare un salto in paese, e dopo una doccia partì in tutta velocità sullo scooter alla ricerca di qualcosa di speciale per la cena. Ci teneva a fare bella figura.

Irene era dispiaciuta di non aver nulla da indossare, era partita con l’idea che i pesci sarebbero stati i suoi unici compagni di viaggio e nella valigia aveva messo solo calzoncini corti e magliette. Improvvisò allora una gonna con un pareo arancione. Era la cosa più femminile che aveva trovato. Andava bene così, «Almeno è un colore che fa risaltare l’abbronzatura», considerò. Era nervosa come una quattordicenne al primo appuntamento.
«Forse la sua genuinità», pensava, mentre affondava i piedi nella sabbia della spiaggia. Passeggiava lentamente con le infradito in mano in attesa del suo cavaliere. Alle sette, puntualissimo, Frank sbucò dal bosco, «la semplicità in persona», ammirò Irene tra sé e sé, «sento che sarà una serata fantastica». Lui si avvicinò sorridendo e le diede un enorme bacio di saluto sulla guancia. Irene, un po’ a disagio gliene restituì uno anche lei lottando contro i brividi che le salivano la spina dorsale. Non si era mai sentita così attratta da un uomo appena incontrato; di solito le ci volevano giorni per uscire dal suo perenne stato d’insicurezza con gli uomini.

«Sei molto carina vestita da donna», le disse Frank ammirandola. Irene non capì se lui stesse prendendola dolcemente in giro. «Grazie, sai il primo straccetto che ho trovato», rispose allora lei ironica, calcando su una finta un’erre moscia; scoppiarono entrambi in una risata che, per fortuna, dissipò l’imbarazzo iniziale.
Cominciarono a salire per il sentiero che portava alla casa, alcuni pezzi erano piuttosto ripidi e Frank aiutò Irene a superarli tenendole le mani per sostenerla. Quando arrivarono in prossimità della casa, Irene si dovette fermare un attimo per prendere fiato e si guardò intorno. «Ma questo è un paradiso!», esclamò meravigliata da tanta bellezza, «Si vede la mia barca, guarda!», continuò indicando un punto attraverso gli alberi. «Sì, lo so», rispose lui, «è da lì che ti osservavo quando sei arrivata ieri», le disse poi, indicando uno spunzone di pietra poco oltre la casa, una grossa roccia bianca a picco sul mare. Quando entrarono in casa, furono accolti da Samo che faceva i salti acrobatici per salutarli. Irene pensò che il cane creasse una bella intimità. Frank aveva già apparecchiato per due sulla terrazza vista baia, ultimo tocco, accendere le candele. Stappò il vino e riempì due bicchieri, ne porse uno a Irene. «Alla nostra», brindarono. «È tutto così perfetto», disse Irene lasciandosi sfuggire un sospiro. «Già», affermò lui, «Probabilmente è tutto un sogno». «Bé, allora non svegliarmi!», comandò Irene sedendosi a tavola, «almeno, fin dopo cena!», aggiunse poi ridendo. «Sperando che alla signora piaccia il pesce …», disse Frank portando a tavola ogni ben di Dio. «Assolutamente il mio preferito», fu la risposta gioiosa di Irene che aveva deciso di mettere da parte la sua incredulità e cominciare a vivere la serata. La cena fu ottima e Irene non si sprecò in complimenti, finito di mangiare si alzarono e si affacciarono alla terrazza sul lato della baia.

L’aria della sera era frizzante, si era alzato un leggero vento. Il cielo stava lentamente prendendo un colore rossastro, il sole era già calato dietro la collina. Irene ebbe un fremito e Frank le mise il braccio intorno alle spalle «Senti freddo? Entriamo?», le chiese. «Sì, meglio», rispose lei, anche se in quel momento avrebbe voluto che l’abbraccio non finisse mai. Lui la precedette nel salotto e mise un po’ di musica, riempì di nuovo il bicchiere di Irene, che rifiutò «No basta, grazie. Penso di aver esagerato. Mi gira la testa». «Siediti», le disse lui indicandole il divano alle sue spalle. Lei seguì il suo consiglio e si sedette. Tolse le scarpe e tirò su le gambe, rannicchiandosi contro lo schienale. Frank prese il suo bicchiere e la raggiunse sul divano, le prese una mano tra le sue, «piccola e morbida», disse cominciando ad accarezzargliela. «A cosa stai pensando?», gli chiese Irene dopo qualche minuto di silenzio. «Che sto veramente bene qui con te», si voltò a guardarla negli occhi, «sei diversa dalle altre donne che ho conosciuto. E sei diversa da come m’immaginavo che fossi», aggiunse sorridendo. «Un rude marinaio?», gli domandò Irene ridendo. «Un po’ sì. Vieni, ti faccio vedere una cosa», e si alzò dal divano, sempre tenendola per mano. Lei lo seguì scalza fino al pian terreno, dove lui accese le luci del suo studio. «Qui è dove lavoro», e la invitò a entrare. «Meraviglioso!», esclamò lei mentre si guardava intorno e si lascava pervadere da un miscuglio di odori di vernici e solventi. Un grosso ambiente open-space, con un’enorme vetrata che si dava sulla foresta, pieno zeppo di tele e colori, tavoli, sculture. «Posso curiosare?», chiese lei. «Certo», rispose lui, «sto preparando una mostra per la fine di questo mese, sarà la mia prima personale». «Complimenti, i quadri sono bellissimi. Sarà un evento straordinario, la tua mostra!», affermò Irene con entusiasmo. «E tu dovrai esserci, per renderlo un evento indimenticabile», rimarcò Frank abbracciandola da dietro. La strinse a sé e la girò in modo da guardarla in viso. Irene sentiva il suo cuore battere forte per l’emozione di essere tra le sue braccia. Dal primo momento che lo aveva incontrato, non aveva pensato ad altro, e ogni volta che immaginava di abbracciarlo sentiva i brividi correre su e giù per la schiena. Era la prima volta che il contatto fisico con uomo le faceva questo effetto e ora si trovava a pochi centimetri dal suo viso.

«Ho dimenticato le fragole!», esclamò lui a un certo punto, scoppiando a ridere. Irene lo guardò seria per un attimo e poi non riuscì più a trattenere la risata, «imperdonabile!», gli rispose. I due tornarono al piano di sopra, Frank prese le fragole dal frigorifero le guarnì con della panna montata e ne porse una coppa a Irene. «Che cena sarebbe senza dessert?», disse lui sorridendo. Irene era contenta, Frank riusciva a farla sentire a suo agio; aveva quasi la sensazione di conoscerlo da molto tempo, invece erano solo poche ore. Poche ore che erano bastate per far nascere un’attrazione profonda.
«È buffo che tu abbia attraccato proprio qui», disse Frank, «è una piccola baia dove non viene mai nessuno». «L’ho scelta apposta», disse lei, «avevo bisogno di isolarmi dal mondo». «Allora io ti ho stravolto i piani!», le sussurrò lui nell’orecchio. «Direi di sì …», disse lei sottovoce ricambiandole il sorriso, «… ma va benissimo così!». «Dici sul serio?», chiese lui. «Perché, avevi dubbi?», rise Irene che pensava di essere sempre molto esplicita nel mostrare le sue emozioni. «No!», rispose lui, ridendo.
Irene lo fissava negli occhi senza riuscire a distogliere lo sguardo, Frank le prese le mani e fece il gesto di abbracciarla. Lei lo precedette e gli mise le braccia intorno alla vita. Non si dissero nulla e nel silenzio lui cominciò a baciarle il collo, salendo lentamente verso il viso, cercando le sue le sua labbra. Lei reclinò la testa leggermente all’indietro, assaporando ogni secondo di quei baci. Quando sentì il suo respiro vicino, chiuse gli occhi e lo baciò sulle labbra. Avvertiva le sue forti braccia che la stringevano, si sentiva la donna più fortunata sulla faccia della terra. «Ti voglio», mormorò lui. «Anch’io», rispose lei in un sospiro.

venerdì 23 ottobre 2009

Questione di dignità

“Sua mamma è molto ansiosa” dice l’infermiera con un forte accento spagnolo. “È perché forse sta morendo, no?” Pensa la ragazza seduta sul letto, mentre le risponde con un sorriso stropicciato “Abbia pazienza”.

“Sta per morire”, si ripete nella testa come un mantra e intanto la guarda in silenzio. La mamma sta finendo a fatica il suo piatto di minestrone. Così lo aveva chiamato l’inserviente, minestrone, ma a lei sembra più del brodo sporco in cui galleggia della pasta scotta. La osserva così scrupolosamente che le fanno male gli occhi. Cerca di cogliere un particolare, uno solo, che possa darle la certezza che anche lei lo sa, ma non è sicura di poter reggere il suo sguardo ancora a lungo. Vorrebbe scuoterla forte e prendendola per le spalle vorrebbe urlarle: “Ma tu lo sai che di qui non esci più? Tu lo sai, vero?”. Invece rimane seduta, in silenzio. Perché è così che si fa con chi non ha più scampo, si resta in silenzio.

La mamma le chiede di scartarle il formaggino. Lei si avvicina e glielo prende dalle mani, nota che ha le unghie lunghe e non curate, non sembrano nemmeno più le sue dita. O forse non lo erano quelle di prima. Perché c’è stato un prima, diverso dall’ora, ma altrettanto doloroso. Torna a sedersi sul bordo del grande letto bianco e ricomincia a guardarla mentre fa quei suoi brevi gesti, i pochi consentiti dalla quantità di tubi che la circondano. Il bicchiere d’acqua nell’angolo destro del tavolino, la sveglia bene in vista per tenere sotto controllo la sua solitudine, i fazzolettini umidificati solo poco più in là, le sue uniche certezze dopo cinque mesi di ospedale. Intrappolata nel suo destino un po’ borghese si scusa di essere spettinata e cerca di afferrare il pettine, ma la flebo glielo impedisce. La ragazza docile si alza e senza parlare le avvicina il tavolino al letto. “Ma cosa ti pettini a fare che stai per morire”, pensa, ma subito dopo si vergogna di averlo pensato; è questione di dignità, sempre, anche davanti alla morte.

[…]

Mamma


Quando l’umano scivola via
cosa resta nelle pieghe del volto?
L’impronta del corpo che mi ha generato
nel risvolto di una coperta troppo corta.
Solo ricordo del male lontano e
l’affanno sospeso nell’aria acerba.


mercoledì 14 ottobre 2009

Ho desiderato la sua morte


Ho desiderato la sua morte.
Spesso ho cercato di immaginare il suo corpo senza vita, quando intuivo che non ce la faceva più. Quando intuivo che noi non ce la facevamo più.
La desiderava anche lei, ma non ha mai avuto il coraggio di guardarla negli occhi, la morte. Anche quando le era accanto. I suoi gesti inconsulti ci dicevano che la vita le faceva paura, più della morte, ma almeno la vita le era familiare.
Ora quella vita le sta scivolando via. Ha deciso di andarsene spegnendosi lentamente, in dissolvenza come un vecchio film.

Ho desiderato di vederla morire, per eliminare il dolore. Il suo di madre bambina e il mio di figlia madre, perché era diventato insostenibile, il dolore. Così forte che abbiamo dovuto nasconderlo al mondo.
Ho desiderato la sua morte, e ora la morte è lì con lei, pronta a prendersi il suo ultimo respiro.

mercoledì 7 ottobre 2009

Autostop all'alba

Pubblicato sul settimanale Vera n. 16 del 6 ottobre 2009

La vecchia Renault andava spedita per la provinciale macinando chilometri su chilometri. Il guidatore pigramente teneva il suo gomito fuori dal finestrino aperto, tamburellando sul volante con le lunghe dita affusolate il bel ritmo blues che stava ascoltando alla radio. Grandi occhi nocciola fissavano la strada da dietro un paio di Rayban, cercando di nascondere la stanchezza accumulata nel guidare tutta la notte. Lui odiava l’autostrada, preferiva perdersi per le strade secondarie. Lo faceva da sempre, anche da ragazzo quando andava in giro ad esplorare con la bicicletta, preferiva i campi alla strada.
Uno sbadiglio rilassò il suo mento forte, abbellito da un pizzetto nero corvino come i suoi capelli, legati in una lunga oda di cavallo. Marco doveva raggiungere Milano, era partito il giorno prima dal suo paese in Sicilia, dove aveva passato gli ultimi giorni di vacanza. Era un chitarrista blues e lo aspettavano quella domenica al Blue Note per un concerto insieme a Fabio Treves e la Treves Blues Band, con cui aveva già suonato parecchie volte. Lui se l’era presa con comodo ed era partito qualche giorno prima per gustarsi la strada come un’estensione delle vacanze. Non era la prima volta che attraversava l’Italia a quel modo e ogni volta notava qualcosa di diverso nell’aspetto di un borgo o di un paesaggio. Malgrado non fosse più un ragazzino, essere on the road per lui era sempre un’esperienza unica. Aveva passato ogni vacanza della sua vita con lo zaino in spalla a girare Europa e America, non poteva farne a meno. Con gli anni era diventato per lui un modo di essere e non solo un modo di viaggiare. Adorava la sensazione di libertà che gli dava e il contatto che riusciva ad avere con le persone che incontrava strada facendo. Amava la gente.
La vecchia auto era un casino, un po’ come la sua vita in quegli ultimi anni, essere musicista lo portava a viaggiare molto e non riusciva ad avere nulla di stabile che durasse nel tempo. Un grosso amplificatore Marshall adagiato sul sedile posteriore insieme alla sua amata chitarra, pile di giornali vecchi sul sedile del passeggero tenevano compagnia a buste vuote di fast food e bicchieri di Coca Cola e ad una serie di CD in ordine sparso. Non si era mai trovato a suo agio nei posti troppo ordinati.
La radio su cui si era sintonizzato cominciò a gracchiare, il segnale si riceveva a singhiozzo, allora Marco con la mano destra cominciò a frugare tra i resti musicali disseminati in giro. Trovò il CD Riding with the King di B. B. King e Eric Claplton e decise che sarebbe stata quella la sua colonna sonora. Lo infilò nello stereo e cominciò a seguirne il ritmo tamburellando la mano sulla coscia. Cantava: Don't you know we're riding with the king? Riding, you're riding with the king.
Dopo una curva, in lontananza intravide una longilinea sagoma di una ragazza che camminava sul ciglio della strada nella solitudine delle sei di mattina. I lunghi capelli biondi sventolavano al vento da sotto la bandana turchese, portava un piccolo zainetto, anch’esso turchese, sulle spalle e lo indossava quasi fosse un orsacchiotto di peluche. Sentendo una macchina avvicinarsi lei si voltò a mostrare il pollice per chiedere un passaggio. Marco l’osservò meglio, indossava un paio di jeans tagliati che le lasciavano libere le caviglie sottili e una camicetta di cotone bianco leggero a maniche lunghe.
Rallentò per accostarsi e chiederle dove andava «Ma è giovanissima», si disse stupito, quando le fu abbastanza vicino per vederla bene in viso. Nasino alla francese decorato da parecchie lentiggini e due grandi occhi verdi. Aprì il finestrino e le chiese: «Dove sei diretta?» «A Torino», rispose lei con una voce sottile che confermava la sua giovane età.
«Io vado a Milano, se ti può interessare, ti porto fino a lì». «Grazie, sì», disse lei avvicinandosi alla macchina. Fece quasi fatica ad aprire la portiera e Marco fu colpito di nuovo dalla sua giovane età «Non deve avere più di quindici o sedici anni», pensò mentre liberava il posto del passeggero da tutte le sue cianfrusaglie.
Lei si sedette appoggiando bene la schiena allo schienale, mise lo zainetto in terra tra le sue gambe e posò le sue mani sulle cosce in una posizione che mostrava tutto il suo imbarazzo. «Grazie», ripeté in un respiro.
«Mi fa piacere fare il viaggio in compagnia», disse Marco riprendendo la strada. Lei rimase in silenzio con gli occhi fissi fuori dal finestrino e lui si concentrò sulla guida.
Dopo un po’ Marco si accorse che la musica era finita, cercò un CD nel cruscotto. Tirò fuori un album di Ben Harper e lo porse alla ragazza «Puoi metterlo, per favore?» «Cosa?», chiese lei risvegliandosi dai suoi pensieri «Ti dispiace infilarlo nello stereo?», ripeté lui con un gran sorriso. «Ah, certo. Non avevo capito», rispose lei ricambiandogli il sorriso. «A proposito, non ci siamo nemmeno presentati. Io sono Marco», aggiunse lui. «Lory», disse lei dopo un attimo di esitazione.
Lei tirò fuori il CD dalla custodia senza nemmeno guardare di cosa si trattasse e lo infilò nella fessura. Rimase con la copertina in mano per un po’ senza sapere dove appoggiarla, Marco lo notò e gliela prese dalle mani mettendolo giù sul sedile posteriore. «Lo so, sono un casinista. Scusa», e rise. Anche Lory rise, ma non aggiunse altro. Rimasero ancora in silenzio, lui capì che lei era in imbarazzo e non forzò la conversazione «Il viaggio è lungo», rifletté. Dopo una mezz’ora Marco vide con la coda dell’occhio che lei stava seguendo il ritmo della musica con le gambe.
«Ti piace?», le chiese. «Sì», poi silenzio. Un’altra risposta monosillabica.
Lory trovò in terra una rivista musicale e cominciò a sfogliarla. Dalla velocità con cui girava le pagine sembrava che stesse solo guardando le fotografie. Finì la rivista in un attimo e poi riprese a guardare fuori dal finestrino.
Ad un certo punto Marco provò a fare un po’ di conversazione «Cosa ti porta a Torino?» «Tu!», rispose lei un po’ sarcastica. Marco scoppiò in una roboante risata «Che tipo che sei, ragazzina», le disse. «Non sono una ragazzina», ribatté lei fingendo di essere seria. Lui si accorse che lei finalmente si stava rilassando un po’. Lory dal canto suo era contenta che lui non si fosse offeso per la sua risposta un po’ secca.
Marco guardò l’orologio «È ora di farci una bella colazione, al prossimo paesino ci fermiamo». Lei annuì e poi tornò subito a guardare il paesaggio che cambiava velocemente. Sembrava preoccupata.
Marco avvistò un distributore «Mi fermo prima a fare benzina» e si avvicinò alle pompe. Quando scese dall’auto notò che Lory aveva preso il suo zaino da terra e lo abbracciava stretto sulla pancia mentre osservava in giro. «Chissà da cosa sta scappando?», si chiese tra sé e sé. Prese il secchio d’acqua e la spugna per pulire il parabrezza. Mentre lavava via la polvere e gli insetti dalla parte della ragazza, la fissava intensamente, le fece un cenno con la mano e cominciò a farle delle boccacce. Lei sorrise, quando improvvisamente gli tirò fuori la lingua scoppiando in una risata fragorosa. Lui si sentì meglio pensando che forse ora ci sarebbe stato meno imbarazzo.
Marco pagò e risalì in macchina, guardò Lory negli occhi e scoppiò anche lui a ridere. Ripartirono più leggeri. «Ora si va a mangiare», disse lui dirigendosi verso il centro abitato.
Posteggiò proprio davanti all’unico bar del paese, scese dalla macchina e s’incamminò verso l’entrata. Lory non si mosse, restò seduta abbracciando il suo zainetto turchese. Marco si accorse che lei non lo stava seguendo e ritornò indietro verso l’auto «Cosa fai? Non vieni?», le domandò mettendo la sua grande faccia appiccicata al finestrino e alzando gli occhiali da sole per marcare il fatto che stava parlando proprio con lei.
Lory esitò ancora un attimo poi lo seguì dentro al bar, sempre abbracciata al suo zainetto. Si sedettero ad un tavolino e prima di ordinare lei gli sussurrò sottovoce, piuttosto a disagio, «Io non posso pagare». «Lo avevo immaginato», rispose lui con un sorriso. «Non ti preoccupare, offro io».
Il gestore del bar si avvicinò al tavolo «Per me un cappuccino e una pasta alla crema», ordinò Marco «Bene, e per sua figlia?», chiese lui voltandosi senza sorridere verso Lory «Lo stesso», disse soltanto lei mentre incrociava lo sguardo di Marco che stava ridendo sotto i baffi. Rise anche lei. La preoccupazione sulla faccia di Lory scomparve completamente quando mise la pasta alla crema sotto i denti. Si rese conto che era affamata, e che non aveva mangiato nulla dalla mattina passata. Marco sorseggiò il suo cappuccino lentamente osservando Lory divorare la colazione. La vide stropicciarsi gli occhi con le sue piccole dita, bianche e affusolate. Aveva gli occhi lucidi e Marco si chiese se stesse piangendo. Era così giovane e carina, le faceva tenerezza. Rifletté sul fatto che lui, a quarant’anni, non aveva figli e non aveva mai pensato di farsi una famiglia. Fin da ragazzo aveva un solo sogno, la chitarra e nella sua vita non c’era stato posto per altro. Ora, viaggiare con una bambina lo inteneriva a tal punto dal chiedersi se avesse fatto bene. La vedeva così piccola e indifesa che sentiva quasi il desiderio di proteggerla. Non gli era mai successo di trovarsi in una situazione del genere. Frequentava molti ragazzi giovani per le lezioni di chitarra che lui impartiva, ma nessuno mai lo aveva toccato così in profondità.
Quella ragazza bionda e minuta che se andava in giro da sola per la provinciale alle cinque di mattina, pensando di evadere da qualcosa di misterioso, sprigionava un’aura speciale che lo aveva incantato.
«Sei un musicista?» chiese ad un certo punto Lory. Lui si stupì di questa apertura, dopo i lunghi silenzi che c’erano stati in macchina, non se l’aspettava. «Ho visto la chitarra», continuò lei. Marco le sorrise «Sì, infatti. Sono un chitarrista. Sto andando a Milano per un concerto». Dopo una breve pausa lui continuò «E tu?», approfittò dell’apparente disponibilità per chiedere notizie. Era curioso. «Vado dal mio ragazzo», rispose lei con una semplicità che sembrava po’ costruita a nascondere altro. Non disse più nulla. Lui si chiese allora se i suoi genitori sapessero che lei era partita, in autostop e senza soldi, per andare dal suo fidanzato, anzi si domandò anche se il suo fidanzato fosse a conoscenza del fatto che lei lo voleva raggiungere. Marco voleva saperne di più sulla sua storia. Finì il suo cappuccio e poi aggiunse: «Bello, il tuo fidanzato sarà contento di vederti. Deve essere difficile vivere così lontani l’uno dall’altro». Lei rimase in silenzio mentre il gestore ritirava le tazze del cappuccio dal tavolo e poi disse quasi sottovoce «Immagino di sì, lui non lo sa. Ma sarà contento». Marco rimase in silenzio per qualche minuto «È a Torino per lavoro?», lei non rispose. «Dico, il tuo fidanzato lavora lì?», ripeté lui allora.
«C’è andato perché ci siamo lasciati, ma so che sarà contento di vedermi», rispose allora lei. Marco ebbe l’impressione che lei cercasse di auto convincersi che stava facendo la cosa giusta. Decise di non insistere. Lory si alzò per andare in bagno, lasciò il prezioso zainetto sulla sedia. Lui lo interpretò come un segno di fiducia, ne era contento.
Lo raccolse, se lo mise in spalla e andò a pagare. Lory ritornò dal bagno e prese lo zaino dalla spalla di Marco con un gesto tutto naturale. «Grazie», disse solo con la sua giovane voce. «Grazie a te, ragazzina» disse lui. Questa volta lei non protestò. Il ghiaccio era rotto. «È ora di rimetterci in cammino, su, andiamo». Ritornarono insieme alla macchina e ripresero il viaggio.
Marco aprì il cruscotto e le mostrò la sua collezione di CD «Ti occupi tu della musica, ok?» «Perfetto», e Lory contenta si mise a rovistare tra i molti titoli. Trovò un album di Chet Baker e lo mise su, tutta soddisfatta della scoperta, quasi come se avesse trovato una pepita d’oro. Marco cominciò a battere il tempo sul volante e a canticchiare sottovoce. Lei tornò silenziosa per qualche minuto, poi ad un tratto domandò: «Se tu avessi 18 anni e avessi messo incinta la tua fidanzata, avresti paura?». Lui, stupito per la domanda improvvisa, smise di colpo di tenere il tempo «Ecco di cosa si tratta», pensò e le rispose «Penso proprio di sì, e molto anche» «Sai, il mio ragazzo aveva paura, ma cercava di nasconderlo», fece una pausa e poi continuò «Si è arrabbiato con me come fosse stata colpa mia e poi è partito, a Torino abita il suo migliore amico».
«È sicuramente una situazione difficile per tutti e due», cercò di rassicurala Marco. «Una nuova vita è una grossa responsabilità», proseguì lui. «È normale che lui abbia avuto paura». Lei non parlò più per una buona mezz’ora, si vedeva che aveva il magone e che cercava di trattenere le lacrime. Non voleva che Marco la vedesse piangere e provava a nascondere il viso girandosi verso il finestrino. Lui non insistette, intuiva la sua pena, aspettò che fosse lei a continuare. Quando finalmente lei parlò, non riuscì più a trattenere le lacrime e scoppiò a piangere «Lo devo assolutamente trovare, non posso farcela da sola», disse tra i singhiozzi. Si asciugò subito le guance con le mani e cercò di riprendersi. Marco avrebbe voluto stringerla e dirle che tutto si sarebbe aggiustato, ma aveva paura di metterla in imbarazzo. La sua fragilità lo colpiva profondamente, ma anche il suo coraggio di prendere e andarsene di casa così da sola, alla ricerca di una soluzione.
Mentre teneva fissi gli occhi sulla strada pensava a che tipo di famiglia potesse essere la famiglia di Lory. I suoi genitori che tipi erano? Si chiedeva se lei gli avesse detto qualcosa o li avesse tenuti all’oscuro, come credeva più probabile visto l’angoscia che Lory sembrava provare. Non sapeva bene cosa dire in quella situazione, si sentiva in imbarazzo anche lui. «Come vi siete conosciuti?», chiese poi lui pensando che forse era meglio prenderla alla larga. «A una festa, sai com’è», sospirò lei. «Ci siamo piaciuti subito, le mie amiche dicevano che era veramente carino. Poi …», fece una pausa e anche Marco restò in silenzio, voleva che fosse lei a parlare, non pensava fosse giusto forzarla. «poi, è successo», concluse infine lei. Aveva smesso di piangere. «Ho paura», aggiunse dopo un po’.
«Hai tutte le ragioni di essere spaventata». Marco le sorrise e riuscì a strappare un debole sorriso anche a lei. «Ma sei sicura che andare a cercare un ragazzo che se n’è andato quando ha saputo che eri incinta sia la cosa giusta da fare?», andò al sodo. «Non ho scelta», disse lei con una fermezza che non sembrava figlia della sua età.
Marco preferì non esagerare, in fondo non era suo padre, non era certo lui che doveva dirle cosa avrebbe dovuto fare anche se era tentato di farlo. Lui era solo uno sconosciuto in cui lei si era imbattuta qualche ora prima.
Lasciò che Lory si tranquillizzasse guardando il panorama dell’Appennino, ora la strada stava salendo. Cambiò discorso e per un po’ parlarono di musica e di concerti come se non avessero mai parlato d’altro.
Marco continuò a guidare fino all’ora di pranzo. «fame?», le domandò ad un tratto. «Sì», rispose lei. «Ma sono sempre senza soldi, come prima» «Lo so, ma non posso mica farti morire di inedia, no?», disse lui ridendo. «Tra un po’ ci fermiamo».
Lasciarono passare un paio di piccoli paesini e poi si fermarono in un centro abitato che sembrava un po’ più accogliente. Posteggiarono l’auto nella piazza centrale e scesero a cercare un posto dove pranzare. Trovarono una bella pizzeria in una stradina secondaria. Erano gli unici clienti. Si accomodarono in un tavolo verso il fondo del locale. Lory si allontanò per andare in bagno mentre Marco ordinava due pizze con le verdure grigliate. Lei ritornò al tavolo senza bandana e con i bei capelli biondi raccolti in una coda di cavallo «Sembra ancora più bambina, pettinata così», pensò lui guardandola mentre si avvicinava. Lei si sedette: «Grazie». Marco pensò che fosse particolarmente tenera nella sua ingenuità adolescenziale, aveva voglia di accarezzarle la guancia, ma preferì non farlo. Per un attimo gli sfiorò il pensiero che forse aveva fatto male a non voler avere figli.
Arrivarono le pizze. «Ma i tuoi genitori?», le chiese Marco «Non sanno nulla», rispose lei «Mi ammazzerebbero se solo immaginassero», aggiunse. «Saranno in pensiero, non credi?», continuò Marco esternando una preoccupazione reale. «Già», disse solamente lei e restò in silenzio. «Non posso tornare a casa». «Perché no? Forse non hai abbastanza fiducia nei tuoi genitori. Sono sicuro che capirebbero». «Credi?», domandò Lory che si sentiva abbastanza confusa. «Io penso di sì, in fondo ti hanno cresciuta. Ti vogliono bene», lui fece una pausa per cercare di capire cosa le stesse passando per la testa e poi continuò «Io proverei a telefonare, se fossi in te». Lory non rispose. Aveva lasciato tutte le croste della pizza in fila sul bordo del piatto e cominciò a rosicchiarle nervosamente una per una. Marco capì che quello era il momento buono per insistere «Sei stata così coraggiosa ad arrivare fino a qui da sola, sono sicuro che ce la puoi fare. Una telefonata e vedi come reagiscono». Sorrise teneramente per addolcire quello che stava per dire. «Se il tuo ragazzo è scappato a Torino, non credo voglia essere raggiunto».
Lory abbassò gli occhi. «Forse hai ragione», sospirò. Marco estrasse dalla tasca il suo cellulare e glielo posò gentilmente di fronte. «Solo se te la senti», le fece cenno con la mano di prenderlo. «Andrà tutto bene, vedrai.», disse per rassicurarla.
«Ci devo pensare», affermò lei fissando il telefono. Marco pensò di lasciarla sola per un attimo e si alzò per andare in bagno. Quando ritornò dalla toilette la vedeva di spalle. Mentre avanzava notò che stava parlando e allora rallentò il passo.
«Sì, Papà», la sentì dire «Sto bene, sono vicino a Roma». Fece una pausa per ascoltare «Ho fatto l’autostop. Sono stata fortunata». Altra pausa «È una brava persona, mi ha detto lui di chiamarti». Marco si sedette al tavolo e rivolse a Lory un sorriso di sostegno, lei continuò «Ascolta papà, ti devo dire una cosa … sono incinta». Lory lo sparò fuori come una fucilata mentre guardava Marco negli occhi come per cercare un appoggio. Lui le prese la mano e gliela strinse forte, facendole l’occhiolino. «Sì, papà. Lo so. Ero scappata per cercarlo, ma ora ho capito che voglio tornare a casa». Lei ascoltò cosa le stava dicendo il padre per qualche minuto poi rivolse il telefono verso Marco e disse: «Mio papà ti vuole parlare». Lui, colto alla sprovvista, esitò un attimo, ma poi pensò che era la cosa giusta da fare. «Pronto?» «La devo ringraziare per quello che ha fatto per Cristina», disse la voce di un uomo con un leggero accento Palermitano. Marco si stupì quando sentì il padre chiamare Lory con il suo vero nome, aveva intuito che ne avesse usato uno falso e pensò che comunque per lui sarebbe sempre stata Lory. «Non ho fatto nulla, mi era solo parso che sua figlia fosse un po’ confusa» «Le chiedo un ultimo favore, se la cosa non la porta fuori strada», domandò timidamente il padre di Cristina «Io pensavo di far trovare un biglietto aereo all’aeroporto di Campino, in modo che possa tornare a casa». Marco rispose senza esitazione «Non c’è alcun problema, l’accompagno con piacere».
Finita la conversazione Marco pagò il pranzo e si avviarono verso l’automobile. «Non potrò mai dimenticare quello che hai fatto per me», disse Cristina mentre imboccavano la strada per l’aeroporto. «Io non ho fatto nulla. Hai deciso tutto da sola», replicò lui «È stato solo un caso che tu abbia incontrato me». «Già», disse lei facendogli l’occhiolino «Un caso», e finalmente sollevata rise di cuore.
Arrivarono all’aeroporto e passarono al check in a ritirare il biglietto. Marco la volle accompagnare fino all’imbarco, con un velo di malinconia l’abbracciò stretta. «Abbi cura di te, ragazzina». Lei lo baciò teneramente sulla guancia e si avviò verso l’uscita. Si girò un’ultima volta a salutarlo prima di varcare la soglia. Marco pensò che fosse stato il più dolce incontro della sua vita.

sabato 19 settembre 2009

il gesto

Assopito. Il gesto della mano che mi ha tormentato. Dormiente nel ricordo, in fondo ad ogni cosa. C’è. Resta lì, in attesa di essere ripescato, ripensato, rielaborato.

Un guazzabuglio di parole in un recipiente sporco. Imbrattato dalla malafede, dalla disonestà di chi non vuol sapere. Di chi alla leggerezza assegna sempre un peso. Mistificazione della verità.

E resta lì, sospeso, quel gesto maledetto, e maledetto fu il giorno che mi colpì. Senza un perché.

Brucia la terra, il cuore liquefatto ammorbidisce l’aria. Il gesto. Inciso nel cervello, non si cancella. Lì come uno sfregio, non si nasconde. Dal vetro infranto si rispecchia un tulipano giallo.



(Auguste Rodin - Le Mani)

domenica 30 agosto 2009

mai più senza amore

pubblicato sul settimanale Vera n°10 del 25/08/09


Il ragazzo senegalese chiedeva soldi. Era già da un po’ che Gianna, seduta ad un tavolino del bar, lo vedeva andare su è giù per il marciapiedi assolato. Alla terza volta che le passava di fianco gli fece un gran sorriso. Lui le si avvicinò allungando la mano aperta verso di lei.

«Un euro, per mangiare?»

«Siediti qui con me», le rispose Gianna indicando la sedia libera di fronte a sé. Il senegalese ricambiò il sorriso con uno sguardo interrogativo. Lei continuò: «Ti offro qualcosa».

Lui esitò un secondo, poi si sedette. Il cameriere, che aveva visto la scena, arrivò subito come se volesse dire qualcosa. Gianna, per paura che potesse obiettare il suo gesto non aspettò e ordinò subito: «Un cappuccio e una brioche per il signore».

«Subito», rispose il ragazzo, che fece dietro front senza nemmeno accennare ad un sorriso.

«Come ti chiami?», chiese Gianna al suo ospite. «Rasul», rispose lui con un lieve imbarazzo. «Bel nome, io sono Gianna».

«Anche il tuo è un bel nome, signora», disse lui mentre il cameriere posava la tazza e il piattino con la brioche sul tavolo. Gianna pagò per Rasul.

«Tutto bene?», chiese lei. «Sì signora, tutto bene». Lui addentò la brioche e Gianna non fece più domande. Lo guardava sorridendo. Poi ad un certo punto le cadde l’occhio sull’orologio e gli disse: «Stai qui seduto e finisci con calma, io devo andare a lavorare». Lui abbozzò un sorriso tra un sorso di cappuccio e l’altro. «Grazie», sussurrò solamente.

Gianna si allontanò pensando: «Se va tutto bene a lui, di che mi lamento io?».

Gianna arrivò in università in ritardo, gli studenti erano già tutti lì. Fece la sua lezione così come l’aveva in testa senza aver potuto preparare nulla prima. Andò bene lo stesso. Il caso aveva voluto che la sua collega si trasferisse all’estero lasciando nelle sue mani il progetto di drammaturgia teatrale elaborato insieme da portare avanti fino all’esame, lei ne era entusiasta e si era buttata sulla cosa con tutta la sua energia Si trovava bene con i suoi studenti e le piaceva molto stare tra i giovani perchè le dava un senso di leggerezza. In questo periodo della sua vita, dove si sentiva soffocare dagli eventi, ne aveva un gran bisogno. Aveva perso da poco entrambe i genitori in un incidente stradale e non aveva ancora superato pienamente il colpo che aveva accusato. In aggiunta, dopo vent’anni di matrimonio, cominciava ad avere la sensazione di non essere più innamorata di suo marito. Lui era una brava persona che le voleva un gran bene, ma ultimamente lei era arrivata a non sopportare più la sua presenza. Si sentiva fredda e distaccata senza avere un motivo così evidente. Aveva dato la colpa alla perdita che aveva appena subito, ma sotto sotto lei sentiva che c’era di più.

Alla fine della sua lezione s’incamminò verso l’uscita insieme ad alcune studentesse e rimase a chiacchierare alla fermata con una paio di loro mentre aspettava il bus per tornare a casa. Era così presa dalla conversazione che quasi lo perdeva. Non aveva tutta questa voglia di ritornarci, a casa. E Anche la sua distrazione sembrava quasi un modo per allontanare quel momento.

Salì sul tram, trovò un posto a sedere e il suo viso si rabbuiò. Fece tutta la strada verso casa cercando di allontanare i pensieri. Provava a concentrarsi sul suo progetto teatrale, ma le sue riflessioni la riportavano sempre a pensare che non voleva tornare a casa.

Entrò nel suo appartamento silenzioso e buio. «Bene, non è ancora arrivato», pensò con un sospiro di sollievo. Lasciò la borsa e le scarpe all’ingresso e scalza percorse tutta la casa ad aprire le persiane. La luce estiva entrò invadente ad illuminare il viso di Gianna e a far brillare i suoi grandi occhi azzurri, sempre splendenti, nonostante la malinconia di questi ultimi mesi. Fece un gran respiro e il profumo dei gelsomini che aveva in terrazza le riempì i polmoni.

Decise di farsi una doccia prima di cominciare a preparare la cena e si diresse verso il bagno. Sì spogliò, lasciando cadere i vestiti per terra. Mentre stava entrando sotto il getto d’acqua calda sentì sbattere la porta d’ingresso. Sobbalzò, ma continuò in quello che stava facendo, senza fermarsi.

Dopo un attimo sentì bussare alla porta del bagno. «Avanti», disse Gianna. La testa brizzolata e barbuta di Giorgio, suo marito, fece capolino sorridente dalla porta semiaperta. «Non avere fretta, ho una cena di lavoro. Sono tornato a casa per cambiarmi, ma esco subito». Lei rimase dietro la tenda della doccia, «Va bene», furono le uniche parole di Gianna, mentre si risciacquava lo shampoo dai capelli. Giorgio uscì di casa dopo soli pochi minuti. «Farò tardi, ciao», aggiunse lui velocemente prima di chiudere la porta. Gianna, che era ancora in bagno, non rispose nemmeno. Ma lui probabilmente non l’aveva nemmeno attesa la sua risposta. Il lavoro era tutto per lui e ora poi, che aveva aperto uno studio legale insieme al suo migliore amico, ne era completamente assorbito.

Gianna osservò il suo viso nello specchio, non sapeva spiegarsi il perché di quel disagio ogni volta che suo marito le era accanto. Eppure lui le voleva molto bene e la trattava sempre con un grande rispetto. Si sedette sul bordo della vasca avvolta dal suo accappatoio blu con la testa tra le mani e tirò un gran sospiro. Avrebbe fatto come le suggeriva lui, se la sarebbe presa con comodo.

Si asciugò i capelli, si mise in pigiama. Prese il telefono e chiamò la pizzeria sotto casa.

«Volevo ordinare una pizza ortolana e una birra, grazie», disse, pensando che evitare di cucinare fosse un ottimo inizio di serata.

Andò in salotto, cercò un film tra i dvd «Ecco, il favoloso mondo Amelie, perfetto. Lo rivedo volentieri», e si spaparanzò sul divano in attesa della sua cena.

Quando si coricò, poco dopo mezzanotte, suo marito non era ancora tornato. Non se ne preoccupò. La sensazione del letto tutto per sé non le dispiaceva.

La mattina seguente la sveglia suonò alla solita ora. Giorgio era già in cucina, Gianna sentiva l’odore di caffé attraversare la casa e stuzzicarle le narici. Non si era nemmeno accorta del suo ritorno quella notte. Si alzò e lo raggiunse di là, lo trovò già vestito e pronto per uscire.

«Buon giorno, ti ho preparato il caffé, io devo scappare», le disse posandole la tazza sul tavolo «Ho una riunione prestissimo». Si avvicinò per baciarla, ma lei fece finta di non notarlo e lo evitò girandosi per prendere la zuccheriera. «È già zuccherato», disse lui. «Ciao, buona giornata», gli rispose lei solamente. Lui uscì con le sue carte sottobraccio e lei si preparò con calma per la sua lezione, dopo un’oretta uscì anche lei.

Passarono un paio di settimane con i giorni tutti un po’ uguali a sé stessi, e l’umore di Gianna non sembrava migliorare. La comunicazione tra lei e Giorgio era ormai completamente interrotta. La cosa che stupiva Gianna era la competa assenza di sensi di colpa. Giorgio sembrava così preso dal lavoro da non accorgersene neppure, e lei non faceva nulla per cambiare le cose.

Una mattina, al bar, Gianna si sedette al solito tavolino appena fuori dalla porta e notò Rasul in piedi sull’angolo della via, sembrava quasi che l’aspettasse, ma non avesse il coraggio di avvicinarsi. Avevano preso l’abitudine di incontrarsi tutte le mattine per fare colazione insieme, Gianna amava molto conversare con lui. Lei gli sorrise e lo invitò al tavolo. Lui esitò, ma lei insistette e Rasul allora si avvicinò.

«Ciao, Rasul, cosa c’è, non ti siedi?». «Devo andare», le disse quasi sottovoce restando in piedi. «Ma cosa è successo?», chiese Gianna un po’ allarmata. Il cameriere li vide e fece cenno con la testa di aver capito, dopo qualche minuto arrivò con due cappucci e due brioches.

«Volevo darti questo, Gianna», le disse tirando fuori dal grande borsone che aveva a tracolla un quadernetto con la copertina in pelle tutta consumata. «Domani torno in Senegal, mia mamma sta male», continuò. «Oddio, mi dispiace», esclamò Gianna.

«È molto vecchia. Poi tornerò e porterò mia moglie e mia figlia». Aggiunse sorridendo. Gianna non poté che ricambiare quel bel sorriso. «Voglio che quando tu torni, me lo fai sapere», gli disse lei mentre scriveva il suo numero di telefono sul retro di un piccolo depliant. Quando il cameriere arrivò Rasul se n’era già andato, appoggiò lo stesso i cappucci sul tavolo e Gianna pagò come al solito.

Aveva tra le mani il quadernetto di pelle, ma non osava aprirlo, si sentiva quasi un’intrusa. Lo mise in borsa così, senza violarlo. «A casa, con calma», pensò.

E così fece. Augurò la buona notte a Giorgio, si infilò il pigiama e si buttò sul divano con il libricino in mano. Studiò ancora l’esterno di pelle marrone, lisa negli angoli, girandoselo tra le mani. Poi lo aprì ad una pagina a caso. Una scrittura fitta riempiva le spesse pagine ecru. Cominciò a leggere dalla prima pagina, era scritto in francese. «Carissima Marèm, in un villaggio molto lontano da qui vive una bambina felice». Era una favola. Continuò a sfogliarlo con curiosità, erano tutte favole ed erano tutte dedicate alla sua bambina. Parlavano della sua terra, del villaggio del nonno, della città che lo aveva accolto, dei tanti viaggi che aveva fatto.

Gianna si tuffò nella lettura e perse completamente la nozione del tempo. Lesse per quasi tutta la notte. In tutte c’erano meravigliosi riferimenti ad amore e libertà che l’appassionavano e le facevano rendere conto quando arida fosse diventata la sua vita di questi ultimi anni.

Si svegliò la mattina dopo con Giorgio che le scuoteva una spalla. Le portava una tazza di caffé fumante.

«Lavorato troppo?», le chiese. Lei si sciolse con un grugnito da quella posizione rannicchiata che aveva assunto per dormire sul divano. «No, leggevo. Ma che ore sono?», mugolò aprendo un occhio.

«Le dieci», rispose lui e Gianna ebbe un sussulto e si tirò subito seduta. «Non ti preoccupare, è sabato», l’anticipò Giorgio.

«No, pensavo a Rasul, sarà arrivato!», esclamò lei sovra pensiero. «Chi è Rasul?», chiese lui incuriosito. Gianna si rese conto che per due settimane lei aveva fatto colazione con Rasul, avevano conversato, avevano diviso confidenze e non si era mai preoccupata di raccontarlo a Giorgio. «Un ragazzo senegalese che vedevo spesso al bar dove faccio colazione», disse lei e aggiunse: «So che tornava dalla sua famiglia». «Ah», disse Giorgio senza chiedere nient’altro.

«E tu che fai già tutto vestito di sabato?». «Niente, pensavo di passare dall’ufficio per un’oretta prima di pranzo».

Gianna si sdraiò di nuovo sul divano con un debole «Mah». «Gianna, ho accettato l’incarico. Che vuoi che faccia?». «No, niente. Va bene così», rispose lei poco convinta.

«Preparati per l’una, su dai. Ti porto a mangiare al ristorante indiano», cercò di consolarla Giorgio. «Ok», disse lei semplicemente richiudendo gli occhi.

Giorgio uscì ricordandole: «All’una, Gianna». La porta d’ingresso si chiuse alle sue spalle e Gianna prese in mano il libricino.

Lei e Giorgio si conoscevano dai tempi dell’università lui studiava giurisprudenza e lei drammaturgia. Non c’era stato un vero colpo di fulmine, ma grazie ad amici comuni si frequentarono abbastanza per arrivare a mettersi insieme. Fu sempre una relazione tranquilla senza troppa passione, ma con un grande rispetto reciproco.

Qualcosa però era successo durante il percorso. «Forse il fatto che lui non abbia voluto figli», pensò Gianna alzandosi dal divano. «Oppure la responsabilità del nuovo studio legale che lo porta sempre fuori casa». Non c’era mai stato motivo di astio tra i due coniugi, non litigavano quasi mai. «Ci siamo allontanati, semplicemente. Come due pezzi di legno alla deriva che seguono correnti diverse». Prese con sé il quaderno di Rasul. «Ciò che voglio è qui dentro», mormorò tra sé e sé avviandosi verso la camera da letto. Tirò fuori una valigia capiente e l’appoggiò aperta sul letto. Si guardò intorno, aveva poche cose a cui era particolarmente affezionata. Aprì l’armadio dei vestiti e cominciò da quelli, ne prese alcuni senza nemmeno sceglierli e li buttò alla rinfusa nella valigia insieme a un paio di libri e al suo diario.

Tirò fuori dal cassetto dello scrittoio le chiavi del monolocale che le aveva lasciato in eredità suo papà, che per fortuna era rimasto sfitto. «Avrà bisogno di qualche lavoro, ma per ora andrà benissimo», pensò. Per ultimo prese anche carta e penna e si sedette. Esitò un secondo, poi iniziò a scrivere: «Carissimo Giorgio, non so bene come cominciare questa lettera. Posso solo dirti che ho bisogno di tempo da sola per capire che cosa è per me l’amore …»