mercoledì 25 maggio 2011

Motherhood in red

acilico su cartapesta e cartoncino
©2011 Donatella D'Angelo

intimacy in white

acrilico su cartapesta e cartone (33 x 37 cm)
©2011 Donatella D'Angelo

Del sole spento e della morte (1 puntata)




Nulla faceva presagire che sarebbe successo, perché niente sembra mai essere ciò che è in realtà. Non si ha la coscienza del dramma, di solito è destinato sempre agli altri; un modo imprudente di evocare il nostro senso d’immortalità.

Non penso tu mi abbia notato, trasparente come so essere io tra la folla, riesco a passare completamente inosservata. Un aspetto non trascurabile, la trasparenza, in un mondo come questo. Fatto di apparenze.

Io ti osservavo, invece. Seduto all’estremità opposta del tavolo, precario sulla sottile sedia in alluminio, che facevi dondolare su due gambe. Avanti e indietro a scatti, quasi a dire che avresti voluto essere da qualche altra parte; da qualsiasi altra parte, ma non lì, a riempire un locale già abbastanza affollato, un sabato sera uguale a tanti altri.

Noi si parlava e si rideva, ma tu restavi in silenzio. Il tuo era un silenzio nervoso, un silenzio lento con lievi accelerazioni. Che si alzava con te e ti seguiva mentre lasciavi il locale per rispondere al telefono.

I miei occhi, colpevoli di averti notato, provavano a fissare la tua immagine nella memoria nonostante tu, nella tua impercettibile danza, sfuggissi al loro contatto.

Ma è stato solo al momento dei saluti che ho sentito che ci saremmo rincontrati, quando ti è scappato un sorriso. Un sorriso semplice. Sorriso che avrei sofferto così tanto in seguito.

E così è stato. Ci siamo rivisti. Non più tardi di qualche settimana dopo quel sabato sera, uno scontro frontale nel bel mezzo del marciapiedi. Un attimo per capire dove mi avevi già visto e poi ancora quel sorriso.

Non ero poi così sicura che avessi veramente capito chi fossi, ma in quel momento non importava: mi stavi già invitando a bere un caffè.

«Che caso», hai ripetuto più volte tra una frase e l’altra, forse per colmare il vuoto dell’imbarazzo, ma io so che le coincidenze non vengono mai per caso. Tu questo non lo sapevi ancora.

Solo un attimo di esitazione, uno sguardo intorno e ti avviavi con le tazze di caffè verso l’unico tavolino libero, in fondo alla sala. Lontano dalla luce della vetrina.

Io mi sedevo accanto a te, scegliendo di stare a tre quarti. Non ero ancora pronta per incontrare il tuo sguardo diretto.

Nella penombra i tuoi lineamenti tornavano a essere gli stessi del sabato sera al locale, di un’intensità che la luce del sole non sapeva esaltare.

L’ombra marcata del naso, leggermente aquilino, che muore sulla guancia, la barba di qualche giorno con riflessi grigi a tradire l’età. La voce, quella no, non aveva età invece. Era profonda, dal petto.

Non ti facevo domande, non ce n’era bisogno. Orfano di quel silenzio che mi aveva catturato la prima volta che ti vidi, tu parlavi di te stesso senza timidezza alcuna. Nemmeno tu facevi domande, era quasi un monologo. Immerso nella tua necessità di raccontarti avevi lasciato freddare il caffè nella tazza senza berne nemmeno una goccia.

Ma io non ti ascoltavo, rapita dalla sovrapposizione della luce sulle zone d’ombra, studiavo il chiaroscuro del tuo viso, attenta a non farmi sorprendere. Pensavo che se avessi allungato la mano avrei potuto toccare quelle curve che l’ombra disegnava quasi in modo perfetto proprio a marcare le tue labbra in movimento.

Le mie mani, invece, erano ferme. Tenute giunte e adagiate sulle cosce sotto al tavolo. Mi sforzavo di tenerle immobili ora, perché sapevo che sarebbe venuto il loro momento, poi.

Mentre pagavi alla cassa, io attendevo sulla porta il tuo saluto e la conferma che ci saremmo rivisti. Un po’ un mio destino quello di attendere conferme.

«Allora, sabato?» mi ha detto avvicinandoti per baciarmi la guancia.

«Perfetto», ho risposto io voltandomi in modo che il bacio, finito poi sulle labbra, sembrasse casuale.

martedì 17 maggio 2011

troppe parole

Speech di Nicola Kane - dettaglio (*)

Troppe parole. Parole inutili, spogliate del loro significato, che riempiono vuoti incolmabili. Impilate come scatole di cartone. Parole rigurgitate in frasi sgrammaticate, in una contorsione linguistica adatta solo a biglietti d’auguri per amori improbabili.

Scritte in fretta per scacciare la noia. O la paura. Un movimento continuo che impedisce di riflettere; di accorgerti che sei solo e che non ti è mai piaciuto esserlo.

O meglio: che non sei mai stato capace di stare solo.

Temi l’immagine di te stesso e la proietti sull’altro in modo da vivere di luce riflessa. Non sei costretto a guardarti. Non ne saresti più capace ora, la luce diretta confonde la vista. Gli occhi ti fanno male e tu, di dolore, non ne vuoi sentire più. E lo giuri a te stesso.

È facile mantenere la promessa, ti viene restituito esattamente ciò che hai dato di te, una selezione prevedibile del meglio e del peggio. Così, per non restare mai deluso, dai e ricevi ciò che ti aspetti, senza alcun investimento emotivo. E nessuno sarà mai costretto a conoscerti per quello che sei: un capriccio del tempo.

Ti ritrovi in una continua masturbazione intellettuale a svendere le tue emozioni per un grammo di adrenalina. Non è questo a cui tu ambivi, ma la disperazione di una crisi di astinenza è ben peggiore e tu sai benissimo che non te la puoi permettere.




(*) Photos: Typographic interpretation. Martin Luther King’s ‘I Have a Dream’.

A hand rendered typographic interpretation of Martin Luther King’s ‘I Have a Dream’ speech. The piece focuses upon King’s use of metaphor, in particular his reference to land, drawing from landscape to create the form for the handwritten words. It also considers physical aspects of the 1963 march such as the steps upon which the speech was made, and the mass of people present as King spoke.

http://www.kith-kin.co.uk/presents/index.php/london-08/speech/