mercoledì 29 aprile 2009

Favola da un mnuto #1

L’uomo si rivoltò contro l’indifeso. Era più facile così.
Vederlo coperto di stracci lo liberava dai sensi di colpa che negli anni lo avevano reso cieco e sordo, con un cuore duro come un pezzo cuoio.
Lui ne aveva parecchi di sensi di colpa. Nascevano dai suoi pregiudizi.
L’indifeso non reagì. La sua forza era quella del cuore. Si tolse gli stracci e si sedette di fianco al rivoltoso.
“Vedi” gli disse sorridendo “son uomo come te, la mia sofferenza è uguale alla tua”.

lunedì 27 aprile 2009

Guerriero

Ti vedo guerriero bambino,
la tua immagine espressa.
Ti vedo aggrappato feroce
ad un solitario bagliore.
Ti vedo la grinta nel cuore
il desiderio e il timore.

Nel silenzio del tuo sudore
Ti vedo, ti sento e ti sfioro.

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lunedì 20 aprile 2009

Come Rain or Come Shine

Versioni diverse interpretate da vari artisti:

Frank Sinatra, John Coltrane, Toots Thielemans & Lizz Wright, Clapton & B.B. ing, Billie Holiday, Cassandra Wilsson, Etta james, Don Henley, Ray Charles, Art Pepper, Dianne Reeves



E poi il regalo da portarvi a casa lo trovate QUI

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giovedì 16 aprile 2009

Pensierini senza titolo (rivisti)

#1
Quintali di brodo,
sulla mia strada.
Selvaggia mente,
vergognosamente,
immorale vaga.
Possente pensiero,
potente.


#2
l’uomo e la mente,
occhio che sente,
parola celata,
mai pronunciata.

E se ne va …

Poesia
E così sia …


#3
Greve.
Taccio
parole.
Torpore d’autore.
Urlo
Dentro.



#4
Amore al plurale
in letti singoli,
frammenti
di un’unica immagine.

Pietà rifiutata
in un gemito opaco,
limitato
al desiderio di essere.

Natura sincera,
al di là degli occhi,
taciuta
per pudore d’amare.



#5
Cupa nella sua assenza,
la luce si sottrae alla vista,
taciuta consapevolezza,
di un lungo inverno che non si arrende.



#6
Mi allontani
perché amo,
non so fare altro.
Vivo di quello.
Mi allontani.
Ti amo lo stesso
un amore discreto,
da lontano.
Lo meriti, l’amore.
Non il mio magari,
quello del mondo
che conosci.
Non me, lo so
non sai chi sono.



#7
Fragile vento,
segno,
desiderio tradito
e parole,
rubate.

timida rugiada,
strofa,
d’amore vestita,
un mondo,
diviso.



#8
Sorge dall’amore il male.
Si erge nel mezzo del cuore,
a mo’ di pugnale.

Confusa la mente invoca
nel chiasso delle emozioni,
la quiete.



#9
Guardami.
Con gli occhi del cuore.
Osservami da vicino,
vedrai
i miei sogni.

Sentimi.
Con l’estro dei sensi.
Sfiorami lentamente,
potrai
toccare l’anima.


#10
Silere.
Agire d’assenza.
Espressione
d’umore.

Sapere.
Percepire l’idea.
Indicibile,
indugia.


#11
Sul mio cuscino
il profumo
del mio riscatto.

Non ha poi vinto
il passato
come volevi tu.

Ho allontanato
Il buio
con un sospiro.




(Post precedente rivisto e corretto)

mercoledì 8 aprile 2009

Esercizio di calligrafia #2

È una sensazione familiare. Lo sconforto. Me la porto dietro da quando ero bambina. Perché il danno arriva da lontano.
Lei ciondola. Mia mamma. Si nasconde dietro occhiali scuri. Non fa amicizia con le altre mamme. All’uscita dell’asilo. Non la vedo mai chiacchierare.
Mi prende per mano. Mi strattona un po’. E mi porta a casa. È un’immagine chiara che ho. Distinta. Permanente.
Non so cosa mi ha impedito di percepire la mia vita in tutta la sua drammaticità. Difesa? Spirito di conservazione?
Immagini crude nella loro violenza. Sono lì nella mia memoria. Rielaborate dalla freddezza della ragione. Spogliate brutalmente della loro forza emotiva come per convincermi di non averle mai vissute. O vissute un po’ meno.
È la mia stessa vita che me le ripresenta, le immagini. Periodicamente. Occasioni infelici per soffermarmi su quella miseria.
La “normalità”, rappresentazione imposta. Esterna. Non era per me. Non era mia.
Non ho coscienza di quando sia stato il momento esatto. L’attimo in cui me ne sono resa conto. L’episodio.
Quel momento, però, c’è stato. E le cose hanno cominciato ad avere un aspetto differente. Una distorsione della percezione delle cose stesse. Un’immersione totale in un mondo sofferente e delirante. Lo stesso mondo che mi a seguito fino ad oggi.
Le ho relegate in una parte remota della memoria. Sensazioni inopportune. Ho provato a cancellarle.
Tornano sempre, quelle immagini. Invece. In modo forte e brutale.

I miei sensi all’erta. Al ritorno da scuola. Bambina. Sento ancora forte quel terrore che sale alle tempie. L’attesa.
Non sapere cosa mi aspetta dietro la porta. È casa, ma può anche non esserlo oggi.
Salutata l’ultima amica all’angolo. Spento l’ultimo sorriso. Guardo in su, verso il nostro balcone. La vedo la sua testa che mi cerca, agita il braccio. Mi saluta. La mamma.
È sempre lì, aspetta me, per riempire la sua solitudine casalinga. Ma quando non c’è. È peggio.
Passo il portone, salgo le scale. Mi giro verso il gabbiotto del portinaio. Non so se sorridere. Prima osservo cosa fa lui. So calcolare il peso del suo saluto.
È seduto e legge il giornale. Alza la testa, mi vede e sorride. Ma il sorriso è in ritardo, di un attimo solo. China leggermente la testa di lato. Ecco il segno. Capito.
Saluto alzando appena la mano. Non sorrido. Sento il suo sguardo che mi segue per il lungo corridoio. Compassione forse.
Sono costretta ad andare avanti. A tredici anni non si ha molta scelta. La cartella sulle spalle, ad un tratto, mi sembra troppo pesante. Mi trascino verso l’ascensore.
È già lì. Il tempo si allunga. Infinito fino al quarto piano.
Un piede sul pianerottolo e un odore acre m’investe. Un odore familiare. Che non si dimentica.
So già che la porta sarà chiusa a chiave. In questi casi lo è sempre.
Provo lo stesso. Una speranza vana, che non mi abbandona mai. Abbasso la maniglia e spingo. La porta non si apre e sono obbligata a suonare.
Lunghi momenti poi la chiave nella toppa gira. Uno scatto, due scatti, lentamente. Abbastanza per intuire come avrei passato i momenti futuri. La porta si apre. Esito. Entro.
E poi, quella sberla nell’anima. Quella sensazione infinita di non potercela fare.
Lei è lì in piedi. Davanti a me con la pretesa di nascondere il fatto di essere ubriaca fradicia. Ancora.
Giorno dopo giorno, anno dopo anno, lei è lì. Immobile e tragica. Tumefatta. Sempre lì come un copione sgualcito, senza un minimo d’improvvisazione.
Ed è sempre lì anche quando non c’è. La sua esistenza opaca e triste ha invaso la mia. Si è presa un spazio non suo. Una presenza pesante che mi porto dietro nel mio ruolo di figlia, di madre, di moglie. Di donna.
La mia esistenza sconvolta. Troppo presto. Il dramma di essere figlia di un’alcolista senza capire. Ho subito inconsapevole. Immagini che non potevo non vedere. Non ho potuto scegliere. E ho visto.
Bombardamento emotivo. Ho cercato poi la salvezza. Mi sono convinta di non aver visto.
Ma il male sedimenta. Si putrefà nel fondo dell’inconscio. Vorrei tirarlo fuori così com’era il male. Per avere qualcosa da maledire.
Vorrei avere ricordi da poter odiare. Ma li ho sostituiti strada facendo con quelli degli altri. Una negazione perpetua.

Adesso la vedo davanti a me. Nel letto di casa. Magra, logora da sembrare venti anni più vecchia. Sono torturata da emozioni contrastanti. Amore e odio.
La cannula dell’ossigeno, ormai parte integrante del suo ritratto. Quasi ne addolcisce i lineamenti. Scavati. Segnati dalla sofferenza.
Non è stata in grado di opporsi al proprio destino. Mancanza di forza. Di coraggio. Demotivata dalla vita. Ora ne paga le conseguenze. Vuole morire, dice. Non ce la fa più. Non posso biasimarla.


(post precedentemente pubblicato rivisto e corretto)

mercoledì 1 aprile 2009

Esercizio di calligrafia #1

Persino la luce non osava illuminare il suo viso. E lei lo ascoltava così. Fingendosi distratta.
“Mi sento in colpa”. Disse lui nella penombra, evitando il contatto con i suoi occhi bruni.
“Per cosa?” Chiese lei, sapendo già la risposta.
“Per la tua situazione”.
Lei aveva già intuito di non piacergli, ma voleva sentirselo dire da lui. Con le sue parole. Con la sua voce.
“In colpa”. Sottolineò lei
Dopo un attimo di esitazione lui sorrise come se avesse trovato la parola magica.
“Disagio”. E tornando serio ripeté “Disagio, dovrei forse dire disagio”.
Lo disse guardandola dritto negli occhi, poi continuò “La tua situazione coniugale mi mette a disagio, ecco”.
“Ah sì, capisco”. Sussurrò lei per riempire il silenzio.
L’imbarazzo aveva imbottito tutta la saletta sul retro di quel bar di periferia.
“Non vuoi ferirmi”. Aggiunse lei per offrirgli una facile uscita.
“Sì, non voglio ferirti. E non voglio ferire me.”
Ferire lui e come? Si chiese lei tra sé e sé. Ma preferì restare in silenzio.
“Io non voglio una relazione”. Disse invece dopo una lunga pausa. “Non potrei ora”.
Forse lei non diceva la verità, ma era quello che pensava fosse giusto dire ad un uomo che ama le donne in quel modo. “Non con te, almeno”.
Poi per spiegarsi meglio aggiunse “Se ho pensato di venire con te è appunto perché hai altre donne”.
Lui aveva timore della sua fragilità. L’avrebbe portato a confrontarsi con la propria. Non se la sentiva. Avrebbe anche potuto imparare a conoscerla, ma percepiva in lei un pericolo.

Non avrebbe voluto, ma la baciò ugualmente. Fece scivolare la sua mano nella scollatura. Così, quasi per abitudine.
Per un attimo lei fece finta che lui la volesse sul serio, ma se ne pentì subito. Quando lo guardò negli occhi lei lesse che era lui quello che voleva piacere, in fondo.
Piacere per non dispiacere. Mai.
“Le donne sono un modo come un altro per affrontare la solitudine”. Disse lei prendendogli la mano dal petto. Conosceva la sua tristezza. L’aveva letta nel suo libro.
“Le donne sono un modo come un altro per affrontare la morte”. Corresse lui.
Aveva ragione. Anche l’amore, però.
Ma lui lo sfuggiva. Esattamente come lo desiderava lo allontanava, l’amore.
Lei guardò nel profondo dei suoi occhi blu e sentì che lo avrebbe anche potuto amare. In un altro tempo e in un altro luogo. Ma non lì. Non in quel bar, non in quella piazza, non in quella città.
Lui non era per lei e lei lo sapeva bene. Ma lui non lo diceva. Anzi. L’accarezzava.
“Non vuoi venire da me, allora?” Chiese lei, per essere sicura che il dolore fosse sempre lì, al suo posto. Il rifiuto era quello che bruciava.
“No lo so … no. Non me la sento. Non questo sabato”.
“Ho bisogno di leggerezza”. Era la sua motivazione.

L’arrivo del cameriere le bloccò un brivido a mezza schiena. Lei ne fu contenta.
Non poteva permettersi quel brivido. Ritrasse la mano.
“Poi un giorno ci vediamo e facciamo all’amore” disse all’improvviso lui.
Ma non lo diceva a lei, non più. Voleva sedurre ancora, voleva sedurre se stesso.
Un gioco impari.
Una frase che a lei pesava più di un addio.

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