venerdì 23 marzo 2012

Il demone e la Musa

(3° posto al concorso di art a part of cult(ure) )

Sei sola, infine. Sono passati parecchi anni dall’ultima volta che sei rimasta sola, pensi, mentre frughi nel profondo della memoria alla ricerca di un particolare che ti possa confermare quel pensiero. Non che la memoria sia mai stato il tuo forte. Riesci con lucida concentrazione, ad andare indietro nel tempo fino ai tuoi diciassette anni senza però trovare alcun dettaglio utile e ti chiedi se è veramente possibile che, per la bellezza di ventisette anni, tu non sia mai stata sola per più di un giorno intero.
Intanto osservi l’immagine che lo specchio del piccolo bagno ti rimanda: la ferita aperta sopra il labbro superiore, l’occhio destro livido che si apre appena. Le mani ancora sporche di sangue. Come hai potuto lasciare che ciò accadesse di nuovo?

Te la ricordi bene quella fuga, quella dei diciassette anni, una delle poche cose che ti provoca ancora i brividi a pensarci. Non è stata la prima e nemmeno l’ultima, è stata quella, però, che ha dato una svolta alla tua vita. Una fuga d’impulso, decisa nel momento in cui, durante un litigio di quelli inutili, sbattevi la porta di casa in faccia a tuo padre, troppo ubriaco per rendersi conto che, con il suo continuo accanarsi contro di te, aveva appena perso una figlia.
Tu in quella casa non ci hai più messo piede, nemmeno il giorno del suo funerale. «Se lo è meritato», era stato il tuo unico commento alla notizia della sua morte. Una morte ignobile, come del resto lo era stata tutta la sua vita, soffocato dal suo stesso vomito, nel sonno. Passato dalla sbronza alla morte nel tempo di un unico respiro.
In quella casa non ci sei più tornata, nemmeno quando tua madre, rimasta sola, te lo aveva chiesto in lacrime. Avevi chiuso la porta una volta per tutte. L’avevi sbattuta forte, con rabbia, quella porta convinta che i ricordi da lì non potessero più uscire.
Allora non lo potevi sapere. Nell’ingenuità della tua giovinezza non te ne rendevi conto, ancora, che esistono dolori che non si rimarginano. Dolori che ti si appiccicano addosso, capaci di riaprire ferite che pensavi ormai cicatrizzate.
Che non era così semplice dimenticare lo hai scoperto solo anni dopo, quando hai incontrato Frederick. La violenza te la porti dietro per tutta la vita. È un linguaggio con cui impari a esprimere anche i tuoi sentimenti più profondi, un linguaggio che non dimentichi più, proprio come la tua lingua madre.
Ti lavi le mani dal sangue. Eviti di guardare di nuovo l’immagine riflessa nello specchio, lo hai visto troppe volte il tuo viso tumefatto. Allunghi la lingua verso la ferita sul labbro e senti il sapore di ferro invadere la bocca: sanguina ancora. Ti domandi se potrà guarire senza punti perché il solo pensiero del pronto soccorso ti provoca un senso di smarrimento. Le domande, i sospetti, la commiserazione: no, non è proprio il caso. Ti concentri allora sulla schiuma di sapone che diventa rossa per non alzare lo sguardo. Insaponi quelle mani, che non senti più tue, in modo ossessivo, quasi volessi infliggere loro una punizione. Insisti, sfregando con la spugna ruvida, fino a far bruciare la pelle.
Le dita, i polsi, gli avambracci fin su oltre al gomito. Il bagno è così stretto che in un attimo si satura di profumo alla papaya, così dolce da rendere quasi impossibile respirare.

Frederick lo avevi conosciuto durante una delle tue fughe. Quando ti eri detta che saresti partita “per sempre” e ti eri imbarcata con un biglietto di sola andata per New York. Al tempo in cui tutti i tuoi averi riuscivano a riempire, a malapena, l’unica valigia che possedevi.
Lui ti aveva notato subito. Non eri mai stata una ragazza che passava inosservata: una lunga linea di ampie curve sotto a una folta chioma di capelli rossi. Arrivata da poco in città, giravi per i locali e le gallerie d’arte in cerca d’ispirazione e quella sera eri entrata per caso nella sua galleria attratta dalla grande tela appesa in fondo alla sala: un’elegante figura femminile, nuda, che al primo sguardo ricordava uno stelo con una grande corolla di petali vermigli. Per un attimo, avevi avuto l’impressione di essere davanti a uno specchio. Anche Frederick aveva avuto la tua stessa identica impressione, te lo aveva confessato la notte che ti aveva visto nuda, dopo aver fatto l’amore nel suo studio per la prima volta.

Ti allontani dallo specchio, senza uscire dal bagno. Sei nuda. Te ne rendi conto quando l’aria che entra dalla finestra, dimenticata aperta, lambisce il tuo corpo e lo fa tremare. È una condizione alla quale oramai non fai più caso, pensi, essere nuda. Il tuo corpo ritratto, il tuo corpo amato e allo stesso tempo disprezzato, il tuo corpo linguaggio tra il tuo mondo visibile e quello invisibile: un filo sottile che lega il passato al presente. L’arte di lui che passa attraverso il tuo corpo.
Inginocchiata a sfregare il pavimento, con movimenti lenti della mano passi su tutte le piccole gocce di sangue che hai calpestato con i piedi. Procedi con metodo, dal lavandino alla porta dietro di te, che hai lasciato socchiusa per paura di sentirti soffocare. Non guardi al di là dello spiraglio, tieni gli occhi sulle tue mani che grattano sulle piastrelle. Non sai bene cosa ti aspetti una volta che varcherai quella soglia.
La passione si era presto tramutata in tormento. Frederick ti aveva preso a vivere con lui e ti aveva fatto prigioniera. Prigioniera della sua passione. Prigioniera perché tu eri, per lui, la sua ossessione pittorica fatta carne e non riusciva a pensare ad altro: il tuo corpo nel letto e il tuo corpo sulla tela. Grandi fondi dipinti di rosso carminio e il bianco della tua pelle.
Ma tu allora eri giovane, vent’anni più giovane di lui, e non capivi la differenza tra passione e dolore. Ti inebriavi delle sue frasi e della tua immagine ovunque. Chiamavi tutto ciò amore. «Lui mi ama, si prende cura di me», ti dicevi quando ti obbligava a stare ferma per ore mentre lui ti ritraeva. «Lui mi ama», pensavi anche quando invece si arrabbiava con te, quando litigavate perché avevi parlato per troppo tempo con un uomo alla sua mostra, o ti eri vestita troppo scollata.
«È il suo modo di amarmi», lo avevi perfino scusato il giorno che era ti arrivato dritto sulla guancia il primo schiaffo, dopo un litigio eccessivo e brutale, per un motivo così stupido che non riuscivi nemmeno a ricordare.

Seduta sul pavimento, nell’angolo più buio del bagno, abbracci le tue ginocchia. Non hai la forza di ritornare nell’altra stanza. Speri che il tempo si allunghi come un elastico, che si tenda all’infinito per non dover affrontare ciò che ti aspetta. Ma ora hai freddo, senti i brividi che corrono su per la schiena, non puoi più restare lì ferma, pensi nel momento in cui una folata di vento fa sbattere la finestra.
I tuoi fragili nervi ti fanno letteralmente saltare su dallo spavento, e ti ritrovi in piedi davanti alla porta. Con un lieve gesto delle dita la spingi. Intravvedi il letto semidisfatto pieno di fogli e pennelli. Di Frederick neanche l’ombra.

Anche fare l’amore, con gli anni, era diventato sofferenza: lui sempre più esigente e stravagante nelle sue richieste e tu sempre meno libera di poter dire di no. A te, che da bambina non ti era mai stata data la possibilità di imparare cosa fosse l’amore, sembrava una cosa normale che la tua anima non fosse rispettata. Non lo faceva tuo padre quando abusava di te e non lo faceva nemmeno Frederick quando ti sussurrava all’orecchio di amarti più di ogni altra cosa al mondo mentre ti legava al letto. Non ti ribellavi. Bastavano poche parole dolci per confonderti, pronunciate frettolosamente insieme al tuo nome: Natascia. Poche parole in cui nascondere la morbosità che teneva in piedi il vostro rapporto. E lui questo lo sapeva bene.
Intanto il tuo corpo abbandonava lentamente la freschezza dei vent’anni e questo Frederick non lo poteva sopportare. La frustrazione lo costringeva a portare a casa altre donne. Donne sempre più giovani e rigogliose come la sua pittura pretendeva. La sua vita era diventata un andirivieni di corpi pallidi e lisci, da dare in pasto al rosso vivo della tela dipinta di fresco. Unico rito capace di soddisfare la sua ossessione.

Prendi coraggio e ti avvicini al letto. Vedi i suoi piedi nudi spuntare da dietro le lenzuola stropicciate cadute sul pavimento. Ti siedi sul bordo del letto trattenendo il respiro. Resti ferma in una posa scomposta, come se fossi in bilico su uno strapiombo. Hai la nausea.
Non era così che volevi che fosse, pensi, ora è troppo tardi: non si torna più indietro.
Ti osservi intorno, in quella stanza le immagini di tutta la tua vita. Il passato è lì a ricordarti da dove vieni, ma è privo d’indicazioni su dove andare. Impantanata in sabbie mobili di pensieri inutili, non ti resta in mano che il presente scomodo. Lui è lì, supino sul pavimento, immobile in un lago di sangue. Tu non lo guardi e non guardi nemmeno il coltello da cucina che gli sta accanto. Non senti più nulla. Solo l’eco dei tuoi pensieri macinati fini dai sensi di colpa che si propaga in tutta la testa. Hai il voltastomaco. Non passa.
Poco più in là, sul cavalletto, l’ultimo tuo ritratto. Incompiuto. Ti avvicini lentamente per osservarlo meglio. Di quello stelo elegante e la sua corolla di petali non è rimasta traccia, svanito nel tempo. Ora in quelle pennellate chiare stenti a riconoscerti.
«È colpa tua!», urli girandoti di scatto verso il corpo senza vita di Frederick. Il Demone, ora, non ti fa più paura. In un rincorrersi di sensazioni più grandi di te, ti inginocchi vicino a lui, incurante del sangue che lo circonda. Le tue ginocchia si bagnano di rosso e così le tue mani al profumo di papaya. Le immergi completamente nel liquido ancora caldo e scoppi a piangere. «È colpa tua», sussurri.
Colta da un impulso violento ti ritrovi, con la rabbia tra i denti, a trattenere un conato. Non puoi farcela, pensi. Ti alzi di scatto. Gli occhi fissi sul dipinto incompiuto. Prendi un pennello dal letto, lo intingi nella pozza di sangue e con gesti lucidi e precisi riprendi le parti mancanti del fondo carminio. «Tutto ha un senso», pensi.
Ti infili il primo vestito che trovi in giro direttamente sulla pelle nuda, senza curarti delle impronte di sangue che le tue mani sporche lasciano ovunque. Afferri la tela con un gesto veloce mentre ti dirigi verso l’uscita, che varchi in silenzio, senza nemmeno voltarti.