sabato 31 maggio 2008

Presa di coscienza


Marisa e Donatella a 4 mesi - Milano 1967

Non so cosa fosse che mi ha sempre bloccato dal percepire la mia vita in tutta la sua drammaticità. Forse un tentativo di difesa, cercare di preservare ciò che di buono mi sembrava aver raggiunto. Quelle immagini così crude nella loro violenza con gli anni sono state rielaborate dalla freddezza della ragione, spogliate della loro forza emotiva come per convincermi di non averle mai vissute, o vissute un po’ meno. Comunque fosse, è la mia stessa vita che periodicamente mi ripropone l’occasione di soffermarmi su quei ricordi, e io, ogni volta cerco il modo più rapido per allontanarmici. Non ho coscienza di quale sia stato il momento esatto in cui mi sono resa conto che c’era qualcosa nella mia vita che non rispecchiava una certa imposta “normalità”. Probabilmente un “pot pourri” di eventi simili a quello di mia mamma, rigorosamente celata dietro occhiali scuri, che mi veniva a prendere all’asilo con andatura oscillante. Ma so, per certo, che quel momento c’è stato e le cose da allora hanno cominciato ad avere un aspetto differente. Quel momento ha significato la distorsione della percezione delle cose stesse, un’immersione totale in un mondo sofferente e delirante che mi accompagna ancora oggi. Ho voluto tentare di relegare in una parte remota della memoria quelle immagini e quelle sensazioni inopportune, che invece di tanto in tanto ritornano in modo forte e violento.

Era la sua totale e completa trasformazione che mi perseguitava e, a suo modo, mi perseguita anche adesso. Sento ancora forte, come se la provassi ora, quel terrore di non sapere cosa mi aspettasse dietro alla porta di casa. Al ritorno da scuola, tutti i miei sensi analizzavano ogni possibile segnale: lo sguardo del portinaio, l’odore acre sul pianerottolo, la porta chiusa a chiave e ogni piccolo dettaglio mi portava ad intuire come avrei passato i momenti futuri.
E poi entrando in casa, quella sberla nell’anima, quella sensazione infinita di non potercela fare e lei era già lì in piedi davanti a me con le pretese di riuscire a nascondere il fatto di essere ubriaca fradicia. Giorno dopo giorno, anno dopo anno, lei era lì, era sempre lì come un copione sgualcito, senza mai un momento d’improvvisazione.
Ed era sempre lì anche quando non c’era. La sua esistenza opaca e triste ha invaso un enorme spazio della mia e resta un bagaglio che mi porto dietro nel mio ruolo di figlia, di madre, di moglie e di donna.
Da bambina ho subito tutto il dramma di essere figlia di un’alcolista senza capire, ho subito senza essere in grado di elaborare quale bombardamento emotivo stava sconvolgendo la mia esistenza. Da adulta subisco le conseguenze di quelle immagini che non potevo non vedere e che allora non ho potuto scegliere di non vedere. In seguito ho voluto scegliere di evitare la sofferenza convincendomi di non aver visto. Ho provato a scappare chiudendo tutto a chiave nell’inconscio, lasciando, invece, grossi buchi nel profondo del mio spirito.
Ci sono molti eventi della mia infanzia che ho cacciato così in fondo alla mia memoria che non riesco più a farli riaffiorare, eppure adesso vorrei poter ricordare per capire, capire la mia sofferenza e quella di mia mamma. Bisogna avere ricordi da poter odiare, che sia importante riuscire a visualizzare l’avversario per poterlo sconfiggere.

Ogni tanto mi chiedo se mia madre si sia mai resa conto delle conseguenze che il suo stato portava o anche lei viveva in uno stato di negazione perpetua che avvolgeva sia i momenti di sobrietà che i momenti di ubriacatura. Forse la sua sofferenza era troppo grande per essere affrontata. Quella stessa sofferenza che mia madre mi lascerà come unica eredità al momento della sua scomparsa.
Così, durante la mia infanzia c’è stata una lenta e dolorosa presa di coscienza che la mia “normalità” non era la stessa “normalità” degli altri. I piccoli segnali che pian piano notavo, gli occhiali scuri, le piccole tumefazioni sul viso, la loquacità eccessiva si andavano a ricomporre come i pezzi di un puzzle una immagine più ampia di ciò che era veramente mia madre.

Adesso che la vedo davanti a me, magra e così conciata da sembrare vent’anni più vecchia, sono torturata da emozioni contrastanti di amore e di odio.
La cannula dell’ossigeno, che ormai è parte integrante del suo ritratto, sembra quasi addolcirne i lineamenti segnati dalle continue sofferenze.
Non è stata in grado di opporsi al proprio destino e adesso ne paga le conseguenze. Vuole morire, dice. Non ce la fa più. Non posso biasimarla.

3 commenti:

Unknown ha detto...

solo un bacio.

Annachiara ha detto...

Molti non sono in grado di opporsi al proprio destino. Ma noi sappiamo che serve a poco opporsi.
Se riesci, prima che lei vada via falle tutte le domande che non le hai mai fatto. Forse le sue risposte ti renderanno meno difficile sopportare.A volte la verità è questione di un attimo...un nodo che si scioglie tira giù un telo che scopre un mondo prima invisibile...

Anonimo ha detto...

La consapevolezza di vivere un'esperienza drammaticamente...mortale, può venire soltanto
dopo averla cessata.
E' la cosa più difficile del mondo.
E' la cosa più bella del monde.
Poi?
A volte vorresti morire.
Si riesce a vivere solo amando.
Ed è [l'amore]
la più terribile
giusta
sofferenza.