domenica 14 dicembre 2014
venerdì 23 marzo 2012
Il demone e la Musa
mercoledì 21 marzo 2012
giovedì 15 settembre 2011
FALLEN ANGELS in Mostra
via A. Doria, 12 - Milano
Dal 14 sttembre al 16 ottobre
Per info e orari: 02 36528389
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martedì 16 agosto 2011
La Terre Mère
One of nine photographs from the project "La Terre Mère"
©Donatella D'Angelo 2011
Ogni uomo ha bisogno di identificarsi in qualcosa che trascenda, trasfiguri, nobiliti, arricchisca la sua esistenza quotidiana individuale, ponendosi in contatto con un ordine simbolico superiore, rispetto al proprio corpo e alla propria vita.
Credo sia arrivato il momento per l’uomo di riacquistare la capacità di avvertire la dimensione animistica dei luoghi e degli esseri e che questa necessità possa risultare in un significativo passo in avanti sul cammino dell’individuazione dell’uomo stesso e della propria anima. Un ricongiungimento tra natura ed essere umano, un’integrazione reale che rifiuti lo sfruttamento feroce delle risorse naturali della terra da parte dell’uomo incentivando invece un’unione spirituale profonda tra le parti. Ricongiungimento che può avvenire attraverso un processo di semplificazione del pensiero e conseguentemente della società.
L’opera “La terre mère” è il prodotto di un lavoro autobiografico sulla ricerca del mio stesso centro simbolico attraverso il processo di semplificazione e ricongiungimento con la natura in cui la scelta del nudo e del particolare ha un forte connotato rappresentativo: il pube e la fertilità, la forma del triangolo con magia e spiritualità, la nudità come naturale semplificazione del pensiero.
©Donatella D’Angelo 2011
martedì 9 agosto 2011
le ricette di sunugal
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tutte le info in terza di copertina.
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mercoledì 8 giugno 2011
Del sole spento e della morte (2 puntata)
Aprivo gli occhi che era ancora buio con la sensazione che mi fossi appena addormentata. Non avevo la forza di guardare che ore fossero e mi tiravo il lenzuolo fin sopra al mento. Superato quell’attimo di smarrimento dove stentavo a riconoscere persino me stessa, cercavo di tornare alla calma rimbombante del sabato mattina. Non avevo motivo di alzarmi, mi giravo lentamente verso il muro a cercare una zona del letto più fresca, sperando di riaddormentarmi in fretta.
Con gli occhi chiusi aspettavo che il sonno tornasse a conquistare le mie membra, ma dopo qualche tempo l’attesa cominciava a essere troppo lunga. Sentivo un’inquietudine molle affiorare tra le lenzuola. Mi giravo di lato, cambiavo posizione alle gambe e poi alle braccia, ma i pensieri avevano ormai iniziato a lavorare. E quel lavorio mi teneva sveglia, quasi la mia attenzione fosse rapita dal rumore degli ingranaggi nel cervello che lentamente vanno a regime.
Volevo riempire la mente con il vuoto del silenzio per quietare l’ansia del risveglio precoce, ma lì, tra il sonno e la veglia, la tua immagine si manifestava invadente. Il tuo sorriso, incastonato nei miei pensieri, da giorni ormai non mi lasciava dormire. Riguardavo gli stessi fotogrammi all’infinito, studiavo i tuoi movimenti attraverso la costante ripetizione del nostro incontro.
Ma non era mai lo stesso, l’incontro. Aggiungevo un gesto che avrei voluto avessi compiuto, oppure toglievo uno sguardo che mi aveva messo in imbarazzo, lavorando l’evento come fossi alla moviola a montare una mia verità. Lo vivevo come un vero e proprio film, con una sceneggiatura originale scritta da me, dove noi protagonisti non seguivamo altro che la legge dei miei desideri.
Quello che non cambiavo, mai, nelle diverse scene, era il tuo sorriso. Quello non mi concedevo di alterarlo. Era qualcosa di inviolabile, che andava al di là del mio lavoro di regista. Un’opera d’arte, appena macchiata dall’ombra curva del tuo naso. Labbra tonde che piegavano alle estremità in due solchi che ricordavano le fossette sulle guance dei bambini. Un’attrazione tutta infantile a esaltare il tuo viso maturo, uno specchio in cui riflettersi.
Era l’emozione che provavo davanti all’assoluto di quel sorriso, il motivo della mia insonnia. Addormentarmi voleva dire congedarmi da quella ricchezza e io non ne ero capace. Lasciarlo andare era troppo difficile, temevo che quella sensazione non tornasse più, mi abbandonasse per sempre. Avevo paura di dimenticarmene e cercavo di tenere vivo il ricordo restando sveglia. Nel preciso momento in cui sentivo che il sonno stava per averla vinta mi aggrappavo a quell’immagine sperando di riuscire a trascinarla con me nel sogno insieme ai battiti accelerati del mio cuore pronto a esplodere.
Sabato era il giorno in cui ti avrei rivisto, o meglio, era il giorno in cui tu avresti visto quello che io volevo mostrare di me. Il pensiero dell’incontro mi procurava una scossa elettrica che correva per tutta la spina dorsale. Con gli occhi ormai spalancati rimanevo supina nel letto in attesa di cogliere il primo raggio di luce penetrare dalle persiane come esortazione a lasciare il letto. La luce, però, sembrava avesse deciso di non presentarsi all’appuntamento quella mattina. Avrei dovuto leggerci un segno; un avvertimento che l’intreccio della trama si sarebbe rivelato in seguito insolitamente oscuro.
1° puntata
sabato 4 giugno 2011
mercoledì 25 maggio 2011
Del sole spento e della morte (1 puntata)
Nulla faceva presagire che sarebbe successo, perché niente sembra mai essere ciò che è in realtà. Non si ha la coscienza del dramma, di solito è destinato sempre agli altri; un modo imprudente di evocare il nostro senso d’immortalità.
Non penso tu mi abbia notato, trasparente come so essere io tra la folla, riesco a passare completamente inosservata. Un aspetto non trascurabile, la trasparenza, in un mondo come questo. Fatto di apparenze.
Io ti osservavo, invece. Seduto all’estremità opposta del tavolo, precario sulla sottile sedia in alluminio, che facevi dondolare su due gambe. Avanti e indietro a scatti, quasi a dire che avresti voluto essere da qualche altra parte; da qualsiasi altra parte, ma non lì, a riempire un locale già abbastanza affollato, un sabato sera uguale a tanti altri.
Noi si parlava e si rideva, ma tu restavi in silenzio. Il tuo era un silenzio nervoso, un silenzio lento con lievi accelerazioni. Che si alzava con te e ti seguiva mentre lasciavi il locale per rispondere al telefono.
I miei occhi, colpevoli di averti notato, provavano a fissare la tua immagine nella memoria nonostante tu, nella tua impercettibile danza, sfuggissi al loro contatto.
Ma è stato solo al momento dei saluti che ho sentito che ci saremmo rincontrati, quando ti è scappato un sorriso. Un sorriso semplice. Sorriso che avrei sofferto così tanto in seguito.
E così è stato. Ci siamo rivisti. Non più tardi di qualche settimana dopo quel sabato sera, uno scontro frontale nel bel mezzo del marciapiedi. Un attimo per capire dove mi avevi già visto e poi ancora quel sorriso.
Non ero poi così sicura che avessi veramente capito chi fossi, ma in quel momento non importava: mi stavi già invitando a bere un caffè.
«Che caso», hai ripetuto più volte tra una frase e l’altra, forse per colmare il vuoto dell’imbarazzo, ma io so che le coincidenze non vengono mai per caso. Tu questo non lo sapevi ancora.
Solo un attimo di esitazione, uno sguardo intorno e ti avviavi con le tazze di caffè verso l’unico tavolino libero, in fondo alla sala. Lontano dalla luce della vetrina.
Io mi sedevo accanto a te, scegliendo di stare a tre quarti. Non ero ancora pronta per incontrare il tuo sguardo diretto.
Nella penombra i tuoi lineamenti tornavano a essere gli stessi del sabato sera al locale, di un’intensità che la luce del sole non sapeva esaltare.
L’ombra marcata del naso, leggermente aquilino, che muore sulla guancia, la barba di qualche giorno con riflessi grigi a tradire l’età. La voce, quella no, non aveva età invece. Era profonda, dal petto.
Non ti facevo domande, non ce n’era bisogno. Orfano di quel silenzio che mi aveva catturato la prima volta che ti vidi, tu parlavi di te stesso senza timidezza alcuna. Nemmeno tu facevi domande, era quasi un monologo. Immerso nella tua necessità di raccontarti avevi lasciato freddare il caffè nella tazza senza berne nemmeno una goccia.
Ma io non ti ascoltavo, rapita dalla sovrapposizione della luce sulle zone d’ombra, studiavo il chiaroscuro del tuo viso, attenta a non farmi sorprendere. Pensavo che se avessi allungato la mano avrei potuto toccare quelle curve che l’ombra disegnava quasi in modo perfetto proprio a marcare le tue labbra in movimento.
Le mie mani, invece, erano ferme. Tenute giunte e adagiate sulle cosce sotto al tavolo. Mi sforzavo di tenerle immobili ora, perché sapevo che sarebbe venuto il loro momento, poi.
Mentre pagavi alla cassa, io attendevo sulla porta il tuo saluto e la conferma che ci saremmo rivisti. Un po’ un mio destino quello di attendere conferme.
«Allora, sabato?» mi ha detto avvicinandoti per baciarmi la guancia.
«Perfetto», ho risposto io voltandomi in modo che il bacio, finito poi sulle labbra, sembrasse casuale.
martedì 17 maggio 2011
troppe parole
Troppe parole. Parole inutili, spogliate del loro significato, che riempiono vuoti incolmabili. Impilate come scatole di cartone. Parole rigurgitate in frasi sgrammaticate, in una contorsione linguistica adatta solo a biglietti d’auguri per amori improbabili.
Scritte in fretta per scacciare la noia. O la paura. Un movimento continuo che impedisce di riflettere; di accorgerti che sei solo e che non ti è mai piaciuto esserlo.
O meglio: che non sei mai stato capace di stare solo.
Temi l’immagine di te stesso e la proietti sull’altro in modo da vivere di luce riflessa. Non sei costretto a guardarti. Non ne saresti più capace ora, la luce diretta confonde la vista. Gli occhi ti fanno male e tu, di dolore, non ne vuoi sentire più. E lo giuri a te stesso.
È facile mantenere la promessa, ti viene restituito esattamente ciò che hai dato di te, una selezione prevedibile del meglio e del peggio. Così, per non restare mai deluso, dai e ricevi ciò che ti aspetti, senza alcun investimento emotivo. E nessuno sarà mai costretto a conoscerti per quello che sei: un capriccio del tempo.
Ti ritrovi in una continua masturbazione intellettuale a svendere le tue emozioni per un grammo di adrenalina. Non è questo a cui tu ambivi, ma la disperazione di una crisi di astinenza è ben peggiore e tu sai benissimo che non te la puoi permettere.
(*) Photos: Typographic interpretation. Martin Luther King’s ‘I Have a Dream’.
A hand rendered typographic interpretation of Martin Luther King’s ‘I Have a Dream’ speech. The piece focuses upon King’s use of metaphor, in particular his reference to land, drawing from landscape to create the form for the handwritten words. It also considers physical aspects of the 1963 march such as the steps upon which the speech was made, and the mass of people present as King spoke.
http://www.kith-kin.co.uk/presents/index.php/london-08/speech/
giovedì 21 aprile 2011
Bastava una sola parola per evitare che il sole si spegnesse
Battle of Bosworth by Philip James de Loutherbourg
Bastava una sola parola per evitare che il sole si spegnesse; bastava un gesto, semplice come un sorriso. Forse tanto semplice da diventare irraggiungibile, quel sorriso; tanto semplice da trasformarsi in smorfia di dolore.
Io ho affrontato la battaglia completamente disarmata, perché non ho mai saputo cosa fosse in realtà la guerra. La mia pelle nuda esposta a un mondo estraneo e un cielo senza sole, i miei unici ricordi.
Semplice per me, che vivo la lealtà come un credo; ma non per te, forse, che sei il mio opposto.
Ma io questo non l’ho capito in tempo e non ho saputo fare altro che spingerti verso un lago di non detto. Ti ho annegato, in quel lago, con le stesse mani con cui ti ho accarezzato. Ti ho sommerso di lacrime e di sangue finché non respiravi più.
E mentre vedevo la tua vita scivolare via, osservavo il cielo grigio riflettersi sull’acqua. Bastava una sola parola per evitare che il sole si spegnesse.
mercoledì 13 aprile 2011
il racconto L’ULTIMA CORSA di Donatella D’Angelo, in libreria!
"L'ultima corsa", un mio racconto,
Lo trovate a pag. 61 del libro
"DI CORSA ATTORNO AL MONDO"
di STEFANO MEDICI
(ed. ZonaContemporanea)
in libreria anche a MIlano dal 18 aprile 2011
vi anticipo l'incipit ...
L’ULTIMA CORSA di Donatella D’Angelo
«Ti asciughi le gocce di sudore sulla fronte con la manica della felpa. In realtà vorresti cancellare i pensieri che si affollano nella tua testa, un groviglio di frasi e immagini che ti provocano un dolore insopportabile. Le tempie ti pulsano, a ogni passo un colpo di scalpello scava in profondità. Hai l'impressione che il cervello possa esplodere fuori dalle orbite degli occhi, ma non ti vuoi fermare. Ti piace spingere oltre i tuoi limiti e sentire il fiato corto. È già quasi un’ora che corri e non ce la fai più. Fa freddo e il tuo sudore caldo si congela sulla schiena facendoti venire i brividi. I tuoi seni, costretti nel reggiseno a corsetto, sono doloranti. Vorresti poterli liberare e non sentire più lo sfregamento del tessuto sui capezzoli indolenziti.»
sabato 2 aprile 2011
rollio
È quel rollio che mi riporta indietro nel tempo; è quel dondolare sospinto dall’onda a darmi la nausea mentre chiudo gli occhi e lascio che sia il mio corpo a lasciarsi andare. Mi accascio e resto immobile.
Non era così che doveva essere. Penso. Mi avevano detto di non aver paura, di andare e uscire allo scoperto. Che era arrivato il momento giusto, ero pronta.
Invece tremo. Non riesco a muovermi e mi copro il viso con le mani. Le sento pulsare le ferite ancora aperte, il sangue scorrere sotto la pelle.
Avverto i passi del predatore che fiuta l’odore del mio sangue. Rosso cupo e denso. Si aggira poco lontano. Sa che ci sono e aspetta solo il momento di agire.
Mi stupisco di essere ancora viva. Vorrei potermene andare adesso, prima che si avvicini troppo, ma non ho la forza di tirarmi in piedi.
La vedo la strada, una strada alberata che corre dritta innanzi a me, di ghiaia bianca.
La strada da prendere. Non ci sono sponde a cui appoggiarmi e allora resto lì, aggrappata alle mie ginocchia.
Provo un dolore così profondo che incatena ogni mio pensiero a terra e io, incapace di prendere il volo, trattengo il respiro per non esistere e allontanare lo sciacallo. Non sono ancora morta.
Come l’eroe sulla via del ritorno, consapevole delle prove che lo aspettano, ma incapace di armarsi contro i nemici. Solo, in una lotta in cui nessuno lo può aiutare, nemmeno gli Dei, sa che prima o poi dovrà andare in guerra perché quello è il suo destino. Ed è anche il mio.
Intanto la testa continua a girare, la luce bianca che filtra dalle fessure mi confonde.
Vorrei che qualcuno mi venisse a prendere e mi portasse via. Magari in braccio. Vorrei concedermi una tregua, curarmi le ferite, vorrei poter guardare avanti senza abbassare lo sguardo. Vorrei essere un gatto che cade sempre in piedi.
Vorrei. Ma non oso.