domenica 14 dicembre 2014

venerdì 23 marzo 2012

Il demone e la Musa

(3° posto al concorso di art a part of cult(ure) )

Sei sola, infine. Sono passati parecchi anni dall’ultima volta che sei rimasta sola, pensi, mentre frughi nel profondo della memoria alla ricerca di un particolare che ti possa confermare quel pensiero. Non che la memoria sia mai stato il tuo forte. Riesci con lucida concentrazione, ad andare indietro nel tempo fino ai tuoi diciassette anni senza però trovare alcun dettaglio utile e ti chiedi se è veramente possibile che, per la bellezza di ventisette anni, tu non sia mai stata sola per più di un giorno intero.
Intanto osservi l’immagine che lo specchio del piccolo bagno ti rimanda: la ferita aperta sopra il labbro superiore, l’occhio destro livido che si apre appena. Le mani ancora sporche di sangue. Come hai potuto lasciare che ciò accadesse di nuovo?

Te la ricordi bene quella fuga, quella dei diciassette anni, una delle poche cose che ti provoca ancora i brividi a pensarci. Non è stata la prima e nemmeno l’ultima, è stata quella, però, che ha dato una svolta alla tua vita. Una fuga d’impulso, decisa nel momento in cui, durante un litigio di quelli inutili, sbattevi la porta di casa in faccia a tuo padre, troppo ubriaco per rendersi conto che, con il suo continuo accanarsi contro di te, aveva appena perso una figlia.
Tu in quella casa non ci hai più messo piede, nemmeno il giorno del suo funerale. «Se lo è meritato», era stato il tuo unico commento alla notizia della sua morte. Una morte ignobile, come del resto lo era stata tutta la sua vita, soffocato dal suo stesso vomito, nel sonno. Passato dalla sbronza alla morte nel tempo di un unico respiro.
In quella casa non ci sei più tornata, nemmeno quando tua madre, rimasta sola, te lo aveva chiesto in lacrime. Avevi chiuso la porta una volta per tutte. L’avevi sbattuta forte, con rabbia, quella porta convinta che i ricordi da lì non potessero più uscire.
Allora non lo potevi sapere. Nell’ingenuità della tua giovinezza non te ne rendevi conto, ancora, che esistono dolori che non si rimarginano. Dolori che ti si appiccicano addosso, capaci di riaprire ferite che pensavi ormai cicatrizzate.
Che non era così semplice dimenticare lo hai scoperto solo anni dopo, quando hai incontrato Frederick. La violenza te la porti dietro per tutta la vita. È un linguaggio con cui impari a esprimere anche i tuoi sentimenti più profondi, un linguaggio che non dimentichi più, proprio come la tua lingua madre.
Ti lavi le mani dal sangue. Eviti di guardare di nuovo l’immagine riflessa nello specchio, lo hai visto troppe volte il tuo viso tumefatto. Allunghi la lingua verso la ferita sul labbro e senti il sapore di ferro invadere la bocca: sanguina ancora. Ti domandi se potrà guarire senza punti perché il solo pensiero del pronto soccorso ti provoca un senso di smarrimento. Le domande, i sospetti, la commiserazione: no, non è proprio il caso. Ti concentri allora sulla schiuma di sapone che diventa rossa per non alzare lo sguardo. Insaponi quelle mani, che non senti più tue, in modo ossessivo, quasi volessi infliggere loro una punizione. Insisti, sfregando con la spugna ruvida, fino a far bruciare la pelle.
Le dita, i polsi, gli avambracci fin su oltre al gomito. Il bagno è così stretto che in un attimo si satura di profumo alla papaya, così dolce da rendere quasi impossibile respirare.

Frederick lo avevi conosciuto durante una delle tue fughe. Quando ti eri detta che saresti partita “per sempre” e ti eri imbarcata con un biglietto di sola andata per New York. Al tempo in cui tutti i tuoi averi riuscivano a riempire, a malapena, l’unica valigia che possedevi.
Lui ti aveva notato subito. Non eri mai stata una ragazza che passava inosservata: una lunga linea di ampie curve sotto a una folta chioma di capelli rossi. Arrivata da poco in città, giravi per i locali e le gallerie d’arte in cerca d’ispirazione e quella sera eri entrata per caso nella sua galleria attratta dalla grande tela appesa in fondo alla sala: un’elegante figura femminile, nuda, che al primo sguardo ricordava uno stelo con una grande corolla di petali vermigli. Per un attimo, avevi avuto l’impressione di essere davanti a uno specchio. Anche Frederick aveva avuto la tua stessa identica impressione, te lo aveva confessato la notte che ti aveva visto nuda, dopo aver fatto l’amore nel suo studio per la prima volta.

Ti allontani dallo specchio, senza uscire dal bagno. Sei nuda. Te ne rendi conto quando l’aria che entra dalla finestra, dimenticata aperta, lambisce il tuo corpo e lo fa tremare. È una condizione alla quale oramai non fai più caso, pensi, essere nuda. Il tuo corpo ritratto, il tuo corpo amato e allo stesso tempo disprezzato, il tuo corpo linguaggio tra il tuo mondo visibile e quello invisibile: un filo sottile che lega il passato al presente. L’arte di lui che passa attraverso il tuo corpo.
Inginocchiata a sfregare il pavimento, con movimenti lenti della mano passi su tutte le piccole gocce di sangue che hai calpestato con i piedi. Procedi con metodo, dal lavandino alla porta dietro di te, che hai lasciato socchiusa per paura di sentirti soffocare. Non guardi al di là dello spiraglio, tieni gli occhi sulle tue mani che grattano sulle piastrelle. Non sai bene cosa ti aspetti una volta che varcherai quella soglia.
La passione si era presto tramutata in tormento. Frederick ti aveva preso a vivere con lui e ti aveva fatto prigioniera. Prigioniera della sua passione. Prigioniera perché tu eri, per lui, la sua ossessione pittorica fatta carne e non riusciva a pensare ad altro: il tuo corpo nel letto e il tuo corpo sulla tela. Grandi fondi dipinti di rosso carminio e il bianco della tua pelle.
Ma tu allora eri giovane, vent’anni più giovane di lui, e non capivi la differenza tra passione e dolore. Ti inebriavi delle sue frasi e della tua immagine ovunque. Chiamavi tutto ciò amore. «Lui mi ama, si prende cura di me», ti dicevi quando ti obbligava a stare ferma per ore mentre lui ti ritraeva. «Lui mi ama», pensavi anche quando invece si arrabbiava con te, quando litigavate perché avevi parlato per troppo tempo con un uomo alla sua mostra, o ti eri vestita troppo scollata.
«È il suo modo di amarmi», lo avevi perfino scusato il giorno che era ti arrivato dritto sulla guancia il primo schiaffo, dopo un litigio eccessivo e brutale, per un motivo così stupido che non riuscivi nemmeno a ricordare.

Seduta sul pavimento, nell’angolo più buio del bagno, abbracci le tue ginocchia. Non hai la forza di ritornare nell’altra stanza. Speri che il tempo si allunghi come un elastico, che si tenda all’infinito per non dover affrontare ciò che ti aspetta. Ma ora hai freddo, senti i brividi che corrono su per la schiena, non puoi più restare lì ferma, pensi nel momento in cui una folata di vento fa sbattere la finestra.
I tuoi fragili nervi ti fanno letteralmente saltare su dallo spavento, e ti ritrovi in piedi davanti alla porta. Con un lieve gesto delle dita la spingi. Intravvedi il letto semidisfatto pieno di fogli e pennelli. Di Frederick neanche l’ombra.

Anche fare l’amore, con gli anni, era diventato sofferenza: lui sempre più esigente e stravagante nelle sue richieste e tu sempre meno libera di poter dire di no. A te, che da bambina non ti era mai stata data la possibilità di imparare cosa fosse l’amore, sembrava una cosa normale che la tua anima non fosse rispettata. Non lo faceva tuo padre quando abusava di te e non lo faceva nemmeno Frederick quando ti sussurrava all’orecchio di amarti più di ogni altra cosa al mondo mentre ti legava al letto. Non ti ribellavi. Bastavano poche parole dolci per confonderti, pronunciate frettolosamente insieme al tuo nome: Natascia. Poche parole in cui nascondere la morbosità che teneva in piedi il vostro rapporto. E lui questo lo sapeva bene.
Intanto il tuo corpo abbandonava lentamente la freschezza dei vent’anni e questo Frederick non lo poteva sopportare. La frustrazione lo costringeva a portare a casa altre donne. Donne sempre più giovani e rigogliose come la sua pittura pretendeva. La sua vita era diventata un andirivieni di corpi pallidi e lisci, da dare in pasto al rosso vivo della tela dipinta di fresco. Unico rito capace di soddisfare la sua ossessione.

Prendi coraggio e ti avvicini al letto. Vedi i suoi piedi nudi spuntare da dietro le lenzuola stropicciate cadute sul pavimento. Ti siedi sul bordo del letto trattenendo il respiro. Resti ferma in una posa scomposta, come se fossi in bilico su uno strapiombo. Hai la nausea.
Non era così che volevi che fosse, pensi, ora è troppo tardi: non si torna più indietro.
Ti osservi intorno, in quella stanza le immagini di tutta la tua vita. Il passato è lì a ricordarti da dove vieni, ma è privo d’indicazioni su dove andare. Impantanata in sabbie mobili di pensieri inutili, non ti resta in mano che il presente scomodo. Lui è lì, supino sul pavimento, immobile in un lago di sangue. Tu non lo guardi e non guardi nemmeno il coltello da cucina che gli sta accanto. Non senti più nulla. Solo l’eco dei tuoi pensieri macinati fini dai sensi di colpa che si propaga in tutta la testa. Hai il voltastomaco. Non passa.
Poco più in là, sul cavalletto, l’ultimo tuo ritratto. Incompiuto. Ti avvicini lentamente per osservarlo meglio. Di quello stelo elegante e la sua corolla di petali non è rimasta traccia, svanito nel tempo. Ora in quelle pennellate chiare stenti a riconoscerti.
«È colpa tua!», urli girandoti di scatto verso il corpo senza vita di Frederick. Il Demone, ora, non ti fa più paura. In un rincorrersi di sensazioni più grandi di te, ti inginocchi vicino a lui, incurante del sangue che lo circonda. Le tue ginocchia si bagnano di rosso e così le tue mani al profumo di papaya. Le immergi completamente nel liquido ancora caldo e scoppi a piangere. «È colpa tua», sussurri.
Colta da un impulso violento ti ritrovi, con la rabbia tra i denti, a trattenere un conato. Non puoi farcela, pensi. Ti alzi di scatto. Gli occhi fissi sul dipinto incompiuto. Prendi un pennello dal letto, lo intingi nella pozza di sangue e con gesti lucidi e precisi riprendi le parti mancanti del fondo carminio. «Tutto ha un senso», pensi.
Ti infili il primo vestito che trovi in giro direttamente sulla pelle nuda, senza curarti delle impronte di sangue che le tue mani sporche lasciano ovunque. Afferri la tela con un gesto veloce mentre ti dirigi verso l’uscita, che varchi in silenzio, senza nemmeno voltarti.

giovedì 15 settembre 2011

martedì 16 agosto 2011

La Terre Mère


"Terre Mère" (work in progress)

One of nine photographs from the project "La Terre Mère"
©Donatella D'Angelo 2011


Ogni uomo ha bisogno di identificarsi in qualcosa che trascenda, trasfiguri, nobiliti, arricchisca la sua esistenza quotidiana individuale, ponendosi in contatto con un ordine simbolico superiore, rispetto al proprio corpo e alla propria vita.

Credo sia arrivato il momento per l’uomo di riacquistare la capacità di avvertire la dimensione animistica dei luoghi e degli esseri e che questa necessità possa risultare in un significativo passo in avanti sul cammino dell’individuazione dell’uomo stesso e della propria anima. Un ricongiungimento tra natura ed essere umano, un’integrazione reale che rifiuti lo sfruttamento feroce delle risorse naturali della terra da parte dell’uomo incentivando invece un’unione spirituale profonda tra le parti. Ricongiungimento che può avvenire attraverso un processo di semplificazione del pensiero e conseguentemente della società.

L’opera “La terre mère” è il prodotto di un lavoro autobiografico sulla ricerca del mio stesso centro simbolico attraverso il processo di semplificazione e ricongiungimento con la natura in cui la scelta del nudo e del particolare ha un forte connotato rappresentativo: il pube e la fertilità, la forma del triangolo con magia e spiritualità, la nudità come naturale semplificazione del pensiero.


©Donatella D’Angelo 2011

martedì 9 agosto 2011

le ricette di sunugal



scambio di sapori e saperi tra Italia e Senegal


Puoi sostenere l'associazione Sunugal con una donazione
tutte le info in terza di copertina.
Per ordinare la copia cartacea della rivista lascia nome e e-mail nei commenti
Grazie


mercoledì 8 giugno 2011

Del sole spento e della morte (2 puntata)




Aprivo gli occhi che era ancora buio con la sensazione che mi fossi appena addormentata. Non avevo la forza di guardare che ore fossero e mi tiravo il lenzuolo fin sopra al mento. Superato quell’attimo di smarrimento dove stentavo a riconoscere persino me stessa, cercavo di tornare alla calma rimbombante del sabato mattina. Non avevo motivo di alzarmi, mi giravo lentamente verso il muro a cercare una zona del letto più fresca, sperando di riaddormentarmi in fretta.

Con gli occhi chiusi aspettavo che il sonno tornasse a conquistare le mie membra, ma dopo qualche tempo l’attesa cominciava a essere troppo lunga. Sentivo un’inquietudine molle affiorare tra le lenzuola. Mi giravo di lato, cambiavo posizione alle gambe e poi alle braccia, ma i pensieri avevano ormai iniziato a lavorare. E quel lavorio mi teneva sveglia, quasi la mia attenzione fosse rapita dal rumore degli ingranaggi nel cervello che lentamente vanno a regime.

Volevo riempire la mente con il vuoto del silenzio per quietare l’ansia del risveglio precoce, ma lì, tra il sonno e la veglia, la tua immagine si manifestava invadente. Il tuo sorriso, incastonato nei miei pensieri, da giorni ormai non mi lasciava dormire. Riguardavo gli stessi fotogrammi all’infinito, studiavo i tuoi movimenti attraverso la costante ripetizione del nostro incontro.

Ma non era mai lo stesso, l’incontro. Aggiungevo un gesto che avrei voluto avessi compiuto, oppure toglievo uno sguardo che mi aveva messo in imbarazzo, lavorando l’evento come fossi alla moviola a montare una mia verità. Lo vivevo come un vero e proprio film, con una sceneggiatura originale scritta da me, dove noi protagonisti non seguivamo altro che la legge dei miei desideri.

Quello che non cambiavo, mai, nelle diverse scene, era il tuo sorriso. Quello non mi concedevo di alterarlo. Era qualcosa di inviolabile, che andava al di là del mio lavoro di regista. Un’opera d’arte, appena macchiata dall’ombra curva del tuo naso. Labbra tonde che piegavano alle estremità in due solchi che ricordavano le fossette sulle guance dei bambini. Un’attrazione tutta infantile a esaltare il tuo viso maturo, uno specchio in cui riflettersi.

Era l’emozione che provavo davanti all’assoluto di quel sorriso, il motivo della mia insonnia. Addormentarmi voleva dire congedarmi da quella ricchezza e io non ne ero capace. Lasciarlo andare era troppo difficile, temevo che quella sensazione non tornasse più, mi abbandonasse per sempre. Avevo paura di dimenticarmene e cercavo di tenere vivo il ricordo restando sveglia. Nel preciso momento in cui sentivo che il sonno stava per averla vinta mi aggrappavo a quell’immagine sperando di riuscire a trascinarla con me nel sogno insieme ai battiti accelerati del mio cuore pronto a esplodere.

Sabato era il giorno in cui ti avrei rivisto, o meglio, era il giorno in cui tu avresti visto quello che io volevo mostrare di me. Il pensiero dell’incontro mi procurava una scossa elettrica che correva per tutta la spina dorsale. Con gli occhi ormai spalancati rimanevo supina nel letto in attesa di cogliere il primo raggio di luce penetrare dalle persiane come esortazione a lasciare il letto. La luce, però, sembrava avesse deciso di non presentarsi all’appuntamento quella mattina. Avrei dovuto leggerci un segno; un avvertimento che l’intreccio della trama si sarebbe rivelato in seguito insolitamente oscuro.


1° puntata

sabato 4 giugno 2011

Fallen Angels

Angel #1 (virtual collage ©Donatella D'Angelo 2011)


Angel #2 (virtual collage ©Donatella D'Angelo 2011)


Angel #3 - Black Angel (virtual collage ©Donatella D'Angelo 2011)

mercoledì 25 maggio 2011

Motherhood in red

acilico su cartapesta e cartoncino
©2011 Donatella D'Angelo

intimacy in white

acrilico su cartapesta e cartone (33 x 37 cm)
©2011 Donatella D'Angelo

Del sole spento e della morte (1 puntata)




Nulla faceva presagire che sarebbe successo, perché niente sembra mai essere ciò che è in realtà. Non si ha la coscienza del dramma, di solito è destinato sempre agli altri; un modo imprudente di evocare il nostro senso d’immortalità.

Non penso tu mi abbia notato, trasparente come so essere io tra la folla, riesco a passare completamente inosservata. Un aspetto non trascurabile, la trasparenza, in un mondo come questo. Fatto di apparenze.

Io ti osservavo, invece. Seduto all’estremità opposta del tavolo, precario sulla sottile sedia in alluminio, che facevi dondolare su due gambe. Avanti e indietro a scatti, quasi a dire che avresti voluto essere da qualche altra parte; da qualsiasi altra parte, ma non lì, a riempire un locale già abbastanza affollato, un sabato sera uguale a tanti altri.

Noi si parlava e si rideva, ma tu restavi in silenzio. Il tuo era un silenzio nervoso, un silenzio lento con lievi accelerazioni. Che si alzava con te e ti seguiva mentre lasciavi il locale per rispondere al telefono.

I miei occhi, colpevoli di averti notato, provavano a fissare la tua immagine nella memoria nonostante tu, nella tua impercettibile danza, sfuggissi al loro contatto.

Ma è stato solo al momento dei saluti che ho sentito che ci saremmo rincontrati, quando ti è scappato un sorriso. Un sorriso semplice. Sorriso che avrei sofferto così tanto in seguito.

E così è stato. Ci siamo rivisti. Non più tardi di qualche settimana dopo quel sabato sera, uno scontro frontale nel bel mezzo del marciapiedi. Un attimo per capire dove mi avevi già visto e poi ancora quel sorriso.

Non ero poi così sicura che avessi veramente capito chi fossi, ma in quel momento non importava: mi stavi già invitando a bere un caffè.

«Che caso», hai ripetuto più volte tra una frase e l’altra, forse per colmare il vuoto dell’imbarazzo, ma io so che le coincidenze non vengono mai per caso. Tu questo non lo sapevi ancora.

Solo un attimo di esitazione, uno sguardo intorno e ti avviavi con le tazze di caffè verso l’unico tavolino libero, in fondo alla sala. Lontano dalla luce della vetrina.

Io mi sedevo accanto a te, scegliendo di stare a tre quarti. Non ero ancora pronta per incontrare il tuo sguardo diretto.

Nella penombra i tuoi lineamenti tornavano a essere gli stessi del sabato sera al locale, di un’intensità che la luce del sole non sapeva esaltare.

L’ombra marcata del naso, leggermente aquilino, che muore sulla guancia, la barba di qualche giorno con riflessi grigi a tradire l’età. La voce, quella no, non aveva età invece. Era profonda, dal petto.

Non ti facevo domande, non ce n’era bisogno. Orfano di quel silenzio che mi aveva catturato la prima volta che ti vidi, tu parlavi di te stesso senza timidezza alcuna. Nemmeno tu facevi domande, era quasi un monologo. Immerso nella tua necessità di raccontarti avevi lasciato freddare il caffè nella tazza senza berne nemmeno una goccia.

Ma io non ti ascoltavo, rapita dalla sovrapposizione della luce sulle zone d’ombra, studiavo il chiaroscuro del tuo viso, attenta a non farmi sorprendere. Pensavo che se avessi allungato la mano avrei potuto toccare quelle curve che l’ombra disegnava quasi in modo perfetto proprio a marcare le tue labbra in movimento.

Le mie mani, invece, erano ferme. Tenute giunte e adagiate sulle cosce sotto al tavolo. Mi sforzavo di tenerle immobili ora, perché sapevo che sarebbe venuto il loro momento, poi.

Mentre pagavi alla cassa, io attendevo sulla porta il tuo saluto e la conferma che ci saremmo rivisti. Un po’ un mio destino quello di attendere conferme.

«Allora, sabato?» mi ha detto avvicinandoti per baciarmi la guancia.

«Perfetto», ho risposto io voltandomi in modo che il bacio, finito poi sulle labbra, sembrasse casuale.

martedì 17 maggio 2011

troppe parole

Speech di Nicola Kane - dettaglio (*)

Troppe parole. Parole inutili, spogliate del loro significato, che riempiono vuoti incolmabili. Impilate come scatole di cartone. Parole rigurgitate in frasi sgrammaticate, in una contorsione linguistica adatta solo a biglietti d’auguri per amori improbabili.

Scritte in fretta per scacciare la noia. O la paura. Un movimento continuo che impedisce di riflettere; di accorgerti che sei solo e che non ti è mai piaciuto esserlo.

O meglio: che non sei mai stato capace di stare solo.

Temi l’immagine di te stesso e la proietti sull’altro in modo da vivere di luce riflessa. Non sei costretto a guardarti. Non ne saresti più capace ora, la luce diretta confonde la vista. Gli occhi ti fanno male e tu, di dolore, non ne vuoi sentire più. E lo giuri a te stesso.

È facile mantenere la promessa, ti viene restituito esattamente ciò che hai dato di te, una selezione prevedibile del meglio e del peggio. Così, per non restare mai deluso, dai e ricevi ciò che ti aspetti, senza alcun investimento emotivo. E nessuno sarà mai costretto a conoscerti per quello che sei: un capriccio del tempo.

Ti ritrovi in una continua masturbazione intellettuale a svendere le tue emozioni per un grammo di adrenalina. Non è questo a cui tu ambivi, ma la disperazione di una crisi di astinenza è ben peggiore e tu sai benissimo che non te la puoi permettere.




(*) Photos: Typographic interpretation. Martin Luther King’s ‘I Have a Dream’.

A hand rendered typographic interpretation of Martin Luther King’s ‘I Have a Dream’ speech. The piece focuses upon King’s use of metaphor, in particular his reference to land, drawing from landscape to create the form for the handwritten words. It also considers physical aspects of the 1963 march such as the steps upon which the speech was made, and the mass of people present as King spoke.

http://www.kith-kin.co.uk/presents/index.php/london-08/speech/

giovedì 21 aprile 2011

Bastava una sola parola per evitare che il sole si spegnesse

Battle of Bosworth by Philip James de Loutherbourg


Bastava una sola parola per evitare che il sole si spegnesse; bastava un gesto, semplice come un sorriso. Forse tanto semplice da diventare irraggiungibile, quel sorriso; tanto semplice da trasformarsi in smorfia di dolore.

Io ho affrontato la battaglia completamente disarmata, perché non ho mai saputo cosa fosse in realtà la guerra. La mia pelle nuda esposta a un mondo estraneo e un cielo senza sole, i miei unici ricordi.

Semplice per me, che vivo la lealtà come un credo; ma non per te, forse, che sei il mio opposto.

Ma io questo non l’ho capito in tempo e non ho saputo fare altro che spingerti verso un lago di non detto. Ti ho annegato, in quel lago, con le stesse mani con cui ti ho accarezzato. Ti ho sommerso di lacrime e di sangue finché non respiravi più.

E mentre vedevo la tua vita scivolare via, osservavo il cielo grigio riflettersi sull’acqua. Bastava una sola parola per evitare che il sole si spegnesse.

mercoledì 13 aprile 2011

il racconto L’ULTIMA CORSA di Donatella D’Angelo, in libreria!




"L'ultima corsa", un mio racconto,

Lo trovate a pag. 61 del libro

"DI CORSA ATTORNO AL MONDO"

di STEFANO MEDICI

(ed. ZonaContemporanea)

in libreria anche a MIlano dal 18 aprile 2011



vi anticipo l'incipit ...

L’ULTIMA CORSA di Donatella D’Angelo

«Ti asciughi le gocce di sudore sulla fronte con la manica della felpa. In realtà vorresti cancellare i pensieri che si affollano nella tua testa, un groviglio di frasi e immagini che ti provocano un dolore insopportabile. Le tempie ti pulsano, a ogni passo un colpo di scalpello scava in profondità. Hai l'impressione che il cervello possa esplodere fuori dalle orbite degli occhi, ma non ti vuoi fermare. Ti piace spingere oltre i tuoi limiti e sentire il fiato corto. È già quasi un’ora che corri e non ce la fai più. Fa freddo e il tuo sudore caldo si congela sulla schiena facendoti venire i brividi. I tuoi seni, costretti nel reggiseno a corsetto, sono doloranti. Vorresti poterli liberare e non sentire più lo sfregamento del tessuto sui capezzoli indolenziti.»



sabato 2 aprile 2011

rollio


È quel rollio che mi riporta indietro nel tempo; è quel dondolare sospinto dall’onda a darmi la nausea mentre chiudo gli occhi e lascio che sia il mio corpo a lasciarsi andare. Mi accascio e resto immobile.

Non era così che doveva essere. Penso. Mi avevano detto di non aver paura, di andare e uscire allo scoperto. Che era arrivato il momento giusto, ero pronta.

Invece tremo. Non riesco a muovermi e mi copro il viso con le mani. Le sento pulsare le ferite ancora aperte, il sangue scorrere sotto la pelle.

Avverto i passi del predatore che fiuta l’odore del mio sangue. Rosso cupo e denso. Si aggira poco lontano. Sa che ci sono e aspetta solo il momento di agire.

Mi stupisco di essere ancora viva. Vorrei potermene andare adesso, prima che si avvicini troppo, ma non ho la forza di tirarmi in piedi.

La vedo la strada, una strada alberata che corre dritta innanzi a me, di ghiaia bianca.

La strada da prendere. Non ci sono sponde a cui appoggiarmi e allora resto lì, aggrappata alle mie ginocchia.

Provo un dolore così profondo che incatena ogni mio pensiero a terra e io, incapace di prendere il volo, trattengo il respiro per non esistere e allontanare lo sciacallo. Non sono ancora morta.

Come l’eroe sulla via del ritorno, consapevole delle prove che lo aspettano, ma incapace di armarsi contro i nemici. Solo, in una lotta in cui nessuno lo può aiutare, nemmeno gli Dei, sa che prima o poi dovrà andare in guerra perché quello è il suo destino. Ed è anche il mio.

Intanto la testa continua a girare, la luce bianca che filtra dalle fessure mi confonde.

Vorrei che qualcuno mi venisse a prendere e mi portasse via. Magari in braccio. Vorrei concedermi una tregua, curarmi le ferite, vorrei poter guardare avanti senza abbassare lo sguardo. Vorrei essere un gatto che cade sempre in piedi.

Vorrei. Ma non oso.