SARAH
Lo hai tenuto nascosto a tua madre per molto tempo, prima di decidere di consegnarle in mano la tua confessione. Forse è il caso di dire la tua “dichiarazione”, che la parola confessione non ti è mai piaciuta. Un riconoscimento di uno stato d’essere, ecco come la vedi, in modo che tu possa accettarti in pieno per come sei. «Non ho proprio nulla da confessare», ti sei ripetuta spesso. La confessione rivela l'ammissione di una colpa, che colpa non è. E tu lo hai ben chiaro.
Non è facile nemmeno per te, ammettere la tua diversità, se di diversità si può parlare. Perché tu non ti senti affatto “diversa”, tu sei tu. Sei perfettamente uguale a te stessa, come eri quando ti sei sforzata di essere come dovevi essere, o meglio come gli altri pensavano che tu dovessi essere. Come persino tu pensavi che dovessi essere, facendo l’amore con quel ragazzo della quinta B alla sua festa di compleanno.
Hai cercato di trovare sensuale il modo in cui lui ti toccava. Hai provato a farti piacere la sensazione della sua lingua che preme contro la tua, trattenendo a stento un conato di vomito. Perché è così che ti avevano insegnato che avresti dovuto vivere la tua vita.
Nascondendo meglio che potevi l’avversione che provavi a contatto con la sua pelle sudata, hai lasciato che lui ti penetrasse, da prima lentamente, poi sempre più veloce, sperando di trovare in quel movimento ritmico una ragione abbastanza valida per restare insieme a lui.
E con lui poi ci sei stata per un anno intero cercando di convincere te stessa che quella repulsione era tutto uno sbaglio, che non era vero quello che si sussurrava tra i banchi, tu non eri così. Per negare anche a te stessa che quel corpo muscoloso non suscitava altro in te che il desiderio di scappare via.
Nell’ombra vivi i tuoi batticuore, che non riesci a vivere con lui. Quelli che ti manca il respiro solo al pensiero di un istante rubato, di una parola che indugia sulle labbra. Quelli dai lunghi capelli biondi disordinatamente arrotolati a crocchia sulla nuca a lasciare scoperto un angolo di collo, dagli occhi grandi che ti sussurrano: «Sarah, guardami».
E la notte di risvegli sola, nel sudore delle tue lenzuola, in preda all’ansia di non riuscire a essere quello che sei. Nel buio ricacci l’immagine di lei che ti sorride, la allontani chiudendo gli occhi e stringendo le palpebre con tutta la tua forza per sbarrare la via d’accesso, ma le immagini la strada del ritorno la trovano sempre.
«Mamma ti devo parlare», provi a prendere la via più lunga per avere tempo a sufficienza per disporre i pensieri in ordine logico. Hai elaborato migliaia di frasi, le hai mandate a memoria e recitate da sola davanti allo specchio. Ma la tua condizione è come una palla di piombo che con il suo peso accelera la caduta, e il tempo di pensare non lo trovi perché le parole sono già lì, dietro la lingua, che premono per uscire. Provi a ricacciarle giù deglutendo, ma invano, sono come appiccicate in gola. Cerchi nel fondo della memoria, rovisti tra le mille frasi fatte che ti sono sempre sembrate appropriate all’occasione, ma non ti ricordi più nulla. Riesci solo a pensarne una di frase, cinque parole messe in fila come soldatini, che non lasciano dubbi di sorta. Te ne devi liberare in fretta, come di un pasto rimasto sullo stomaco. Le devi sputare fuori con forza, quelle parole, per compensare l’impulso che arriva dal ventre. Nemmeno il timore di una sua reazione negativa riesce più a fermarle, perché quando la paura raggiunge l’apice implode silenziosamente, senza provocare alcun dolore.
Infine con gli occhi gonfi di lacrime che non vogliono scendere, ti arrendi allo sguardo interrogativo di tua madre che, seduta sul divano di fronte a te, attende paziente: «Mi sono innamorata di Helena».
Lo hai tenuto nascosto a tua madre per molto tempo, prima di decidere di consegnarle in mano la tua confessione. Forse è il caso di dire la tua “dichiarazione”, che la parola confessione non ti è mai piaciuta. Un riconoscimento di uno stato d’essere, ecco come la vedi, in modo che tu possa accettarti in pieno per come sei. «Non ho proprio nulla da confessare», ti sei ripetuta spesso. La confessione rivela l'ammissione di una colpa, che colpa non è. E tu lo hai ben chiaro.
Non è facile nemmeno per te, ammettere la tua diversità, se di diversità si può parlare. Perché tu non ti senti affatto “diversa”, tu sei tu. Sei perfettamente uguale a te stessa, come eri quando ti sei sforzata di essere come dovevi essere, o meglio come gli altri pensavano che tu dovessi essere. Come persino tu pensavi che dovessi essere, facendo l’amore con quel ragazzo della quinta B alla sua festa di compleanno.
Hai cercato di trovare sensuale il modo in cui lui ti toccava. Hai provato a farti piacere la sensazione della sua lingua che preme contro la tua, trattenendo a stento un conato di vomito. Perché è così che ti avevano insegnato che avresti dovuto vivere la tua vita.
Nascondendo meglio che potevi l’avversione che provavi a contatto con la sua pelle sudata, hai lasciato che lui ti penetrasse, da prima lentamente, poi sempre più veloce, sperando di trovare in quel movimento ritmico una ragione abbastanza valida per restare insieme a lui.
E con lui poi ci sei stata per un anno intero cercando di convincere te stessa che quella repulsione era tutto uno sbaglio, che non era vero quello che si sussurrava tra i banchi, tu non eri così. Per negare anche a te stessa che quel corpo muscoloso non suscitava altro in te che il desiderio di scappare via.
Nell’ombra vivi i tuoi batticuore, che non riesci a vivere con lui. Quelli che ti manca il respiro solo al pensiero di un istante rubato, di una parola che indugia sulle labbra. Quelli dai lunghi capelli biondi disordinatamente arrotolati a crocchia sulla nuca a lasciare scoperto un angolo di collo, dagli occhi grandi che ti sussurrano: «Sarah, guardami».
E la notte di risvegli sola, nel sudore delle tue lenzuola, in preda all’ansia di non riuscire a essere quello che sei. Nel buio ricacci l’immagine di lei che ti sorride, la allontani chiudendo gli occhi e stringendo le palpebre con tutta la tua forza per sbarrare la via d’accesso, ma le immagini la strada del ritorno la trovano sempre.
«Mamma ti devo parlare», provi a prendere la via più lunga per avere tempo a sufficienza per disporre i pensieri in ordine logico. Hai elaborato migliaia di frasi, le hai mandate a memoria e recitate da sola davanti allo specchio. Ma la tua condizione è come una palla di piombo che con il suo peso accelera la caduta, e il tempo di pensare non lo trovi perché le parole sono già lì, dietro la lingua, che premono per uscire. Provi a ricacciarle giù deglutendo, ma invano, sono come appiccicate in gola. Cerchi nel fondo della memoria, rovisti tra le mille frasi fatte che ti sono sempre sembrate appropriate all’occasione, ma non ti ricordi più nulla. Riesci solo a pensarne una di frase, cinque parole messe in fila come soldatini, che non lasciano dubbi di sorta. Te ne devi liberare in fretta, come di un pasto rimasto sullo stomaco. Le devi sputare fuori con forza, quelle parole, per compensare l’impulso che arriva dal ventre. Nemmeno il timore di una sua reazione negativa riesce più a fermarle, perché quando la paura raggiunge l’apice implode silenziosamente, senza provocare alcun dolore.
Infine con gli occhi gonfi di lacrime che non vogliono scendere, ti arrendi allo sguardo interrogativo di tua madre che, seduta sul divano di fronte a te, attende paziente: «Mi sono innamorata di Helena».